Pierluigi Panza per Corriere della Sera
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Dov’è finito il virtuale? Nel 2008, con la Biennale intitolata Architecture Beyond Building di Aaron Betsky, la materia e le grandi dimensioni sembravano archiviate persino per la più concreta delle Belle arti: l’architettura. Attraverso simulazioni, proiezioni, giochi virtuali e spazi immateriali, il web — più del Capitalismo — sembrava riuscito ad anestetizzare l’estetica degli individui riducendoli «a una dimensione», come scriveva il filosofo Herbert Marcuse nel 1964.
Sette anni dopo, Venezia, la città più liquida della storia del mondo, pare riconnettersi alla materia e alla terra. E volersi riattaccare saldamente, proponendo opere gigantesche, che hanno creato non poche difficoltà di trasporto in laguna.
La mostra curata da Okwui Enwezor, All the World’s Futures , sembra aver bandito simulazioni virtuali, app, pixel e tutto ciò che l’effimero apparato «social» propone come contemporanea escatologia. Niente plastica, niente visual-data. Al loro posto le grandi parole al neon di Bruce Nauman, le centinaia di coltelli piantati per terra di Abdessemed, un’enorme arena che è «il sistema nervoso centrale della mostra» (Enwezor). E poi i teli neri di Murillo al Padiglione centrale alti una quindicina di metri, le trombe e il tamburo gigante ( Muffled Drums ) di Terry Adkins all’Arsenale alto sette metri, le gigantesche tele con figure a testa in giù di Georg Baselitz.
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Quando non sono le grandi dimensioni, sono i grandi numeri a fare massa. I 75 lupi feroci che intendono azzannare una Pietà di Michelangelo (sarebbero un grido di denuncia contro gli attacchi al cattolicesimo), proposti dal cinese Liu Ruo Wang per il padiglione di San Marino, ieri pomeriggio non volevano proprio entrare dallo stretto portone del Centro Telecom per occuparne il chiostro.
Alla Fondazione Cini sull’Isola di San Marco le 110 figure acefale della polacca Magdalena Abakanowicz sembrano un esercito di terracotta composto da individui senza identità. Abbiamo altri esempi di questa tendenza all’Ateneo Veneto, dove la cinese Zhang Hong Mei propone una monumentale opera di 12 metri che riprende le antiche pitture dell’epoca Han e anche alla Fondazione Vedova ( Frammenti Expo ’67.
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Alexander Calder e Emilio Vedova , a cura di Germano Celant), dove ruota sopra la testa dei visitatori la gigantesca forma in alluminio proposta da Vedova all’Expo di Montreal nel ’67, che serviva per riverberare sul pubblico quanto riflesso dagli schermi.
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Infine, anche nei circuiti più radical internazionali la memoria e la grande dimensione hanno occupato tutti gli spazi. Settimana scorsa, al Guggenheim è arrivato dallo Iowa (resterà fino al 14 settembre, a cura di Philip Rylands) il più grande Murale di Jackson Pollock, lungo sei metri di denso colore. A Ca’ Corner, da Prada, la mostra Serial / Portable curata da Salvatore Settis propone al piano terra i calchi in gesso in dimensioni naturali delle grandi statue dell’antichità e al primo la gigantesca riproduzione dell’ Ercole Farnese .
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Il ritorno all’ideologia, riveduta e corretta dai salotti newyorkesi, non è certo la via percorribile come alternativa al pragmatismo decorativo di Jeff Koons e compagni, ovvero all’arte sostenuta dal sistema finanziario e dalle maison di moda. Meglio, semmai, arroccare con le proposte d’archivio, con la memoria, il recupero, la riproposta, il calco... Comunque sia, essersi presi un quarto d’ora di liberazione dal fideismo per il virtuale può consentire l’avvio