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    “NON C’È NIENTE DI PIÙ IPOCRITA CHE RIGETTARE L’IPOCRISIA” – ALBERTO MATTIOLI IN DIFESA DI UN VIZIO PRIVATO CHE SI TRASFORMA IN PUBBLICA VIRTÙ: “LA VITA ASSOCIATA DIVENTEREBBE IMPOSSIBILE, SE DICESSIMO SEMPRE QUELLO CHE PENSIAMO. NELLA QUOTIDIANITÀ UNA CERTA DOSE DI DISSIMULAZIONE EQUIVALE ALLA BUONA EDUCAZIONE, IN DEMOCRAZIA È NECESSARIA PER VINCERE LE ELEZIONI E INDISPENSABILE PER GOVERNARE. NEMMENO IL TRIONFO DEL POLITICAMENTE CORRETTO HA SCONFITTO L’IPOCRISIA. ANZI, L’HA RILANCIATA…”


     
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    Estratto dell'articolo di Alberto Mattioli per “La Stampa”

     

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    L’ipocrisia è forse un vizio privato, ma di certo è una pubblica virtù. Di tutti i mali sociali, sicuramente il minore, a patto di maneggiarlo con una certa souplesse. Ma non c’è niente di più ipocrita che rigettare l’ipocrisia. La vita associata diventerebbe impossibile, se dicessimo sempre quello che pensiamo (poi, vabbè, i più non pensano quel che dicono, disabituati come sono alla riflessione: ma affrontiamo un problema per volta).

     

    […]  dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità può risultare pericoloso in tribunale, figuriamoci nella vita di tutti i giorni.

     

    rene magritte ipocrisia rene magritte ipocrisia

    Nella sfera privata, una certa dose di ipocrisia equivale, in sostanza, alla buona educazione. Nessuno può onestamente accusarci di essere dei farisei quanto flautiamo «No, non mi disturbi affatto» al molestatore telefonico che invece sì, disturba e pure molto. Né imbianchiamo molti sepolcri mostrandoci cortesissimi con chi in realtà detestiamo. Sarà pure dissimulazione, e forse nemmeno onesta, ma dire sempre la verità equivale a una condanna alla morte sociale.

     

    Semmai, qui giova una certa dose di ironia: le iperboli con cui esaltiamo con il diretto interessato articoli pessimi, libri illeggibili, outfit improbabili e comportamenti in realtà censurabilissimi dovrebbero fargli capire che c’è qualcosa sotto, che forse non è proprio così, che magari lo stiamo garbatamente prendendo per il beeep.

     

    ALBERTO MATTIOLI ALBERTO MATTIOLI

    Ma quasi tutti hanno un ego così espanso da prendere per buoni apprezzamenti che risulterebbero esagerati per un premio Nobel vincitore anche dell’Oscar, del Pulitzer e della Coppa dei campioni. Forse i più intelligenti capiranno che qualcosa non torna, ma saranno comunque lusingati: «ed io fingendo di non capir le frodi / in coppa di bugie bevo le lodi», come canta la mezzana Arnalta nell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi, contemporanea più o meno di Accetto. Anche qui, basta non esagerare.

     

    […]  Diceva un principe Corsini del Settecento, svenato dalle spese per la beatificazione di un antenato: «Figli miei, siate virtuosi ma non santi. Costa troppo».

     

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    Ma naturalmente è il pubblico che ci interessa di più. Qui la democrazia ha le sue colpe. Una modica quantità di ipocrisia è necessaria per vincere le elezioni e indispensabile per governare. Nell’ancien régime, delle classi dirigenti dispensate per diritto di nascita dal consenso potevano praticare il cinismo senza nemmeno mascherarlo, a parte per qualche tardivo rimorso di coscienza: e allora abbiamo la pia Maria Teresa d’Austria che si commuove sulla sorte dei poveri polacchi che si era appena spartiti (chiosa di un altro spartitore, Federico il grande, che di scrupoli invece non ne aveva alcuno: «Piange, ma prende»).

     

    […] Notava qualcuno che il congresso di Vienna, gestito da un pugno di aristocratici in splendida solitudine, senza minimamente consultare le popolazioni interessate, assicurò all’Europa un secolo senza guerre generalizzate; il trattato di Versailles, firmato in nome della democrazia, fu seguito da un’altra guerra mondiale dopo appena vent’anni.

     

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    Nemmeno il trionfo del politicamente corretto ha sconfitto l’ipocrisia. Anzi, l’ha rilanciata. Si parva licet, ricordo i festival di Cannes nella fase acuta del #metoo, con una continua, giusta denuncia dei soprusi maschili e la rivendicazione del talento femminile. Di giorno, simposi e incontri per dire che il corpo delle donne non è una merce; la sera, gran sfilata di bellone smutandate, lì appunto in quanto corpi, meri appendiabiti delle griffe più celebri.

     

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    La realtà è che senza una modica quantità di ipocrisia, possibilmente gestita con un minimo di eleganza, la società non sta in piedi. Anzi, quelle più solide sono, forse, anche quelle più ipocrite. Vedi l’Inghilterra vittoriana, dove nelle case dei bravi borghesi si coprivano di mussolina le gambe delle sedie.

     

    Nella sua deliziosa autobiografia, Agatha Christie - classe 1890 - raccontò di essere stata ripresa dalla sua bambinaia per aver parlato delle gambe della Regina: «La Regina non ha gambe». E cos’ha, nannie? «La Regina ha membra». In compenso, nessuno faceva un plissé per le ragazzine tredicenni che si prostituivano per le strade, anche se William Gladstone, primo ministro per quattro volte, usciva personalmente dal numero 10 di Downing Street per andare a redimerle con una Bibbia in mano.

     

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    E tuttavia questa società così ipocrita era straordinariamente coesa e creò il più grande impero di sempre, spedendo cannoniere in tutto il mondo a colonizzare e cristianizzare gli indigeni, naturalmente «per il loro bene». Del resto, come si sa, l’Inquisizione non ha mai bruciato un solo eretico o sodomita o giudaizzante: si limitava a condannarli e a passarli al braccio secolare, che provvedesse lui a farli flambé. Beata, anzi santa ipocrisia.

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