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    AI TAMPONI RAPIDI “FAI DA TE” SFUGGE UN POSITIVO SU QUATTRO - I TEST ESEGUITI DA PERSONALE ESPERTO, PER ESEMPIO IN FARMACIA, POSSONO DARE IL 10% DI FALSI NEGATIVI. LA PERCENTUALE AUMENTA CON I DISPOSITIVI USATI A CASA – IL PUNGIDITO NON INDICA SE L’INFEZIONE È IN ATTO O SIA AVVENUTA IN PASSATO. ECCO QUANDO BISOGNA SOTTOPORSI A UN TEST SIEROLOGICO…


     
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    Laura Cuppini per corriere.it

     

     

     

    In quali casi bisogna sottoporsi al tampone?

    tamponi rapidi tamponi rapidi

    Esistono tre situazioni: il contatto con un soggetto positivo, l’insorgere di sintomi che facciano pensare a Covid e la prevenzione, in vista di un incontro con persone fragili (immunodepressi, pazienti oncologici, trapiantati). I vaccinati con 2 o 3 dosi possono infettarsi, ma meno dei non vaccinati; possono contagiare, in percentuale ancora minore; e sono protetti al 95% circa dalla malattia severa. Quindi, in mancanza di sintomi o di tracciamento richiesto dall’Azienda sanitaria locale, non è necessario che si sottopongano a un tampone.

     

    Quali tipi di test si possono utilizzare?

    Test rapidi Test rapidi

    Il tampone molecolare è il più affidabile per la diagnosi di infezione da coronavirus. Viene eseguito su un campione prelevato a livello naso orofaringeo e il margine di errore è praticamente zero, perché viene rilevata la presenza del genoma virale anche in soggetti con bassa carica, pre-sintomatici o asintomatici. I test antigenici (rapidi) sono sensibili alle proteine virali. Ne esistono diversi tipi, dagli immunocromatografici lateral flow (prima generazione) ai test a lettura immunofluorescente (seconda generazione), che offrono migliori prestazioni. I test di ultima generazione (immunofluorescenza con lettura in microfluidica) sembrano mostrare risultati sovrapponibili ai molecolari, se eseguiti nel modo giusto.

     

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    «Il test antigenico può dare un range di falsi negativi compreso tra il 10 e il 25 per cento, a seconda che venga effettuato da una persona esperta, per esempio in farmacia, o meno — afferma Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione microbiologi clinici italiani e della Federazione italiana società scientifiche di laboratorio —. Questo significa che con i rapidi “fai da te”, si rischia di avere risultati inesatti in un caso su quattro, dato che la positività non viene rilevata. Ciò avviene perché non è facile effettuare da soli in modo corretto il prelievo naso orofaringeo che, come sappiamo, deve provocare un po’ di fastidio».

     

    E i salivari?

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    I test rapidi su saliva non sono raccomandati, perché non raggiungono i livelli minimi accettabili di sensibilità (capacità di individuare i positivi, cioè i malati) e specificità (capacità di individuare i negativi). Sono pertanto esclusi dall’elenco europeo dei test validi per ottenere il green pass. «La qualità del campione di saliva è soggetta a molte variabili, per esempio il tempo trascorso dall’assunzione di cibo o bevande e il modo in cui si è tenuto in bocca il tampone — sottolinea Clerici —: in generale i test di questo tipo offrono meno garanzie rispetto a quelli che analizzano un campione naso orofaringeo».

     

    Che cos’è il pungidito?

    Si tratta di un test sierologico che misura la presenza o meno di anticorpi nel sangue, ma senza misurarne la quantità. Nel caso gli anticorpi siano presenti, non indica se l’infezione è in atto o è avvenuta in passato.

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    Quando serve sottoporsi a un test sierologico?

    In questo momento non è utile effettuare questo esame (a meno che non venga richiesto da un medico), neppure in vista della vaccinazione anti Covid. Non esiste infatti un metodo standard ed è quindi possibile avere risultati diversi ripetendo il test in vari laboratori. Inoltre non conosciamo il «correlato di protezione» di Sars-CoV-2, ovvero il livello di anticorpi necessario per difenderci dall’infezione. «Gli studi sono in corso, nel mio come in altri laboratori — afferma Clerici —: la raccolta dei dati sarà completata a un anno dalle prime vaccinazioni di massa, iniziate a marzo 2020. Ricordo che per l’epatite B sono serviti 5-6 anni per arrivare a definire il “correlato di protezione”. Nel caso di Covid basteranno invece 12 mesi. Quando lo studio, che è coordinato dall’Istituto superiore di sanità, sarà terminato sapremo qual è il livello di anticorpi che può realmente proteggerci dal coronavirus e da tutte le sue possibili varianti».

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