Simonetta Fiori per “la Repubblica”
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La proposta di intervista era stata avanzata con cautela, come si conviene con Altan. Un rapido scambio di mail. «Verrei a trovarla, sempre che, causa persecuzione, non si rivolga ad Amnesty International». Laconica la replica: «Ho trovato occupato il numero di Amnesty». Ed eccoci a casa del disegnatore più geniale e meno facondo nella storia della satira. Le sue vignette sono state raccolte in Colpi di coda (Gallucci), straordinario racconto per parabole della crisi italiana.
Un disegno con poche battute, e tutto è rivelato nella sua verità essenziale. Luoghi comuni e pigrizie identitarie, ipocrisie del linguaggio pubblico. Sembra non esserci scampo. Si ride perché confortati dalla rivelazione. Ma il boccone da inghiottire è ogni giorno più amaro. Il piccolo miracolo avviene in una grande casa carica di storia e lontana dal mondo. Estesi prati di un verde lucente, macchie colorate di lantana e una magione dalle mura spesse in cui arrivano attutiti i rumori della contemporaneità.
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Anche la parlata musicale di Mara, la moglie brasiliana che gli ispira le magnifiche donne sapienti, asseconda quest’atmosfera di quiete. Altan esce poco. Il suo studio è ordinato, perfino la natura che entra dall’ampia finestra sembra disegnata bene, senza sbavature. Un occhialuto Cipputi di gommapiuma ci guarda con la sua consueta saggezza. «L’ha costruito Pietro Perotti, operaio della Fiat che dopo la marcia dei quarantamila scrisse all’azienda: cara Fiat, io ti licenzio». Siamo entrati nel mondo di Altan.
Cipputi rischiava di finire in soffitta. E invece è più vivo che mai. Che cosa le ha raccontato di piazza san Giovanni?
«Sì, è sceso in piazza. Poi è entrato insieme al nipote in una fiaschetteria provvista di wi-fi. E sul tablet del ragazzo s’è messo a vedere quello che succedeva alla Leopolda. Anche lui è diviso, come lo siamo tutti in questo momento».
Cipputi combattuto?
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«I valori di san Giovanni, le radici della sinistra, la sua tradizione storica: tutto questo è importante e irrinunciabile. Però non si può non andare a vedere cosa succede dall’altra parte. Ed è necessario tenere insieme queste due cose».
“Le sinistre sono due e io uno solo”. È una vignetta di pochi giorni fa.
«Appunto. La linea di scontro non porta da nessuna parte e fa solo danni. Ho poi l’impressione che per mancanza di progetto le due sinistre finiscano per attaccarsi a dettagli che non hanno importanza. Si vive molto alla giornata: si rappezza di qua e di là, ma non esiste un’idea di dove si voglia arrivare».
Renzi è ancora “sinistra”?
«Il suo pragmatismo disinvolto mi sembra disancorato dal bagaglio storico della sinistra. E questo è sbagliato. La vivacità e la forza del nuovo movimento dovrebbero collegarsi a quell’altra tradizione. E poi c’è una questione di stile. Prendiamo la parola rispetto: si danno legnate terribili, sempre nel “rispetto” dell’avversario. Anche l’arroganza mi sembra abbia superato il limite».
Però Cipputi getta un occhio alla Leopolda.
«Sì, sparigliare le carte può essere utile. È anche giusta l’idea di abbattere incrostazioni di interessi e di abitudini sbagliate. Anche se al momento c’è molto fermento e pochi risultati».
Colpi di coda è il titolo dell’ultima raccolta. Perché?
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«Mi sembra che molte cose siano arrivate al capolinea. La fine di Berlusconi coincide anche con l’esaurimento di un certo tipo di politica della sinistra. E poi è finita la sicurezza economica: la crisi non è più un passaggio ma una realtà con cui dobbiamo abituarci a convivere».
