Eugenio Occorsio per “la Repubblica - Affari & Finanza”
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Uno dei paradossi connessi all'addio degli americani all'Afghanistan con il disastro che ne è conseguito, è che poche settimane prima - il 28 giugno - il Fondo Monetario aveva completato un approfondito esame della situazione del Paese e ne era uscito un risultato incoraggiante.
L'economia continuava a essere dipendente dagli aiuti esterni ma l'entità delle sovvenzioni, che non sembrava in discussione, aveva fatto sì che nel 2020, in cui anche qui la pandemia aveva colpito duro, la perdita del Pil fosse stata di non più del 2%, meno di Europa e Usa.
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Per quest'anno era previsto un rimbalzo del 2,5% grazie al continuo flusso di fondi americani, a 470 milioni di Diritti speciali di prelievo che il Fondo stava per concedere (ora congelati), ai 12 miliardi di aiuti straordinari che un pool di Paesi donatori aveva deciso di concedere nella conferenza di Ginevra di metà maggio per gli anni 2021-24.
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Niente più di tutto questo, e l'Afghanistan è entrato nel poco ambito club dei Paesi falliti. È in buona compagnia: questo gotha alla rovescia, in cui già da tempo figurano ospiti quali Somalia, Yemen, Libia o Venezuela, si era arricchito nel 2020, avverte Standard & Poor's, di sei membri, uno dei quali - il piccolo Stato sudamericano del Suriname - è fallito ben due volte in un anno, e un altro - l'Argentina - è una vecchia conoscenza di questi annali perché è al nono fallimento in quarant'anni. Gli altri sono Libano, Zambia, Belize, Ecuador.
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I motivi vanno dalla pandemia alla volatilità delle materie prime, fino ai crack bancari a catena (è il caso del Libano con l'aggiunta dell'esplosione dell'agosto 2020 con 210 morti). E ora c'è l'Afghanistan. Per tutti, il rating è impietoso: D (default) secondo la definizione di S&P' s e di Fitch, WR (without rating) per Moody's.
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Nessun creditore al mondo presterà più soldi a questi Paesi perché avrà l'assoluta certezza di non vederseli mai restituire. L'unica speranza di sopravvivenza per le popolazioni - oltre 580 milioni di persone fra Paesi già falliti e new entries - sono gli aiuti umanitari, o la fuga.
Dal Venezuela, in bancarotta ufficialmente nel 2019 ma già da molti anni in spaventosa crisi (inflazione nei 12 mesi da luglio 2020 a luglio 2021: +2.763%), sono usciti finora 5,6 milioni di abitanti.
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Quanti lasceranno l'Afghanistan (dal quale sono usciti già in 3 milioni dall'insediamento del primo Stato islamico nel 1996), nessuno è in grado di dirlo. E in Somalia qualcuno sta tentando di rientrare ma solo perché i tre campi profughi di Dadaab, in Kenia, a ridosso del confine Sud, aperti nel 1991, ospitano 218mila profughi: senonché il Kenia è a sua volta fallito e ha dovuto interrompere gli aiuti (che vengono comunque per la maggior parte dell'agenzia dell'Onu per i rifugiati).
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Così, sono 32mila i somali che hanno deciso di rientrare nel loro Paese in questi primi mesi dell'anno (secondo Unhcr) con un destino a dir poco incerto: a Mogadiscio non è stato ripristinato nulla di simile a uno Stato: legittimo governo, sicurezza, servizi pubblici, scuola, sanità. Le elezioni promesse dal 2012 sono appena state rinviate di altri due anni, le milizie di Al Shabaab spadroneggiano mentre il Covid dilaga e solo il 20 agosto sono arrivate grazie al Covax (l'alleanza fa Oms e Fondazione Gates) le prime 300mila dosi di vaccini.
Povertà e conflitti sono un binomio inscindibile. La World Bank ha provato a fare i conti dei costi dei crack. Per ora ha assegnato all'International Development Association, il suo braccio per le situazioni più disperate, un budget di 15,2 miliardi di dollari nel corrente esercizio, ma calcola che le necessità ammontino ad almeno quattro volte tanto.
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Ha anche formulato una proiezione al 2030: a fine decennio due terzi delle popolazioni in estrema povertà (cioè che vive con meno di 1,5 dollari al giorno, oggi quasi 800 milioni) vivrà in Paesi tormentati da conflitti. O a ridosso di essi: la crisi del Libano (che la stessa Banca Mondiale ha qualificato come «la più clamorosa bancarotta del mondo da cinquant'anni») è alimentata dalla guerra in Siria che priva Beirut del suo mercato di riferimento.
La crisi si è avvitata quando si sono essiccate le risorse di denaro dall'estero (lo chiamavano "la Svizzera del Medio Oriente"), bloccate dalla paura di investire in un Paese dove il 50% delle entrate fiscali serve a pagare gli interessi sul debito (170% del Pil), il deficit corrente è al 27% e la Banca centrale si è resa protagonista di operazioni di ingegneria finanziaria ben oltre il limite dell'incoscienza, vendendo al sistema bancario (il secondo al mondo in relazione al Pil con asset che valevano il 420% del prodotto) fette di debito pubblico in cambio di depositi in valuta estera su cui paga interessi insostenibili.
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Aggiungiamo un bel po' di corruzione e malaffare, che non mancano mai, ed ecco il crack. Dall'autunno 2019 la lira libanese ha perso il 90%, l'inflazione è all'86%, in due anni sono quadruplicati i prezzi dei beni di consumo. Il Paese non ha più soldi per comprare petrolio e sono agli sgoccioli le forniture veicolate clandestinamente tramite i buoni uffici delle milizie di Hezbollah dall'Iran (che è sotto embargo e infatti su questo l'Ue ha aperto un'indagine) col risultato di quotidiani blackout elettrici e interminabili file ai distributori.
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Il Fmi vorrebbe intervenire ma la stessa Hezbollah, prima forza politica, lo blocca perché vuole che prima l'America la cancelli dalla lista dei terroristi internazionali. Ancora più intricata la situazione dello Yemen - dichiarato fallito nel 2015 - diviso addirittura in quattro. Non c'è infatti solo il conflitto fra i ribelli Huthi e la coalizione di otto Stati arabi guidati dall'Arabia Saudita (con il supporto logistico degli Stati Uniti), ma una miriade di conflitti locali che hanno creato altre due enclave - compresa una in mano ad Al-Qaeda - del tutto ingovernabili.
Ma ovunque una guerra civile è l'anteprima del crack: Etiopia e Myanmar, con le questioni rispettivamente del Tigrai e dei Rohinga, massacrati dall'esercito, sono sull'orlo del baratro. La stessa S&P' s afferma che il 60% dei Paesi emergenti hanno un indebitamento a elevato rischio, "non investment grade".
Come sempre le questioni economiche sono alla base di genocidi, guerre, tragedie di popoli: il Tatmadaw birmano controlla il commercio di giada di cui il Myanmar detiene il 70% della produzione mondiale, che vale - secondo inchieste indipendenti - 31 miliardi di dollari: un terzo del Pil dell'intero Paese.