Estratto dell'articolo di Renato Franco per il “Corriere della Sera”
L’incontro più significativo e folle?
alberto fortis
«Con Paul McCartney negli studi di Abbey Road dove entrambi stavamo registrando. Era un luogo organizzato in maniera molto british, durante la pausa ci si vedeva tutti in mensa. Io avevo la tremarella quando parlai con lui ma nonostante l’enorme successo fui colpito dall’aspetto friendly da ragazzotto di Liverpool; fu molto affabile, gentile. Poi arrivò la moglie Linda con Stella bambina in una mano e una canna enorme nell’altra: would you like some joint? Mi chiese se volevo fumare come se fosse la cosa più naturale del mondo».
A Los Angeles ha conosciuto Tina Turner.
«Dopo il suo concerto presi una limousine con lei per andare a cena. Ricordo la grande umanità di questa donna, la carica, l’impressione della vicinanza con il mito».
Come fu aprire il concerto di James Brown nel 1979?
«Lo conobbi durante la famigerata vestizione, con il suo personal che gli infilava il mantello e lo vestiva con gesti rituali. Io avevo pubblicato solo il mio primo singolo, ero atterrito e incosciente, mi aspettavo che mi tirassero le lattine — era la simpatica usanza allora nei confronti dei supporter — invece mi arrivarono le mutandine delle ragazze in prima fila. Fu un debutto veramente rock».
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Nel 1992 invece salì sul palco prima di Bob Dylan.
«Era in buona quel giorno, chiacchierammo e mi disse una frase che mi rimase impressa, tra il romantico e l’esoterico: noi artisti non creiamo niente, andiamo a prendere cose scritte nell’aria, tutto dipende da quanto sono lunghe le nostre ».
Alberto Fortis nei primi anni 80 ebbe un successo clamoroso, in classifica era dietro a Michael Jackson e ai Dire Straits («sono molto orgoglioso di essere stato in scia a dei colossi»), diede sonorità pop alla canzone d’autore.
Un bagliore che poi non ha saputo ripetere perché non è un cantautore nostalgico a cui piace replicare il già fatto («si tende sempre a voler da te la stessa cosa, ma sono un libero battitore e ho sempre fatto ciò che la musa mi ha ispirato nell’animo»). Fuori dal mainstream continua la sua lunga carriera, tra concerti e nuovi brani: ha da poco pubblicato un brano latin pop, Mambo Tango & Cha Cha Cha .
alberto fortis
Nato e cresciuto a Domodossola, medie e liceo al famigerato collegio Rosmini.
«Era molto duro, lì per lì ho odiato quel posto ma oggi lo ringrazio per la formazione che mi ha dato. Tra i compagni di scuola avevo principi e conti, ma anche gente da “raddrizzare” tipo Andrea Ghira, quello del massacro del Circeo. Lo mandarono via dopo un anno e mezzo».
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La tengono fermo per due anni e mezzo.
«Io scalpitavo, avevo la promessa di realizzare la mia prima opera, ma niente. Era un tempo enorme, così sbottai con le famose canzoni Milano e Vincenzo e A voi romani ».
Nella prima se la prendeva con il discografico Vincenzo Micocci (poi avete fatto pace): «Io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere».
Nella seconda cantava: «E vi odio voi romani / Brutta banda di ruffiani e di intriganti / Siete falsi come Giuda, e dirvi Giuda è un complimento».
«Nacquero quasi di getto, dall’incazzatura dell’epoca. A voi romani fu un casus belli. I due obiettivi erano la discografia che faceva male al sistema e l’apparato socio-burocratico di Roma che per un ragazzo giovane e ingenuo come me era inconcepibile».
Baudo non la prese bene.
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«Ero andato a fare un’intervista in Rai, finisco e sento la sua voce inconfondibile: Ma chi è questo incivile? Lo voglio vedere, lo voglio incontrare! Ci incontrammo e lui capì che non ero un bifolco, siamo anche diventati amici. Certo quella canzone mi ha causato parecchi problemi, fui marchiato con la lettera scarlatta ai piani alti della discografia e della Rai».
Quando lo stigma autoimpresso è stato superato?
«Anche chi mi metteva i bastoni tra le ruote ha dovuto cedere alla legge “triste” dei numeri, il successo mi aprì diverse porte».
Il Festival di Sanremo rimane un vuoto?
«Siamo in quattro ad avere il record di non averlo mai fatto: io, De Gregori, Branduardi e Ligabue che poi è salito sul palco come ospite. Ai tempi me lo chiesero due volte e dissi di no, era troppo orientato alla canzone nazionalpopolare. Ora ci andrei subito».
Il suo è stato un successo travolgente.
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«Dopo i concerti non si riusciva ad andare via dai palazzetti, si stava almeno un’ora nei camerini, perché ti ritrovavi tra le 600 e le 800 persone ad aspettarti. Una volta che riuscivi a entrare nel van iniziavi a sentire il rumore sordo delle mani che battono sui vetri. Rossana Casale, la mia fidanzata, ogni tanto piangeva perché non ne poteva più».
Le vertigini dell’altezza. Cosa ricorda più volentieri dei suoi anni all’apice?
«Una cosa buffa, i sit-in sotto il palazzo dove abitavo in via Rovello a Milano, non si riusciva a entrare. Quando uscivo alla mattina trovavo già le ragazze sul pianerottolo di casa; tra il quarto piano — dove abitavo — e il secondo i muri erano pieni di graffiti e scritte con dediche e numeri di telefono».
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