vingegaard l'equipe
Nel ciclismo le cadute collettive si chiamano “strike”, come quelli del bowling. Ieri a 35,4 chilometri dall’arrivo d’una tappa del Giro dei Paesi Baschi, tre dei quattro favoriti del prossimo Tour de France si sono schiantati in una curva: Jonas Vingegaard, Remco Evenepoel e Primoz Roglic. Alcuni sono finiti contro le rocce, altri in un buco bituminoso, altri ancora hanno evitato miracolosamente gli alberi. Appena dieci giorni fa era caduto un altro big, il belga Wout Van Aert. L’ultima morte del ciclismo in gara risale ad appena un anno fa: Tour de Suisse, lo svizzero Gino Mäder. Ovviamente il giorno dopo è tutto un “come è potuto accadere”, anzi sui giornali è più che altro “come possiamo fare perché non riaccada”.
L’Equipe ha sentito direttamente i corridori. Romain Bardet, per esempio: anch’egli caduto e vittima di una commozione cerebrale il mese scorso alla Tirreno-Adriatico. “La situazione sta diventando preoccupante perché la tendenza è generale. Mi dico che il ciclismo è un miracolo permanente, ma quando non succede il miracolo, le conseguenze sono terribili. Non abbiamo più spazio per errori. Onestamente, è spaventoso”. “Non riconosco più il mio sport – dice Rudy Molard, per il quale “serve una presa di coscienza generale del pericolo“.
Jonas Vingegaard
E dunque, quali sono i problemi. Tanto per cominciare la velocità media: “Questa è la causa principale del problema”, dice Valentin Madouas. “L’evoluzione delle marce è incredibile, ogni anno si sale di una marcia. Quando sono diventato professionista (nel 2018), tutti erano sul 53×11ma siamo passati rapidamente al 54 e oggi, nelle tappe pianeggianti, devi indossare il 56 se vuoi restare con gli altri. Prima c’erano solo i velocisti, adesso ci sono tutti: i corridori, i leader, i compagni di squadra…”.
Jonas Vingegaard
Per Thierry Gouvenou, l’esplosione di velocità ha raggiunto un tale livello che “quasi non è più una bicicletta”. I freni a disco, per esempio, sono problematici sotto molti aspetti poiché permettono di frenare più tardi rispetto a quelli a pattini: si corrono maggiori rischi e quando cadono lo fanno a una velocità maggiore. E poi, anche se si riducono gli spazi di frenata, “non si ha più il tempo di vedere il pericolo arrivare comunque, perché ci sono sempre almeno sessanta persone che corrono tutte incollate insieme”, nota Madouas. “Al minimo errore è garantito che si formi un grosso mucchio”. E “i freni a disco tagliano come rasoi. Quando si cade così, è la roulette russa“.
“Può sembrare paradossale ma oggi tutti i ragazzi hanno una tale padronanza della propria bicicletta che cercano inconsciamente di raggiungere certi limiti che prima non osavano immaginare”, spiega Bardet. Prima con i freni a pattini, sotto la pioggia, stavi attento, lasciavi un margine di sicurezza. Ora non più. Avere fiducia nella tua bici ti incoraggia a commettere errori”.
Jonas Vingegaard
“Le bici sono molto più manovrabili di prima – aggiunge Madouas – Non ci sono quasi più danni materiali: tutto è più sicuro, l’aderenza delle gomme è ottima. Le cadute sono causate da errori umani, non da problemi meccanici”. Madouas suggerisce di introdurre un rapporto di trasmissione massimo per arginare la potenza, “altrimenti tra due anni saremo tutti a 58×11, è ovvio”. Bardet suggerisce di rinforzare ulteriormente la segnaletica, soprattutto in occasione di alcuni eventi che ne hanno realmente bisogno, come succede al Tour de France: “Non ho mai visto un comportamento pericoloso da parte di un pilota in una curva ben segnalata, con un addetto alla sicurezza che fischia o un cartello con un segnale sonoro. Richiede più logistica, più infrastrutture, ma visto come stanno andando le cose bisogna pensarci”.
Vingegaard Pogacar
E poi ci sono le distrazioni, i computer di bordo, gli auricolari. “Devono lasciare a noi le redini della corsa nella foga del momento”, continua Bardet. “Spesso ci troviamo in situazioni di stress estremo per niente. Le cuffie creano corridori robotici telecomandati e situazioni di pericolo artificiale. Questo vale anche per i computer, sui quali i corridori a volte hanno lo sguardo un po’ troppo concentrato durante la corsa. Oggi il ciclista in bicicletta è come un uomo in macchina che ha il telefono con Waze e i suoi schermi”.
Le Parisien ha parlato anche con Pascal Chanteur, capo del sindacato francese dei corridori: “Abbiamo creato dei mostri tecnologici. Il nostro primo errore è stato accettare i freni a disco, perfetti per la frenata anticipata ma non per l’arresto di emergenza. E ora le bici sono sempre più rigide”.
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Le bici non possono scendere sotto il peso minimo di 6,8 kg imposto dalla federazione internazionale. Ma ogni produttore di attrezzature ha inventato meraviglie dell’aerodinamica giocando sulla qualità dei pneumatici, sulla dimensione o sulla composizione del manubrio. Di conseguenza, le biciclette diventano sempre più snelle ma risultano complicate da controllare in caso di scivolata o deviazione. E la caduta è inevitabilmente lì. “Ci troviamo nella posizione della Formula 1 al tempo dei motori turbo. Ad un certo punto, la F1 è stata in grado di legiferare e fermare la corsa alla velocità. Dobbiamo fare lo stesso e decidere di limitare le bici”.
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“Abbiamo una rete stradale che si evolve ogni anno per rallentare le auto mentre noi andiamo sempre più veloci nelle gare”, dice Marc Madiot, il capo della Groupama-FDJ. “Facciamo le cose al contrario. E non dimenticare i misuratori di potenza e gli auricolari. È come se guidassi sempre con il telefono in mano”.
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