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    ABBIAMO L'ARMA DEGLI ANTICORPI MONOCLONALI E NON LA USIAMO - È UNA TERAPIA SALVAVITA SOPRATTUTTO PER I SOGGETTI IMMUNODEPRESSI, IPERTESI, DIABETICI, OBESI O ASMATICI CHE PRENDONO IL COVID-19, PERÒ I MEDICI NON LA PRESCRIVONO - COLPA DI POCA INFORMAZIONE E TROPPI CASINI BUROCRATICI: EPPURE ALL'UMBERTO I E AL CENTRO DI TOR VERGATA HANNO GIÀ FATTO UN CENTINAIO DI INFUSIONI, CON I PAZIENTI A RISCHIO CHE SI SONO NEGATIVIZZATI IN 7 GIORNI


     
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    Camilla Mozzetti per "Il Messaggero"

     

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    Angela - la chiameremo così - aveva paura. A fine marzo è risultata positiva al Covid-19 e la sua condizione di paziente affetta da obesità la spaventava. Perché gli obesi - e l'andamento della pandemia lo dimostra - rischiano di più se contraggono il virus.

     

    L'età inoltre, 68 anni, non giocava a favore sul decorso possibile della malattia. Eppure ieri Angela è guarita: si è negativizzata al virus dopo aver fatto un'infusione di anticorpi monoclonali a fine marzo.

     

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    Al Centro di Tor Vergata - uno dei 13 poli che nella Regione Lazio garantiscono la terapia monoclonale, ritenuta, studi scientifici alla mano, un vero salvavita per soggetti immunodepressi, ipertesi, diabetici, obesi o asmatici che contraggono il Covid-19 - non ci è arrivata però tramite il proprio medico di famiglia ma su consiglio di uno specialista che le ha suggerito, costatato il suo caso, di chiedere la possibilità di un'infusione.

     

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    Angela è stata fortunata e come lei tante altre persone che dalla metà di marzo hanno ottenuto il via libera per ricevere gli anticorpi monoclonali.

     

    IL PARADOSSO

    Ma nei giorni in cui i vaccini scarseggiano e si allontana la possibilità di raggiungere l'immunità di gregge in tempi brevi, si fa strada un dato paradossale e potenzialmente pericoloso: avere una terapia efficace per i positivi più fragili e a rischio complicazioni ma pochi camici bianchi disposti a prescriverla.

     

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    Tecnicamente il meccanismo funziona così: i medici di famiglia accertata la positività di un loro paziente e valutata la possibilità che quest'ultimo in base alle proprie condizioni possa sviluppare una forma grave della malattia da Sars-Cov-2 attivano in tempi celeri (tra i 3 e i 10 giorni) la procedura per fare in modo che il paziente raggiunga uno dei 13 centri regionali per la somministrazione dei monoclonali. Ma a oggi le prescrizioni scarseggiano o sono sempre i soliti camici bianchi a segnalarle.

     

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    Al policlinico Umberto I «sono state eseguite una sessantina di infusioni - spiega Claudio Mastroianni, direttore del centro monoclonale -, una parte dei pazienti è stata segnalata dai medici di famiglia ma molti altri sono persone passate per il pronto soccorso mentre abbiamo ricevuto una decina di richieste direttamente dai pazienti».

     

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    Positivi che hanno di loro iniziativa scritto al Policlinico per essere curati perché non riuscivano a contattare il proprio medico di famiglia oppure perché quest'ultimo non gli aveva paventato la possibilità della terapia. Lo stesso accade a Tor Vergata.

     

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    I RISULTATI

    A oggi, nei due ospedali, sono state trattati un centinaio di pazienti e concordano sia Mastroianni che Massimo Andreoni, primario di Tor Vergata, «alcuni pazienti si sono già negativizzati mentre pochissimi, due o tre, sono stati ricoverati ma non di certo in terapia intensiva».

     

    GLI ANTICORPI MONOCLONALI GLI ANTICORPI MONOCLONALI

    C'è un'arma a disposizione per combattere la malattia per chi rischia di più ma pochi soggetti capaci o volenterosi di capire come usarla. Il motivo? Lo spiega Alberto Chiriatti, vicesegretario regionale della Federazione italiana medici di medicina generale: «Molti colleghi stanno seguendo il protocollo molti altri no perché c'è una scarsa informazione al riguardo e la pratica per avviare la terapia è comunque lunga».

     

    anticorpi monoclonali 2 anticorpi monoclonali 2

    Le Asl della Regione hanno mandato ai medici una sola e-mail con il protocollo e le procedure da seguire. Nessun recall «o webinar utile a spiegare come comportarsi», conclude Chiriatti.

     

    Con il risultato di avere dei centri pronti anche a fare 40 infusioni al giorno senza però avere i pazienti. Che magari, trascorso il tempo massimo utile per la terapia, rischiano di finire ricoverati in gravi condizioni.

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