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    ALZHEIMER, UNA NUOVA SPERANZA - I FARMACI DI ULTIMA GENERAZIONE IMPEDIRANNO L'ACCUMULO DELLA SOSTANZA BETA AMILOIDE NEL CERVELLO: L’OBIETTIVO È INTERVENIRE PRIMA CHE I DANNI AI NEURONI DIVENTINO IRREVERSIBILI - ESISTE UNA COMPONENTE FAMILIARE IN QUESTO DISTURBO E QUINDI LA RICERCA DI SEGNALI PREDITTIVI È FONDAMENTALE PER CHI È SANO E HA, O HA AVUTO, PARENTI MALATI…


     
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    Roberto Fabbri per “la Stampa”

     

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    La ricerca di nuovi bersagli farmacologici che possano contrastare l' Alzheimer non si è mai fermata, a dispetto dei numerosi, e recenti, fallimenti clinici. Ora, però, approcci in direzioni totalmente diverse da quelli tradizionali risvegliano nuove speranze.

    La strategia di aggredire in modi alternativi l'accumulo di beta amiloide nei neuroni, quello che scatena la malattia, si concentrerà d'ora in poi nell'impedirne la formazione negli stadi precoci.

     

    A questo livello, infatti, si osservano alterazioni solo sfumate dei contatti e della comunicazione tra cellule nervose. Ed è chiaro che intervenire, invece, negli stadi avanzati è troppo tardi: ecco il punto fondamentale (emerso al congresso della Società Italiana di Farmacologia).

     

    Tra i nuovi metodi uno è di tipo clinico-diagnostico - e quindi con test che sappiano capire quando la comunicazione tra cellule nervose inizia a non rispondere in modo adeguato agli stimoli esterni - e un altro, invece, è puramente farmacologico per colpire selettivamente i precursori che generano la beta amiloide.

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    «La ricerca ha permesso di intuire gli esordi della malattia prima che la demenza conclamata si manifesti - conferma Monica Di Luca, docente di farmacologia dell' Università di Milano -. Per migliorare l' approccio è però necessario caratterizzare completamente i meccanismi che generano la malattia nei primissimi stadi, vale a dire le disfunzioni della comunicazione tra cellule nervose che si verificano prima della loro morte: questo permetterà di identificare i bersagli dei nuovi farmaci, unica strada potenzialmente efficace».

     

    Ma, se la perdita di memoria e altri sintomi si manifestano a malattia conclamata, quando è troppo tardi e qual è il senso della filosofia preventiva? Chi penserebbe di sottoporsi a test o trattamenti da sano? «Teniamo presente - spiega Carmela Matrone, docente di farmacologia all' Università di Napoli Federico II - che esiste una componente familiare in questo disturbo e quindi la ricerca di segnali predittivi è fondamentale per chi è sano e ha, o ha avuto, parenti malati».

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    Se si parla della ricerca di approcci nuovi, in effetti, è perché le case farmaceutiche, per via degli scarsi risultati, hanno disinvestito in questa area della medicina, che invece rappresenta una delle sfide del secolo. A dare la misura della situazione è Stefano Govoni, docente di farmacologia all' Università di Pavia: «Abbiamo solo 142 molecole in sviluppo, per tutte le fasi della sperimentazione, da quella preclinica (sull' animale) a quella clinica (sull' uomo). E sappiamo quante molecole si rivelano inefficaci nella strada dalla preclinica alla clinica».

     

    Basta fare un paragone: «Le molecole in sperimentazione contro il cancro sono oltre 3 mila». Esiste poi un altro problema, spiega Govoni: i malati di cancro sono circa tre volte di più rispetto ai malati di Alzheimer e quindi il settore dedicato a questa malattia è sottofinanziato non solo perché ha meno successo, ma perché esiste una percezione diversa del pericolo.

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    Mettere nel mirino non tanto la beta amiloide, ma i suoi precursori e i meccanismi molecolari che conducono alla sua formazione rappresenta allora la novità: «Abbiamo scoperto una modificazione-chiave del suo precursore, una reazione mediata da enzimi chiamata "fosforilazione" - specifica Matrone -: l' obiettivo sarà la progettazione di molecole che lo impediscano. L' accumulo di beta amiloide significa infatti già infiammazione e neurodegenerazione, processi da cui non si torna indietro».

     

    Altre armi, quindi, e sempre preventive: «Il nostro gruppo - spiega Monica Di Luca con la collega Elena Marcello - sta sviluppando molecole capaci di aumentare l' attività di un enzima chiamato Adam 10, in grado di tagliare precursori della beta amiloide, prevenendone la formazione.

     

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    Non solo: dall' attività di Adam 10 si generano frammenti neuroprotettivi e di supporto che mantengono la funzionalità del neurone». Tra i farmaci che bloccheranno con anticipo i precursori di beta amiloide vi saranno poi anche anticorpi in grado di riconoscere e neutralizzare le sue prime forme di aggregazione, presenti all' interno dei neuroni, come quelli sperimentati con successo, sul topo, dall' Istituto Ebri.

     

    Mentre la ricerca di base si arma di nuove strategie, avanza anche la clinica votata alla diagnostica precoce. «Il futuro è nella medicina digitale, in app già allo studio - spiega Alessandro Padovani, neurologo all'Università di Brescia -. Rilevano come e con quale velocità rispondiamo allo smartphone, camminiamo e monitorano tutte le gestualità che ci rendono come siamo: naturalmente non come i tradizionali contapassi, ma funzionali a capire se c' è diminuzione della plasticità cerebrale».

     

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    Quando il paziente presenta deficit di una certa entità, rivelabili dagli attuali test neuropsicologici, ha già accumulato amiloide e perciò è tardi. «Inoltre è difficile distinguere l' Alzheimer dal normale invecchiamento fisiologico, quando non si è professionalmente più attivi: solo i dispositivi digitali sempre connessi potranno fornirci diagnosi anzitempo».

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