Estratto dell'articolo di Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera”
lesley lokko
Decolonizzare il mondo, ma poi? C’è una frase di Anatole France all’ingresso dell’Arsenale, dove è ospitata una parte della XVIII Biennale di Architettura intitolata The Laboratory of the Future , che spiega a cosa siamo davanti: «Dobbiamo morire da una vita per entrare in un’altra».
Quest’altra, per chi vuole pianificarla per i nipotini, è ecoafricana, ibrida, fluida, carbon-free ma… mancherà anche lo sciacquone? Al Padiglione finlandese, infatti, spiegano che il 30% del consumo dell’acqua se ne va per lavar via le feci che, se raccolte con la toilette a secco, potrebbero servire per la concimazione.
Dunque leggiamo questa Biennale di architettura africana e della diaspora africana al via dopodomani, una Biennale di giovani e impegnate ragazze nere (quasi una risposta alle influencer occidentali all blonde ), partendo da dove ci aveva lasciato l’ Essai sur l’Architecture dell’abate Marc-Antoine Laugier (1755) con la sua «capanna primitiva», modello di tutte le architetture.
the laboratory of the future di lesley lokko alla biennale architettura
In Occidente, quest’archetipo si è evoluto con l’Illuminismo e, poi, con la Rivoluzione industriale e la civiltà dei consumi, che ha saccheggiato le risorse e si è imposta come istituzione totale al servizio del colonialismo. Per la curatrice Lesley Lokko (ieri polemiche per il visto negato a tre giovani ghanesi del suo team...) possiamo uscire dall’ultrasbandierata apocalisse ecologica affidandoci alla nuova generazione africana, che non avendo abbracciato Illuminismo e Capitalismo riparte dalla «capanna» di Laugier e appare comunitaria, solidale e con passione per l’ingegneria digitale.
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francis kere
Ai Giardini ci sono le pratiche della diaspora africana. Modesta l’installazione (Counteract) del protagonista più noto, Francis Kéré; più interessanti una sorta di biblioteca del riciclo di Ibrahim Mahama (che nel 2015 aveva ricoperto di sacchi di iuta la calle parallela alle Corderie), il richiamo a non trasformare l’Africa in un Luna Park di Olalekan Jeyifous mentre, per chi spasima di vedere progetti d’architettura, ci sono il prototipo della New Town di Koffi & Diabaté Architects e le maquette di Adjaye Associates, che sono architetture postcoloniali, ovvero «narrazioni fuori dal canone dominante». Sempre ad Adjaye Associates si deve l’installazione (eh diciamolo!) «iconica» della mostra: la grande «tenda» o «capanna» di legno nera alle Gaggiandre dell’Arsenale. Si chiama Kwaee , che in ghanese vuol dire foresta, ed è una «costruzione abitabile passiva».
Le «Dangerous liason» dell’Arsenale non sono da confondere con le Liasons dangereuses di Choderlos de Laclos: il tema non cambia, è sempre come declinare la visione antioccidentalista di Edward Said, ma c’è più varietà con le architetture ibride che si riferiscono all’Africa di practitioner di tutto il mondo. C’è gaiezza, poco disegno e molta materialità.
L’enorme muro della Sweet Water Foundation (Usa) vuole contrastare la logica dicotomica o/o, noi/altri; il Co-living del cinese Zao è un laboratorio di coesistenza, i «ghebbi» del duo AD-WO sono degli spazi ibridi e instabili che contengono tutte le funzioni umane mentre la Cartografia negra racconta storie di brasiliani di colore.
festus jackson davis umbrella kaneshie market from the air accra ghana
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Molti padiglioni nazionali (su quello italiano ci soffermeremo in seguito) declinano questi temi, a parte l’Ucraina che avendo altri problemi ricrea uno spazio claustrofobico e una rete da fortificazione del X secolo riattivata intorno a Kiev per la guerra.
biennale architettura 2023 roberto cicutto lesley lokko
Spettacolare il paesaggio apocalittico del Lussemburgo; lavorano sulla materia Arabia Saudita e Uzbekistan con tegole in 3D e un labirinto di mattoni in ceramica mentre il Padiglione della Germania è «aperto per lavori di manutenzione». Il vecchio europeo rimpiangerà l’assenza di tracce di Storia, identità, stile se non decontestualizzate: giusto una foto della moschea di Timbuktu, un pantheon di Piranesi come sfondo di un collage materico e un malinconico violino abbandonato dalla Scozia, Paese dove è nata la ghanese Lokko (e Cremona?).
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