È finito un certo tipo di politica della sinistra, lei dice. Ma per la sinistra è una condanna definitiva?
«No, non credo: i suoi valori non sono cancellabili. Se per un momento sembrano offuscati, prima o poi torneranno fuori. Anche perché riguardano la condizione di vita delle persone. E oggi molte persone stanno malissimo».
Cipputi vive e lotta insieme a noi. Ma non lo disegna più.
«È vero, manca da un po’».
Perché?
«Mi sembrerebbe di sfruttare la sua immagine con un intento pubblicitario che non mi piace».
Vuole evitare che venga usato strumentalmente?
«Sì, forse è quello».
Lei ha inventato questo eroe del lavoro, pur non avendo rapporti diretti con il mondo della fabbrica.
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«Sono sempre stato un osservatore laterale. Ho una simpatia quasi irrazionale per quel tipo di mondo, perché è il mondo di chi fa le cose. È il piacere di una cosa fatta bene, raccontato da Levi in La chiave a stella ».
Era più facile fare satira con Berlusconi?
«Sì, era più facile ma anche troppo facile. Faceva tutto lui e dovevi solo ribattere. Adesso è più complicato. Bisogna fare qualche scelta in più. O avere qualche dubbio in più».
La sua satira appare oggi meno politica e più antropologica.
«Può essere. A fatica riesco a guardare i talk show, mentre prima li divoravo. Mi sembrava un gioco importante seguire. Ora mi annoia terribilmente. È ripetitivo e non dà spunti».
Ma cambiano le sue fonti di ispirazione?
«Direi che mi basta il brusio di fondo. Indistinto».
Qual è la tonalità che prevale?
«Il disorientamento. Una sfiducia generale. Anche questa è un’altra parola molto abusata: l’economia va male perché la gente non ha più fiducia. Però sentimenti come fiducia e speranza non si possono suscitare girando una chiavetta. Sono cose che devono venire dal profondo ».
Non è un caso che oggi per interpretare la realtà si ricorra agli psicoanalisti ancor più che ad antropologi e sociologi.
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«Sono i più bravi a cogliere questo stato d’animo».
Lei in che rapporto è con la psicoanalisi?
«Nessun rapporto. Per ora mi sembra di cavarmela da solo».
La sua attitudine al silenzio da dove viene?
«Non sono sicuro di quello che dico, tutto qui».
Ma le sue vignette fulminano.
«Spesso l’idea di una battuta mi viene partendo dall’incontrario. Ha presente quel mio disegno: “Mi vengono in mente opinioni che non condivido”? È il meccanismo da cui scaturisce il testo finale».
La malinconia aiuta?
«Sicuramente non sono un tipo euforico».
Forse è una qualità che aiuta l’autore di satira. Rende immuni dall’enfasi e consente di arrivare all’essenza.
«È il mio modo di essere, che va oltre il lavoro».
È cambiato negli anni?
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«Forse all’inizio disegnavo vignette più cattive. Ho cominciato alla metà degli anni Settanta, il clima era più violento in generale. Ed ero molto più attento ai dettagli delle cose. Non mi ero mai occupato di politica e mi veniva naturale indignarmi. Ora mi sono stancato anche di indignarmi».
Dopo quarant’anni si capisce.
«Col tempo cominci a credere che tocca anche a te pensare qualcosa di positivo, anche se poi non ne sono capace. Però ti senti meno autorizzato a criticare qualsiasi cosa, perché tu non hai una risposta diversa».
Ha intenzione di chiedere il copyright per la rivoluzione degli ombrelli?
«Quelli di Hong Kong sono aperti. I miei no».
Vuole dire più protettivi?
«Più difensivi e meno pericolosi di quelli che disegno io».
Oggi chi manovra l’ombrello chiuso?
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«Sono sempre in agguato, ma non si capisce chi li tenga in mano. Uno giro l’angolo e zacchete. Colpiscono ovunque. E se li passano velocemente l’uno con l’altro».