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    “VORREI ESSERE RICORDATO COME UN MERAVIGLIOSO CANTORE DEL CULO” - IL “CINE-COLOGO” TINTO BRASS: "AVREI DOVUTO GIRARE “RAMBO” E “NOVE SETTIMANE E MEZZO" MA CI FU UN ERRORE DI VALUTAZIONE DEL PRODUTTORE DINO DE LAURENTIIS. IL RIFIUTO DI 'ARANCIA MECCANICA'? IN REALTÀ AVEVO ACCETTATO MA…" - "LE ATTRICI CHE HO LANCIATO? NON RICONOSCENTI. IN ITALIA LA MORALE SESSUALE È ANCORA INDIETRO” – E POI RIVELA IL SUO DESIDERIO… - VIDEO


     
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    Silvia M.C. Senette per https://corrieredelveneto.corriere.it/

     

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    Dopo quasi sessant’anni di attività Tinto Brass (all’anagrafe Giovanni Brass) è considerato ancora oggi uno dei registi più provocatori e polarizzanti del panorama italiano. Dopo quel «Chi lavora è perduto (In capo al mondo)» del 1963 sono arrivati titoli clou firmati dal maestro del cinema erotico di origini veneziane: tra tanti, «La chiave», «Capriccio», «Così fan tutte» e «Monella».

     

    Mentre si abbassavano i riflettori sul suo percorso creativo, Brass ha realizzato il progetto della sua autobiografia «Una passione libera», scritto assieme alla moglie Caterina Varzi. Oggi affronta le pagine più difficili e sofferte della sua vita — dopo la malattia — guardandosi indietro senza mai perdere la caustica e ironica profondità di analisi che hanno sempre contraddistinto la sua cifra artistica.

     

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    Maestro, lei è giunto alla ragguardevole soglia dei 90 anni dopo un’emorragia cerebrale, un ictus e due ischemie. La malattia è un’esperienza che l’ha cambiata?

    «Con la malattia si diventa più attenti e tutto ciò che nel quotidiano appare scontato assume un valore inestimabile».

     

    Come affronta questa nuova fase della sua vita?

    «Ho ritrovato la felicità rileggendo un passato che credevo perso per sempre. La memoria mi affascina quanto il montaggio e il lavoro per recuperare quella perduta è stata l’occasione per realizzare con l’intensità e la ricchezza di un’esperienza nuova: “Una passione libera”, un memoir senza censure edito da Marsilio Editore, scritto assieme a Caterina, che ripercorre i momenti più significativi della mia vita e della mia carriera. Ognuno ha una sua mitologia personale e un’autobiografia aiuta a comprenderla meglio. Scriverla, per me, è stato come onorare un debito con la vita dando senso al presente».

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    Pensa mai alla morte?

    «In uno stato di assoluta impotenza fisica la morte può sembrare una liberazione e io sono giunto a quel punto. Ogni uomo ha diritto a una morte dignitosa e davanti a un corpo segnato da malattie incurabili o da una definitiva perdita di coscienza si ha diritto alla decisione finale».

     

    Si definirebbe ancora «serenamente ateo»?

    «Sì. Ma se Dio è amore, non c’è nessuno più di me vicino a Dio».

    Lei è un uomo profondamente libero e non ha mai amato le mezze misure. Come vorrebbe essere ricordato?

    «Un meraviglioso cantore del culo».

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    E invece cosa la farebbe infuriare che si dicesse, dopo di lei?

    «Non c’è più niente di offensivo che non sia stato già detto o censurato dei miei film. Ai “posteriori” l’ardua sentenza».

    Eros e Thanatos - piacere e morte - dalla mitologia greca a Freud sono sempre stati concetti indissolubilmente legati. Lo sono anche per lei?

    «No, la vita potrebbe essere molto più bella se la diffamazione del piacere non subisse lo screditamento abusivo e sistematico di Thanatos».

     

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    La visione dell’erotismo com’è cambiata in questi ultimi anni?

    «La morale sessuale è uno degli aspetti in cui siamo progrediti di meno, benché spesso ci raccontino il contrario. Continua ancora a essere una colpa fare sesso o desiderarlo. In confronto alle questioni sessuali la tecnologia, la medicina e l’economia hanno fatto progressi infinitamente maggiori. Per diversi aspetti si è andati indietro, eppure poche cose come la nostra vita sessuale, inevitabilmente legata alla vita affettiva, determina la nostra felicità o l’infelicità».

     

    E l’amore che ruolo ha oggi nella sua vita?

    «L’amore è Caterina. Oltre alla bellezza e a una sensualità inconsueta, è una donna dotata di intelligenza e sensibilità disarmanti. Ho desiderato sposarla quasi da subito, tant’è che lo annunciavo continuamente a sua insaputa convinto che, prima o poi, mi avrebbe detto di sì».

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    E se avesse rifiutato?

    «Qualsiasi alternativa mi avrebbe costretto a passare gli anni più difficili della vita in una profonda solitudine. Invece sono convinto che la mia sia stata una ripartenza, ma anche una felice conclusione».

     

    Da Anna Galiena a Serena Grandi, da Claudia Koll a Stefania Sandrelli, Francesca Dellera, Silvana Mangano, Anna Ammirati e Debora Caprioglio, molte splendide donne sono state sue muse e hanno incarnato l’ideale erotico nei suoi film. La gratitudine è un sentimento che permea il mondo del cinema?

