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    ALTRO CHE NUCLEARE, LA VERA ARMA LETALE DI PUTIN È LA BOMBA DEI MIGRANTI - SIRIA, LIBIA E ORA UCRAINA: LO SCHEMA SI RIPETE, CON "MAD VLAD" CHE SFRUTTA CRISI E CONFLITTI PER SPINGERE MILIONI DI DISPERATI VERSO I CONFINI DELL'UNIONE EUROPEA - LO SCOPO È ALTERARE GLI EQUILIBRI GIÀ PRECARI TRA GLI STATI MEMBRI, COLPIRE PROPRIO DOVE LE RELAZIONI SONO PIÙ FRAGILI, CIOÈ SUL NERVO DELLA MIGRAZIONE…


     
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    Francesca Mannocchi per “La Stampa

     

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    Da quando la Russia ha invaso l'Ucraina, sette milioni di persone hanno lasciato il Paese per rifugiarsi nei Paesi confinanti e altri otto milioni di persone sono sfollati interni, cioè hanno abbandonato le città e i villaggi di provenienza per recarsi in altre aeree considerate più sicure nel Paese.

     

    Di fronte all'emergenza della guerra alle porte di casa, gli Stati membri hanno facilitato l'ingresso di anziani, donne e bambini, le amministrazioni hanno trovato posto negli asili, nelle scuole di ogni ordine e grado, negli ospedali. I comuni cittadini hanno fatto lo stesso mettendo a disposizione stanze e case, cibo e mezzi. Quasi nessuno in Occidente si aspettava una guerra in casa nel 2022, ma alla prova dell'accoglienza, fin dalle prime settimane, l'Europa si è dimostrata preparata.

     

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    La generosità in politica ha, però, una doppia faccia e quello che fino al giorno prima era il necessario sforzo per ospitare vicini esposti al rischio delle bombe, quello successivo può diventare pressione politica per allentare la presenza gravosa degli ucraini in difficoltà con cui spartire il poco che c'è.

     

    È quello che sta accadendo in Polonia, Paese che da solo ospita metà dei sette milioni di sfollati della guerra, i cui cittadini tre mesi fa si sono rimboccati le maniche per accogliere le famiglie ucraine e oggi cominciano a fare i conti con la compassione che sta svanendo. L'arrivo di rifugiati significa alloggio, assistenza sanitaria, risorse.

     

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    La presenza di quelli ucraini potrebbe costare ai Paesi ospitanti 30 miliardi di dollari solo nel primo anno, secondo l'analisi del centro di ricerca senza scopo di lucro Center for Global Development. Un peso per l'economia europea alla prova dell'inflazione, il prezzo economico dell'accoglienza, dunque, che ha anche un prezzo politico.

     

    L'Europa lo sa, ma ancora meglio lo sa Putin che usa da tempo rifugiati e sfollati come gli strumenti delle sue guerre ibride. Non da ora.

     

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    La guerra d'Ucraina non è iniziata con le bombe del 24 febbraio, quello era soltanto il giorno del debutto. Le prove generali si erano tenute al confine tra Polonia e Bielorussia l'estate precedente, ben prima che i carri armati di Mosca violassero i confini, Putin stava già preparando il campo di battaglia. Non quello militare ma l'altro, quello sotto forma di pressione ai confini d'Europa.

     

    Lo scopo era alterare gli equilibri (già precari in verità) tra gli Stati membri, colpire proprio dove le relazioni erano più fragili, cioè sul nervo della migrazione. L'alleato era lo Stato vassallo del bielorusso Lukashenko, l'arma erano i rifugiati destinati a destabilizzare politicamente l'Unione Europea e la Nato. Ma facciamo un passo indietro per unire i puntini che dai boschi bielorussi portano a questa guerra.

     

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    Nell'autunno 2021, i capi di governo di diversi Paesi europei gridarono di trovarsi di fronte a un'inedita minaccia alla sicurezza nazionale: la migrazione usata come arma. In pochi mesi il leader bielorusso Alexander Lukashenko aveva attirato nel suo Paese migliaia di migranti e richiedenti asilo soprattutto dall'Iraq e dalla Siria con la garanzia di un facile accesso nei Paesi dell'Unione Europea.

     

    Ai migranti, una volta arrivati nell'aeroporto della capitale Minsk, venivano consegnati visti speciali e assicurato il trasferimento in autobus verso il confine occidentale con la Polonia. Venivano lasciati lì, in boschi e campi non protetti, con le temperature che scendevano molto sotto lo zero tanto più passavano le settimane.

     

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    Una crisi umanitaria orchestrata e condotta come forma di diplomazia coercitiva. Gli obiettivi erano tanti: Lukashenko, che non era stato riconosciuto come legittimo presidente dopo controverse elezioni che sia gli Stati Uniti sia l'Europa avevano ritenuto fraudolente, voleva il riconoscimento della comunità internazionale. E lo ottenne.

