Benjamin Genocchio per news.artnet.com
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Okwui Enwezor ce l’ha messa tutta per ri-disegnare la Biennale di Venezia. La “sua” Biennale lo fa sembrare niente più e niente meno di ciò che è: un uomo della sua terra. La mostra può essere descritta come la più cupa, infelice e brutta che Venezia possa ricordare. Nel nome del cambiamento sociale e dell’azione, la mostra sconcerta i visitatori con teorie politiche, più che regalare il piacere della vera arte. La visione del mondo di Enwezor è sconfortante, cupa e depressa.
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Il compito della Biennale, giunta alla sua 120esima edizione, è ancora quello di dare diverse, e a volte conflittuali, letture di ciò che significa fare arte oggi. Per questo motivo si può dissentire dalla visione utopistica di Enwezor per quanto riguarda l’arte – io dissento - ma il mondo si trova di fatto davanti a grandi crisi e il futuro è più incerto che mai. Per questo vale la pena esplorare come queste forze influenzino gli artisti.
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Enwezor, di origini nigeriane, è famoso per il suo interesse per la geopolitica e il convinto approccio anti-capitalistico nei confronti dell’arte. Come curatore, nutre dubbi fin sul tema generale dell’esposizione: “Tutti i Futuri del Mondo”. Ma, ancora più rilevante, la mostra sembra avere forti dubbi su di lui e sul tipo di arte che cerca di promuovere. Tutti sanno infatti che il mercato gioca un ruolo fondamentale nell’arte contemporanea, e ignorare il mercato e le sue implicazioni può risultare naïve e controproducente.
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Enwezor cerca di evidenziare tramite l’arte il malcontento riguardo allo stato attuale delle cose. Le persone sono stanche delle logiche che dominano il mondo dell’arte, logiche che accentuano la diseguaglianza tra gli artisti in maniera anche distruttiva. La risposta a questa situazione è stata affidare all’architetto David Adjaye la costruzione di uno spazio all’interno del padiglione Italia, dove gli artisti sono stati invitati a leggere i capisaldi della letteratura politica. Per esempio Isaac Julien ha contribuito leggendo quattro volumi del “Capitale” di Marx, cosa che ha provocato le risa e le proteste degli altri artisti, che si sono chiesti cosa centrassero Enwezor e Marx nel contesto di una Biennale.
Ma sembra senza senso continuare a discutere sul tema della biennale. Quella andata in scena è la visione del mondo di Enwezor, tramite l’arte che lui ammira. Non so come mai non ci sia stato nemmeno un briciolo di compassione, di amore, di bellezza o di speranza. Nel complesso era tutto così disperante e grigio da escludere qualsivoglia sussulto di piacere estetico e divertimento. Sembra che il curatore abbia usato la mostra per giustificare la sua visione del mondo anti-capitalista, decentrata e profondamente anti-americana. Cosa che a mio parere serve solo a nascondere quelle che sono le vere forze in gioco nel mondo d’oggi.
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Da queste premesse “All the World’s Futures” passa in rassegna tutta la miseria del nostro tempo. Dall’Ebola alle guerre civili, il traffico di esseri umani, le catastrofi naturali e lo sfruttamento. È tutto qui, racchiuso in opere talmente concettuali da essere in molti casi didattiche, didattiche in una maniera noiosa.
Questo show moralizzante è allestito in maniera da sembrare un’accozzaglia di opere isolate, più che una raccolta organica sullo stesso tema. Sotto il punto di vista organizzativo, poi, la mostra è un vero casino. Ma forse fa parte di quel decentramento tanto caro al curatore.
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Anche Lorna Simpson, Adrian Piper, Steve McQueen, Chantal Akerman, Georg Baselitz, Chris Marker, Melvin Edwards, e Katharina Grosse sono sulla lista del curatore, e tutti con buoni lavori che sembrano allineati con il tema e decisamente rilevanti nel contesto attuale. L’artista Theaster Gates si è presentato con un nuovo filmato e, al padiglione italiano dei Giardini, Robert Smithson ha esposto “Dead Tree”, una scultura naturale del 1969.
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Grandi tende nere pendono dal padiglione italiano, facendolo sembrare una veglia funebre. L’arte mondiale è a lutto? Dentro il padiglione, insieme al lavoro di Robert Smithson, c’è il video di Christian Boltanski di un uomo che vomita sangue, un’altra stanza è stata pitturata con i teschi da Marlene Dumas. Morte e violenza sono ovunque. Anche quando compaiono bellezza e felicità, come nel quadro dell’aborigena australiana Emily Kame Kngwarreye, “Earths Creation”, 1994, tutto è adombrato dalla triste condizione in cui vivono gli aborigeni. Generalmente guardo la CNN o la BCC quando voglio la mia dose di notizie tristi, non le opere della Biennale.
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Per una mostra che doveva parlare del futuro, è strano come molti artisti scelti da Enwezor rimangano nel passato. Anche i suoi eroici storici dell’arte sembrano venire da un’altra epoca – Walker Evans, per esempio, è un artista che lui ammira e le cui opere sono alla biennale. In questo senso “All the World’s Future” guarda profondamente al passato: il curatore cerca nel passato risposte all’importanza dell’arte come nuova strada verso il futuro. È nostalgico e utopistico, nel senso buono, credere nell’idea che l’arte e gli artisti possano cambiare il mondo. Ma dopotutto, come esperienza visiva, è assolutamente tetra e sconcertante.
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