Pierangelo Sapegno per “La Stampa”
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È stato ucciso senza una ragione da un vagabondo, nella hall dell'hotel Londra di Alessandria, dove faceva il portiere di notte. Albertino voleva fare il cantante della tv per dare un senso ai suoi sogni di bambino prodigio, e l'hanno ammazzato come ha vissuto, perché fino alla fine l'ha tradito il destino. A volte sembra che la morte sia fatta per la vita che abbiamo, crudele come la buona sorte che ci ha sfiorato senza che riuscissimo a prenderla.
Questa è la storia di Alberto Faravelli, che incideva dischi come Albertino quando andava alla Rai da Mike Bongiorno, e che faceva il portiere di notte, a 69 anni, per rimpinguare i 700 euro o giù di lì di «minima» che gli sarebbero toccati di pensione.
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L'hanno trovato due turisti all'una e 30 scorgendolo nel buio, riverso in una grande pozza di sangue dietro al bancone dell'albergo, quattro stelle e memorie di Belle Époque. I carabinieri hanno fermato un uomo di 46 anni, un italiano senza fissa dimora, inchiodato forse dalle immagini delle telecamere. Avrebbe colpito violentemente la sua vittima con il primo oggetto che ha trovato lì vicino, in uno scatto d'ira. Nessuno è riuscito a capire perché.
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Ma la vita stonata di Albertino ha sempre avuto tante domande senza risposte. Abitava a Tortona, in una palazzina decorosa con gli alberi e i cespugli che fanno ombre gentili, e sul citofono c'era il suo nome accanto a quello della mamma, Faravelli Quaglia, perché per un motivo o per l'altro non era mai stato capace di raggiungere la tranquillità di una moglie, di una casa, di una sua famiglia.
Da bambino dovevano avergli fatto credere che aveva un grande destino davanti a sé. Suo zio era un personaggio famoso, il Maestro Remo Panario, che aveva una bottega di barbiere, ma fra un taglio di capelli e l'altro, soprattutto insegnava musica alle giovani generazioni e anche a quelle più piccole.
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Il Maestro aveva una sua banda, faceva teatro, ed era finito pure protagonista in un libro che racconta quegli anni ruggenti, «Liverpool, via Emilia». Fa crescere un mucchio di ragazzi di buone speranze, e uno diventò famoso, come Donatello, entrato nella hit parade con «Io mi fermo qui», melodia da lenti, guance contro guance e occhi chiusi, perché allora si usava così. Altri girano ancora le balere adesso con i loro complessi, come Michele Ventura, grande amico di Albertino.
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Su di lui, Albertino, il Maestro punta tanto. Gli scrive le canzoni, lo porta a teatro, nelle riviste, ritagliandogli un quadretto tutto suo, anche se non ha ancora dieci anni. Sale su uno sgabello vestito da galeotto, e canta «L'evaso», musica di Panario e parole di Marziano Canegallo.
Va allo Zecchino d'oro, e poi va anche da Mike Bongiorno, alla Fiera dei Sogni, un gioco a quiz, che lui spera di vincere per andare a Disneyland. E lui vince, e va a Disneyland con papà. La vita sembra come quelle cose che si vedono nei film. Quand'era piccolo e lo portavano dentro a quelle sale fumose, dalle finestrelle quadrate in alto scendevano lampi bluastri e sbuffi di fumo che annunciavano la scintilla alla base di quella stregoneria chiamata cinematografo.
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Era questo il senso che avevano quegli anni per lui. Era quella scintilla, l'emozione che provavi in quegli attimi, quando sapevi che il film ti avrebbe portato in posti lontani, che non erano mai banali. Lì era come una chiesa, dove i sogni prendevano vita in quelle schegge di luce.
Le ha conservate tutte quelle foto, lui alla Rai, vestito come un ometto, accanto a Gino Bramieri, o a Mike Bongiorno, o che sorride con papà Ettore davanti a Disneyland. Era così bellino, un po' grassottello, com'è rimasto poi quand'è cresciuto e la vita non è stata più quella che sembrava. Ma allora era un bambino prodigio, e c'era un'onda da rincorrere, gli fecero incidere anche dei 45 giri.
Michele Ventura faceva l'apprendista parrucchiere dal Maestro Remo Panario, ma tagliare i capelli va bene, solo che la sua passione è rimasta la musica e lui ancora oggi gira con la sua band, I Beathovens. E dice che ad Alberto è rimasto attaccato lo stesso amore. Storie di provincia e di un mondo lontano. Michele ricorda però che suo zio ci credeva tanto e gli aveva scritto apposta una canzone, che cantava anche in teatro.
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S'intitolava «Il divo», e diceva così: «Voi non mi conoscete perché sono piccino, ma un giorno sentirete parlare di Albertino, e per televisione, quel giorno canterò per voi questa canzone, nel Faravelli show». Poi non è andata così. Dentro al suo cinematografo, la scintilla s'è fermata lì e la pellicola non ha mai girato. Si sono abbassate le luci, il mormorìo s'è taciuto, ma il proiettore ha fatto solo un chioccio ronzio e basta, prima di bloccarsi. È stata così la vita di Albertino. Gli è rimasta la passione della musica, ma non il suo avvenire, non il suo luminoso palcoscenico.
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È salito sulle navi da crociera e ha girato gli oceani, suonando le tastiere e cantando i brani degli altri, quelli famosi. E se per caso trovava qualcuno che lo conosceva, ci parlava, ma le sue canzoni, L'evaso e Il divo, quelle non poteva più farle. Non se l'era dimenticate.
Quando tornava a casa le strimpellava per ridere, con Michele, o con sua sorella, Antonella, che suona il basso anche lei, in un gruppo che si chiama «Le Serenelle». È un tempo finito, doveva aver pensato questo.
Il vento l'ha visto passare, gli ha soffiato accanto, ma cosa ne sanno gli altri, quelli che non capiscono neanche che cos' è, questo soffio della vita, questa scintilla del cinema. Cosa ne sa un vagabondo che ti uccide dei segreti racchiusi nei sogni, delle loro sconfitte. L'hanno trovato così, Albertino, con la testa reclinata sulla federa inamidata e la sua divisa da portiere.
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