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    «La riconoscenza ha memoria breve. Si è ingrati all’insegna dei più impliciti rapporti di scambio nel mondo del cinema così come in ogni altro ambito professionale».

     

    Se dovesse girare il suo ultimo capolavoro, quale attrice incarnerebbe oggi i suoi canoni di sensualità?

    «Sarò ripetitivo, ma la donna che oggi mi ispira è Caterina. Lei incarna la protagonista di “Ziva. L’isola che non c’è”, il mio film più annunciato e mai realizzato, ma anche di “A sangue caldo”, la storia che rievoca lo scandalo dei marchesi Anna e Camillo Casati Stampa di Soncino, di “Vertigini” e di altri lavori che ho scritto o revisionato negli ultimi anni».

     

    Di quale dei suoi film va più orgoglioso ora?

    «L’urlo».

    C’è invece qualche film che, con il senno di poi, non rifarebbe più o che cambierebbe?

    «Non sono mai stato convinto del risultato finale di “Yankee (L’americano)”. Ne cambierei alcune sequenze, contaminando con più audacia il linguaggio cinematografico con quello del fumetto come, in effetti, era nelle mie intenzioni nel progetto originario. Un disegno ostacolato, però, nella realizzazione dalle liti con i produttori».

     

    tinto brass e claudia koll cosi fan tutte tinto brass e claudia koll cosi fan tutte

    Chi crede che abbia raccolto la sua eredità?

    «Non ho eredi. Invece continuo a guardare con ammirazione ai lavori di due registi scomparsi: Jean Vigo e Jean Renoir».

    In passato lei ha lavorato con i più grandi nomi del cinema: da Rossellini a Ivens, da Cavalcanti e Bolognini. Chi considera il suo maestro?

    «Roberto Rossellini e Joris Ivens sono stati i miei veri grandi maestri. Da loro ho imparato tutto quello che so sull’arte del montaggio e del cinema».

     

    Com’era lavorare con Rossellini?

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    «Quando Roberto mi propose di occuparmi del suo documentario sull’India accettai con grande entusiasmo. La sera visionavamo per ore e ore chilometri di pellicola e durante il montaggio del documentario nacquero momenti intimi ed esilaranti così come episodi di forte intensità emotiva. Quello fu davvero un periodo memorabile della mia vita».

     

    E Ivens? Come lo ricorda?

    «Con Ivens ho lavorato nel ruolo di aiuto regista al documentario “L’Italia non è un paese povero”. Un documentario in episodi voluto da Enrico Mattei focalizzato sui progressi apportati al Paese dall’industria energetica. Ivens dipinse l’Italia in una condizione da terzo mondo e i funzionari della Rai si rifiutarono di mandare in onda la versione integrale del film.

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    Il negativo originale e tutte le copie furono distrutti... tranne una. Ma io avevo accesso alla sala di montaggio: rubai quella copia e la portai a Ivens a Parigi. Soltanto nel 1977, grazie a un documentario di Stefano Missio, la vicenda è stata resa nota e quei contenuti censurati hanno visto la luce».

     

    Nella Parigi della Nouvelle Vague ha avuto modo di frequentare mostri sacri quali Godard e Truffaut. Come è successo di avvicinarli?

    «Alla fine degli anni Cinquanta grazie alla critica cinematografica, scrittrice e poetessa Lotte Eisner sono riuscito a introdurmi nell’ambiente della Cinémathèque française, dove fui incaricato di occuparmi degli archivi e delle proiezioni organizzate dal pioniere del restauro di pellicole Henri Langlois».

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    Com’era Parigi allora?

    «La Nouvelle Vague parigina era una realtà molto vivace. All’epoca Truffaut, Chabrol, Godard, Resnais, Rohmer e Rivet erano solo degli aspiranti registi come tanti. Dopo le proiezioni restavamo insieme a parlare del film visto e di cinema in generale. Discutevamo fino a notte fonda lungo i viali di Parigi o nelle brasserie. In quella compagnia eccezionale ho messo a fuoco che il mezzo privilegiato per comunicare con lo spettatore non è la trama, bensì le scelte stilistiche, il significante».

     

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    Anni più tardi le fu offerto di girare «Arancia Meccanica» e lei rifiutò. Si è mai pentito?

    «In realtà avevo accettato. Avevo deciso di girare “Arancia meccanica” a condizione, però, di realizzare prima “L’urlo”, ma quando sono tornato in Italia il progetto è stato proposto a Kubrik. La pellicola fece molto scalpore ma non ho rimpianti, sono fiero di aver girato “L’urlo”: una scelta rabbiosa e utopica che dava corpo agli umori rivoluzionari dell’epoca».

     

    C’è qualcosa a cui ripensa con rammarico?

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    «Nell’arco della mia carriera ci sono state altre due grosse occasioni mancate, ma per un errore di valutazione del produttore, Dino De Laurentiis: “Rambo” e “9 settimane e ½”».

     

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    Lei ha firmato tanti titoli audaci. Nell’era del politicamente corretto e — allo stesso tempo — della massima esibizione, cosa ritiene ancora osceno?

    «L’ipocrisia».

    A 88 anni cos’è per lei la libertà?

    «Una ricerca ancora inestinguibile».

    Se potesse esprimere un solo desiderio, oggi, quale sarebbe?

    «Girare il trentunesimo film».

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