Ilario Lombardo Francesco Moscatelli per la Stampa - Estratti
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Alla fine questo vertice, dove in sostanza non si è deciso granché, dovrà aver raggiunto almeno un obiettivo: mostrare che la Nato è unita ed è più forte. In questa fotografia di famiglia Giorgia Meloni c'è, anche se dentro di sé vive il disagio di chi deve gestire un governo spaccato, con un leader, Matteo Salvini, che continua a perseguire l'idea che l'Ucraina si aiuta dialogando con Vladimir Putin. Una convinzione che secondo la presidente del Consiglio non ha radici nella realtà, ma solo – ha detto l'altra sera arrivando a Washington – nella «propaganda russa».
All'hotel St. Regis, a pochi passi dalla Casa Bianca, c'è un via vai di delegazioni, gli staff del governo italiano si mescolano e si confrontano.
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(...) L'equazione secondo la quale «più armi si inviano più la guerra va avanti», incisa sui social da Salvini martedì sera, ha irritato non poco Meloni. Un'uscita che ha un tempismo preciso, chirurgico: perché nelle stesse ore lei è alle prese con il vertice dell'Alleanza Atlantica e il presidente Joe Biden ringrazia il governo italiano – lo stesso in cui il leghista siede da vicepremier – per la spedizione a Kiev di sistemi di difesa e missilistici.
Il botta e risposta a distanza è continuo. Gli strappi in Europa di Orbán sono il principale argomento di discussione a Washington. Il viaggio dell'ungherese a Mosca, nei primi giorni di presidenza di turno della Ue ha spiazzato i partner. Poi, la nascita dei Patrioti, il nuovo gruppo di sovranisti battezzato da Orbán assieme a Salvini e Marine Le Pen, ha scombussolato gli equilibri a destra e, dopo la visita al Cremlino, fatto scattare il cordone sanitario nell'Europarlamento.
A interpretare la posizione più critica nel governo italiano è Tajani: «Orbán non ha il mandato Ue quando fa questi viaggi. Stia attento a non indebolire l'unità dell'Europa e della Nato». Un giudizio che si fa ancora più aspro quando gli chiedono quali siano gli orizzonti politici dei Patrioti: «Le forze estremiste sono isolate, irrilevanti. Non svolgeranno un ruolo nemmeno in questa legislatura europea».
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Parole che scatenano immediatamente i pretoriani di Salvini in Parlamento. Il capogruppo in Senato Massimiliano Romeo difende Orbán: «Andrebbe lodato». Mentre il vicesegretario Andrea Crippa ribadisce la contrarierà all'incremento di armi: «In questo momento l'aumento degli aiuti Nato non fa altro che innalzare il rischio di un'escalation militare e di un coinvolgimento diretto nel conflitto».
Un tempo anche solo metà di questa dichiarazione avrebbe imposto una crisi di governo: perché il secondo partito più rappresentativo della maggioranza ha esplicitamente una linea di politica internazionale contraria alla presidenza del Consiglio. Invece, come in passato, per Tajani e Crosetto conterà cosa farà la Lega in Parlamento. Quella è la linea rossa che ha fissato anche Meloni. «Fino ad adesso non hanno votato contro i pacchetti di aiuti all'Ucraina», è il concetto che ribadirà Meloni, assieme a un altro invito, rivolto implicitamente a Salvini, di «non fare il gioco della propaganda russa».
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Tajani sa che un buon viatico per placare i leghisti più scettici sarebbe affidare all'Italia l'inviato Nato per il fronte sud e il Medioriente. Un candidato c'è, si chiama Alessio Nardi, ma la concorrenza con la Spagna si è fatta molto dura in queste ore.
A Meloni non sfuggono i contraccolpi politici degli impegni militari. Sa che è difficile far digerire all'opinione pubblica italiana l'aumento della spesa e l'obiettivo Nato di arrivare al 2% di Pil. Anche per questo durante il suo intervento al vertice ha precisato che il «sostegno italiano all'Ucraina continuerà, ma sarà mirato ed efficace». Una razionalizzazione obbligata, secondo la premier, per evitare «duplicazioni», visto che «96 cittadini dell'Ue su 100 sono anche di una nazione Nato, e il bilancio nazionale al quale attingiamo è sempre lo stesso».
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C'è la consapevolezza di una difficoltà economica enorme, che - ammettono da Palazzo Chigi – si somma alle incertezze sui mercati dopo il voto francese. Non è facile in questo contesto parlare di armi e Meloni si trova anche a dover sminare i prossimi assalti della Lega. In realtà, il fronte filo-atlantista del governo è consapevole che la Lega è lacerata al suo interno. C'è chi guarda a Donald Trump e alla sua vittoria elettorale, per chiudere in fretta il conflitto, senza troppo pensare se saranno tradite le richieste degli ucraini. E c'è invece chi non vuole cedere al putinismo.
Da Washington persino Lorenzo Fontana, presidente della Camera, e per anni l'uomo che costruiva alleanze in Europa per conto di Salvini, ha parlato di un «convinto sostegno all'Ucraina a cui oggi torniamo a confermare la nostra concreta vicinanza e la piena volontà di essere al suo fianco nel grande sforzo di resistenza che sta compiendo». Inequivocabile anche la posizione del presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, da tempo impegnato a tessere relazioni da una parte all'altra dell'Atlantico.
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Basta leggere il messaggio pronunciato domenica scorsa in occasione della visita del papa a Trieste. La pace, sostiene «se non ottenuta con la tutela degli aggrediti, sarebbe una resa». Che metterebbe «a rischio il futuro di pace del continente, indebolito anche da una mancata e imprescindibile condanna dell'aggressore».
Parole che rimettono al centro il concetto di pace giusta, riconoscendo fino in fondo le responsabilità del Cremlino. Quella parte della Lega che si riconosce nel pragmatismo dei governatori, poi, ha qualche dubbio anche sulla scelta di Salvini di aderire al gruppo dei Patrioti. Stesse perplessità che ha il presidente della Camera. Il partito degli amministratori teme infatti che il posizionamento della Lega accanto a Orbán e agli altri partiti filo-putiniani condannerà il generale Roberto Vannacci e gli altri eletti a cinque anni di irrilevanza. «Isolarsi – avvertono - non è mai una bella idea».
matteo salvini e massimiliano fedriga