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    ALL’OPERA ROMA VA IN SCENA UNO SPETTACOLO DA URLO, CHE SE LO SOGNANO LONDRA E NEW YORK: LA MAGISTRALE MESSA IN SCENA DEL CAPOLAVORO DI BRECHT-WEILL ''MAHAGONNY'' CON LA REGIA PAZZESCA DI GRAHAM VICK, CHE CITA L’OGGI CON L’ISIS E I MIGRANTI


     
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    Carla Moreni per Il Domenicale del Sole 24 Ore

     

    Tan Sri Francis Yeoh - Fuortes Tan Sri Francis Yeoh - Fuortes

    Vi ricordate il Coro sulla scena del Costanzi, che quando doveva alzarsi – dopo il «Va’ pensiero» – impiegava un tempo infinito, tra goffaggini di palandrane e puntelli di mani e ginocchia? E quando sciupava le immobili alchimie giapponesi di Bob Wilson? Vi ricordate le corse del pubblico, a fine spettacolo, scappa scappa e nemmeno un briciolo di applausi cortesi? Dimenticate tutto.

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    Il teatro di Roma è cambiato, radicalmente, non assomiglia più al passato, di qui e di là del sipario, e in maniera impressionante rispetto agli altri in Italia. L’ennesima conferma è arrivata da questa Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Brecht-Weill, messa come scommessa a chiusura della stagione 2014-15 e ponte verso la prossima, che si aprirà a fine novembre con The Bassarids di Henze.

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    Mentre di solito in autunno i teatri poltroneggiano su avanzi e cascami, qui si è partiti con i coltelli affilati della novità di Adams (I was looking ) e di questa nuova produzione di Graham Vick. 


    La sua Mahagonny , la terza, in un catalogo infinito, colpisce per la perfetta definizione teatrale, l’introspezione umanistica, l’attenzione ai giovani. Più che opera politica, la celebre composizione dei trentenni Kurt Weill e Bertold Brecht, al debutto nel 1930 e subito messa al bando dalla Germania nazista, diventa riflessione sul tempo.

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    Il tempo che corrode chi detiene il potere nella neonata città di Mahagonny, creata per caso da tre balordi inseguiti dalla polizia. Senza etica, dove vale solo il principio del comprare. Vick trasforma il deserto del libretto in una asettica sala di aeroporto. Contenitore freddo, lunare, nella scena di Stuart Nunn: luogo immaginario, subito associabile all’idea di partenze e arrivi.

     

    E il pubblico ride quando dall’alto calano i cartelli (esattamente come voleva il didascalico teatro di Brecht e Weill) dove però si indicano i caselli dei pedaggi in autostrada. Si entra. Si paga. «Sex-sex-sex», promette la scia luminosa che scorre a metà scena. Arriveranno qui anche le fiumane dei profughi veri, raccolte in rapido riassunto fotografico e proiettate su alti schermi?

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    Inevitabile il raccordo col presente, dato che di migranti parla Mahagonny . Come inevitabile che il condannato a morte Jim Mahoney, l’eroe dell’opera, sia vestito con la tuta arancione (perfettamente stirata) delle vittime dell’Isis. Ma sono pennellate, in una lettura dove invece la chiave è lo scorrere ossuto del tempo.

     

    Vick, musicista, coglie vicinanze tra l’impiccagione di Jim, silhouette di spalle, su una seggiolina nera (dopo i trionfi di grottesco del secondo atto, tra eccessi disgustosi di viscere animali e cannibalismo) e la solitudine di Papageno. Con una autocitazione mette nel finale carrozzine, bastoni, stampelle per flebo, trasformando il tremolante e incanutito popolo di Mahagonny in quello di Sarastro, come estati fa in una contestatissima produzione del Flauto magico a Salisburgo.

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    Nel mondo di vecchi, i giovani (e Jim) vengono buttati come spazzatura in un cassonetto giallo. Il gesto è pop, di ironia sbrigativa british. La riflessione amara. Realizzata con perfezione di racconto (due mesi di prove) magistrale. Vick ottiene tutto quello che vuole: dai 25 allievi dell’Accademia Silvio D’Amico uno sfondo fatto di velocità e immedesimazione perfetta; dai cantanti una vocalità sempre sui ruoli, spiccatissima, e sono da citare in particolare Iris Vermillon, Measha Brueggergosman, Willard White e lo struggente Brenden Gunnell;

     

    dai coristi una presenza individuale incredibile. Nella scena dell’arrivo di massa a Mahagonny, ciascuno indossa un abito diverso, in abbondanza di divise chiesastiche e militari e il contrappunto vocale immacolato di Gabbiani diventa anche gioco di caratteri visivi.

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    Il misto di Lied, musical e “Trivialmusik” non sempre viene valorizzato dalla direzione di John Axelrod. Qualcuno al primo intervallo scappa. Ma il trionfo finale, di applausi convinti, anche del tanto pubblico di liceali catturati in sala, è emozionante sorpresa. Il teatro vero vince. 
     

     


    Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Kurt Weill; direttore John Axelrod, regia di Graham Vick; Roma, Teatro dell’Opera; fino al 17 novembre
     

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