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    “AHMED CI HA PROTETTI ANCHE QUESTA VOLTA” – LUCIA GORACCI, INVIATA DEL TG3 IN LIBANO, PARLA DELL’AGGRESSIONE CHE IERI A NORD DI SIDONE HA PROVOCATO UN INFARTO FATALE AD AHMED AKIL HAMZEH, AUTISTA DELLA SUA SQUADRA - "VOLEVANO SPACCARE TUTTO, VENDICARE LE VITTIME DEI RAID. POI LA RABBIA È DIVENTATA CONTAGIOSA E ANCHE ALTRI HANNO INIZIATO AD AGITARSI. UN UOMO HA SFILATO LE CHIAVI DELL’AUTOMOBILE AD AHMED. LUI CERCAVA DI FARSELE RIDARE. ED È STATO A QUEL PUNTO CHE…”


     
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    Marta Serafini per corriere.it - Estratti

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    «Aveva la mia stessa età, era nato e cresciuto tra le guerre ed è morto un anno dopo l’inizio dell’ultima».

    Prova a riavvolgere il nastro Lucia Goracci, inviata del Tg3 in Libano, dopo l’aggressione che ieri a Nord di Sidone ha provocato un infarto ad Ahmed Akil Hamzeh, autista della sua squadra, composta anche dall’operatore Marco Nicois e dalla producer Kinda Mahlouf.

     

    Lucia, prima di tutto come state tu, Marco e Kinda?

    «Siamo scossi. Sgomenti e addolorati. Lo spavento dura solo un attimo».

     

    Quando hai capito che la situazione stava precipitando?

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    «Eravamo arrivati a Jiyeh, a metà strada tra Beirut e Sidone, per parlare con i sopravvissuti di un bombardamento. Eravamo in una cittadina del Sud del Libano, sulle macerie fredde di un bombardamento avvenuto due giorni fa (tre per chi legge, ndr ). Il contesto era tranquillo, per quanto possibile in uno scenario di guerra. Poi un fratello delle vittime ha iniziato a urlare contro di noi. Un’esplosione di rabbia che può avvenire in situazioni già tese. Non voleva che cancellassimo le immagini, voleva spaccare tutto, spaccare noi, voleva che qualcuno pagasse per la sua perdita. Poi, mentre lui si faceva aggressivo, la rabbia è diventata contagiosa e anche altri hanno iniziato ad agitarsi».

     

    A quel punto cosa avete fatto?

    «Abbiamo deciso subito di andarcene. Prima l’uomo ha tentato di aggredirci con un sasso mentre eravamo in auto, voleva strappare la telecamera di Marco. Poi deve averci seguito lungo la strada.

     

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    Non so perché Ahmed si sia fermato, forse voleva farlo ragionare, parlarci, spiegargli che non eravamo lì contro di lui. O forse aveva iniziato a sentirsi male. L’uomo gli ha sfilato le chiavi dell’automobile. Lui cercava di farsele ridare. Ed è stato a quel punto che è andato giù».

     

    L’altro giorno a Beirut un’altra troupe è stata aggredita. In un contesto così complicato avete deciso di restare sul campo a lavorare. Non avete paura di ripercussioni?

    «Non siamo stati vittime di un agguato a mano armata, ma di un’aggressione, è diverso. Per questo restiamo. La nostra producer ha segnalato la nostra presenza a Hezbollah quando siamo arrivati, dunque non è stata un’azione organizzata. Ahmed era sciita, sapeva come entrare nelle situazioni in punta di piedi, attento, capace di proteggerci, ci ha protetto anche ieri».

    (...)

     

    Ieri durante la diretta delle 19 hai spiegato che non è stato possibile seppellire Ahmed nel suo villaggio per ragioni di sicurezza...

    «Sì e questo credo che dia l’idea di quanto sia complicato raccontare questa guerra. Per quanto il nostro lavoro sia connotato da una vocazione di terzietà veniamo da un mondo che percepiscono come diverso, come altro, e anche se ci sforziamo di entrare in punta di piedi, può non bastare e questa volta non è bastato».

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