     

    Se fino a poco prima del flusso migratorio al confine polacco i leader europei si limitavano a non parlare con lui e a colpire il suo regime con pacchetti di sanzioni, dopo la crisi d'autunno la situazione cambiò tanto che Lukashenko venne raggiunto al telefono anche dall'allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

     

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    Inoltre, Lukashenko era pedina della più ampia strategia del Cremlino: presentare la Polonia - che si affrettava a costruire muri e reti metalliche per ostacolare l'accesso dei rifugiati - come uno Stato spietato che non rispettava i diritti umani e presentare Putin come un presidente nobile d'animo che supportava lo sforzo bielorusso di aiutare le persone in fuga dalla guerra a raggiungere l'Europa. Persone che diventano strumento di calcoli precisi, precise strategie.

     

    Non una novità nell'analisi delle guerre. Già nel 2008 era apparso sulla rivista Civil Wars, uno studio dell'Università di Harvard dal titolo «Strategic Engineered Migration as a Weapon of War» (La migrazione strategica progettata come arma di guerra).

     

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    L'autrice Kelly Greenhill si chiedeva se i rifugiati potessero diventare un'arma utilizzata sia in tempo di guerra che in tempo di pace, e se quest' arma potesse essere sfruttata come tornaconto politico e diplomatico.

     

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    La risposta che lo studio proponeva a entrambe le domande era sì. Il report è poi diventato un libro: «Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy», (Armi della migrazione di massa: sfollamento forzato, coercizione e politica estera).

     

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    Nelle parole finali, che tengono insieme coercizione e politica estera, c'è il riassunto delle conclusioni dell'autrice che l'uso della migrazione come arma ha più successo di altri tipi di intervento, coercizione o aggressione, e insieme anche il racconto degli ultimi anni di politiche migratorie europee. Molti riguardano proprio Putin.

     

    L'utilizzo delle persone come armi di guerra ha precedenti noti e meno noti. I più famosi e vicini nel tempo hanno il volto di Gheddafi e Erdogan. Il primo, l'ex rais libico nel 2008 chiese cinque miliardi di euro l'anno per bloccare l'immigrazione diretta in Europa attraverso il Mediterraneo centrale; il secondo ha usato i rifugiati siriani in fuga da una guerra civile per chiedere miliardi di pagamenti e concessioni politiche dall'Unione europea.

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    L'Europa, negli anni, ha pagato ma non è riuscita a mettere in piedi un vero patto sulla migrazione, né un vero programma di ricollocamenti per ripartire i richiedenti asilo e i conseguenti oneri finanziari legati alla loro presenza.

     

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    Dopo la crisi Bielorussa, Polonia, Lituania e Lettonia emanarono leggi e decreti temporanei per ostacolare il conferimento del diritto di asilo; alcuni Stati membri, tra cui Grecia, Cipro, Polonia e Austria, chiesero alla Commissione Europea che le frontiere esterne dell'Unione Europea fossero protette con un «livello massimo di sicurezza», cioè finanziando le infrastrutture fisiche di protezione: muri, recinzioni e fili spinati.

     

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    Coercizione e politica estera dunque. L'ingegneria etnica del Cremlino ha da anni questa faccia. Nel 2016, dopo le sanzioni europee che punivano la Russia per le azioni militari in Ucraina, Putin aveva favorito la rotta migratoria lungo la rotta artica verso la Finlandia. Prima ancora, nel 2015, aveva contribuito a creare la crisi migratoria dal Medio Oriente sostenendo il regime siriano di Bashar al Assad.

     

    Profughi ucraini Profughi ucraini

    L'intenzione era così manifesta che nel 2016, il generale dell'aeronautica statunitense Philip Breedlove, all'epoca comandante militare della Nato, avvertì che Putin e Assad stavano «deliberatamente usando la migrazione come arma nel tentativo di sopraffare le strutture europee e infrangere la determinazione degli Stati membri».

     

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    Fu l'anno in cui Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca rifiutarono di accettare i profughi; l'anno in cui Angela Merkel incominciò a pagare lo scotto dell'accoglienza, l'anno che ha alimentato movimenti xenofobi e di estrema destra in tutto il Continente. Non è un caso, alla luce di tutto questo, che Putin abbia sostenuto i partiti anti-immigrazionisti e le campagne elettorali dei loro leader.

     

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    Poi è stata la volta della Bielorussia, la prova generale dell'invasione. Poi il 24 febbraio e la guerra in casa. I sette milioni di cittadini ucraini negli Stati confinanti. E la guerra asimmetrica.

     

    Putin intanto bombarda, spinge le persone alla fuga e sta a guardare. Perché sa, come sapeva nel 2015 e l'inverno scorso, che le ansie economiche, la spartizione delle risorse con i rifugiati, spesso possono più in termini diplomatici, della paura delle sbandierate bombe.

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