Paola De Carolis per corriere.it
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«Chi è peggio, il bullo che ti picchia e ti tormenta o chi si volta dall’alta parte per non vedere?». Inizia con una domanda-provocazione l’intervento con il quale Lewis Hamilton, il pilota di Formula 1 di maggior successo nella storia del Regno Unito, ha dato voce alla rabbia e alla frustrazione che prova nei confronti dei pregiudizi e del razzismo che ancora macchiano la quotidianità britannica e l’ambiente sportivo nel quale lavora.
Con un lungo articolo sul Sunday Times, seguito dalla partecipazione a una manifestazione del movimento Black Lives Matter a Hyde Park (testimoniata dalle foto sul suo profilo Instagram), Hamilton, che è tuttora l’unico pilota nero della Formula 1, ha annunciato anche la creazione, assieme alla Royal Academy of Engineering, di un organismo, la «commissione Hamilton», il cui obiettivo sarà di interessare più ragazzi di colore a materie come la matematica, le scienze e la tecnologia e di incrementare la diversità nella Formula 1, che dovrebbe essere «varia e complessa come il mondo in cui viviamo».
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La morte di George Floyd, scrive Hamilton, gli ha fatto provare un dolore profondo: la brutalità della polizia e il razzismo sistemico che colpiscono le minoranze etniche sono realtà che «tutti i neri conoscono», senza eccezione.
Lui stesso, ha sottolineato, è stato costretto a imparare a reagire già da bambino — sulla pista da kart c’era chi gli tirava cose addosso — e la situazione non è migliorata sui circuiti di Formula 1.
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Nel 2007, in uno dei suoi primi gran premi, c’erano tra il pubblico tifosi con la faccia dipinta di nero. I giornalisti, dice, a lui fanno domande diverse rispetto ai colleghi bianchi. Nel Regno Unito, nonostante i successi da libro dei primati, c’è chi non lo rispetta e non lo ama, chi lo considera altezzoso, chi non lo giudica un vero inglese. Suo padre gli ha fatto presto il discorso che ancora tanti padri neri sono costretti a fare. «Tutto sarà più difficile per te per via del colore della tua pelle. Dovrai lavorare sodo, dovrai lavorare più duro degli altri».
È quello che ha fatto, spesso scegliendo anche di tenere la testa bassa e la bocca chiusa. Non più. «Ho visto gente che rispetto che non ha detto nulla» sulla morte di Floyd, ha scritto, e «questo mi ha spezzato il cuore. Per questo sento il dovere di parlare»: perché «quando si rimane neutrali, l’ingiustizia prevale».
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Diversi piloti di Formula Uno hanno espresso il loro appoggio al movimento di Black Lives Matter in seguito ai commenti di Hamilton sui social. «Essere il primo nero in qualsiasi settore è un tragitto pieno di orgoglio ma solitario», ha sottolineato Hamilton. «All’inizio mi sentivo libero di essere me stesso solo con il casco in testa».
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Con il successo è arrivata anche la forza di «abbracciare tutte le mie diversità, in modo autentico e aperto», nonché di parlare di temi per lui importanti. «È giunta l’ora di imparare di più, di parlare di più, e — ancor più importante — fare di più. Vincere campionati è meraviglioso, ma voglio essere ricordato per il mio lavoro nel creare una società più uguale. Voglio concentrare la mia energia, la mia influenza e le mie risorse nella creazione di un mondo più inclusivo». Un’impresa che inizia con la scuola e l’istruzione.
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