Angelo Carotenuto per “la Repubblica”
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La sera della famosa discussione in tv, Max Allegri aveva soli 19 giorni di Juve davanti a sé, ma non lo immaginava. Daniele Adani sa cosa si dice adesso di lui, scherzando: che un contributo all' esonero sia giunto dalle critiche del 28 aprile.
Soprattutto perché il successore è Sarri, di Allegri antitesi e di Adani riferimento: uno degli allenatori a cui il più aperto tra gli analisti della tv italiana, da anni a Sky, riconosce un ruolo di ricerca. Due mesi dopo, Adani ne parla per la prima volta.
Dinanzi all' evidenza che quelle idee hanno preso il Palazzo.
Una rivoluzione?
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«Non la chiamerei così. Era una strada inevitabile. Nel mondo si gioca per lasciare qualcosa. Vincere non basta più. La Juve aveva un percorso sicuro, ma non più congruo con la grandezza societaria né con le scelte dei club europei, la cui identità non dipende dai risultati. L' Italia non è un riferimento. Deve allinearsi. La Juve l' ha deliberato. Permetterà ad altri di seguirla senza remore. Poteva arrivarci un anno fa».
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C' è anche Giampaolo al Milan.Perché solo ora?
«Perché è meno faticoso connotare Sacchi e Sarri come eccezioni, anziché rinnovarsi e seguirli.
Ma i Sacchi e i Sarri nel mondo esistono.
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Ovunque. Guarda come gioca l' U20 della Nuova Zelanda. Avere cultura difensiva non vuol dire essere difensivisti. Sarri e Giampaolo sono due cultori del lavoro sulla linea difensiva. Il catenaccio, dipende dove lo fai. Il Milan di Sacchi nella metà campo avversaria. Dominio, proposta, il termine giusto è: un calcio del protagonismo. Ci ridono dietro se parliamo delle diagonali dei terzini.
Il ruolo è cambiato. Alexander-Arnold manda il Liverpool in finale con una giocata da strada, da oratorio, su corner, non con una copertura. Palleggiano più i terzini che i centrocampisti centrali. A certi livelli va preteso questo. Non esiste più una squadra che gioca bene senza coinvolgere il portiere. Palleggi all' indietro, porti nella tua area gli avversari e li scopri alle spalle».
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Si deve giocare in un modo solo?
«No. Esistono molti modi di vincere e di perdere. Non sempre una vittoria equivale a un successo, o la sconfitta a un fallimento. Un' idea di gioco dà coraggio. Idea e coraggio si dividono i compiti. Il punto è la produzione offensiva, non il possesso. Si può essere propositivi anche senza palla, come l' Atletico Madrid, con un recupero alto e la ripartenza di qualità. Non ci si può permettere di vincere 1-0 e dare merito al cinismo».
La teoria rende il calcio meno semplice?
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«Semplice non vuol dire banale. Parla di complicazioni chi non vuole adeguarsi. Chi ascolta è già adeguato. Cosa significa essere pop? Abbassare il livello del ragionamento e del linguaggio? Non credo. Un ascoltatore merita che un comunicatore lo spinga avanti. La teoria è l' anticamera della pratica.
I calciatori eseguono teorie. Scopo del calcio è emozionare. Bielsa non si misura con i trofei ma con l' eredità che lascia dove lavora. Se Guardiola forse l' allenatore più importante della storia - lo giudica il migliore, non lo fa per regalare complimenti.Dov' è l' emozione in una vittoria cinica? Il calcio è gioia. La gioia è far gol, non buttare la palla fuori».
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Perché con Allegri finì a quel modo?
«Io chiesi: uno come te che ha vinto 5 scudetti, che contributo può dare per crescere? Lui salvaguardava una posizione e rivendicava uno status. Perse la gestione della conversazione dimenticando che non parlava con me, ma con il pubblico attraverso me.
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In una discussione capita di alterarsi. È segno di passione. Ma tra gente di calcio non si evita un confronto sul calcio».
Ha pensato che potesse essere un nervo scoperto? Forse erano le stesse critiche che sentiva dentro la Juve?
«Non lo so. Io non lavoro scaldando una sedia. Un bravo analista deve tradurre in pensieri interessanti ciò che vede. Anche un contraddittorio, nei modi giusti, fa riflettere. Non vivo per il consenso, non credo di dividere, ma non mi interessa unire nella mediocrità».
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Allegri le disse: tu leggi libri. La prese come un' offesa?
«Ma no, mi veniva da ridere. Allegri ha con sé 20 persone che studiano. Il suo staff e i suoi analisti sono dentro le teorie. Libri. Ricerche. Relazioni. Abbiamo amici comuni».
Sarri alla Juve. Conte all' Inter. Totti e De Rossi via dalla Roma, Gattuso dal Milan. Che rapporto deve avere il calcio con i simboli?
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«Sono un luogo comune. Conta il valore delle persone, non delle carriere. In un mondo dove tutti accedono a tutto con un pulsante, non basta esibire un vecchio numero di maglia. Non si bluffa più. Se non ti rinnovi, non puoi avere ruoli operativi. Altra cosa è un ruolo iconico. Quello va difeso. Ma Cruyff non aveva idee immortali perché giocava bene».
I tifosi vogliono icone?
«I tifosi hanno il diritto totale di abbandonarsi all' amore per i simboli. È giusto rimanere legati a un volto e a un ricordo. La gente che ama, ha il diritto di essere guidata. Quale miglior guida di un' icona? Ma sono i simboli ad avere un onere. La gente li amerà in eterno, loro devono meritarlo. Non si può usufruire di un amore eterno senza ricambiare con uno sforzo, facendo affidamento su ciò che si è stato».
Come fa l' icona di una parte a essere figura di garanzia in tv?
«Io non sono stato icona di nessuno, non so come si sentano i colleghi leggende dei rispettivi club. So che la tv si fa in un modo solo. Preparandosi. La tv non è figurina. È contenuto».
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Lei come si prepara?
«Il calcio cambia. Anche se c' è il derby di Milano, non posso perdermi il Velez in Libertadores sapendo che Heinze è un allenatore emergente. Devo conoscerlo per essere adeguato quando avrò un confronto. Devo essere credibile quando mi chiedono se João Félix valga 120 milioni. Esistono gli Havertz, non solo Zaniolo. È una ricerca basata sull' ambizione di essere giusto nell' esposizione e sulla libertà di non scendere a compromessi con un contenuto. A Sky ho un gruppo di lavoro con cui mi trovo bene».
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Il calcio è diventato scientifico?
«Scientifico è un aggettivo che spaventa. Sembra che riduca le emozioni. Il calcio è un' offerta evoluta. L' allenatore ne è l' epicentro. Gestisce investimenti, la crescita delle persone, le emozioni di una città. Klopp non è meno importante di Salah, Pochettino pesa quanto Kane».
Cinque allenatori che la divertono?
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«Guardiola, Pochettino, Sarri, De Zerbi e Baldini della Carrarese. De Zerbi rappresenta il cambiamento. Trasforma la sua ossessione per il calcio in produzione creativa. La creatività non è un castigo per la praticità. De Zerbi è sempre in viaggio tra romanticismo e modernità. Lo studio genera intuizioni. Vale anche per giornalisti e presidenti».
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