ALBERTO MATTIOLI per la Stampa
anna netrebko turandot
Per l’Arena di Verona è una buona stagione. Alla fine del suo mandato, la sovrintendente e direttrice artistica, Cecilia Gasdia, può essere soddisfatta. Doveva mettere a posto i conti e rilanciare la qualità artistica, che poi per l’Arena significa portarci i grandi cantanti: su entrambi i fronti, battaglia vinta. Del resto, si tratta di un celebre ex soprano, dunque titolato a metter bocca in materia e soprattutto a valutare i suoni che escono da quelle altrui. Neanche in questo campo, uno vale uno: e anzi la nomina di Gasdia è l’eccezione che conferma la regola infallibile che la destra, in campo operistico, le scelte le sbagli tutte. Adesso la città è passata a sinistra, con Damiano Tommasi: vediamo se il pio ex calciatore confermerà Gasdia, perché anche la sinistra, in materia, non è proprio che brilli.
Intanto giovedì si è celebrata fra le vecchie care pietre romane una di quelle seratone da Arena “di una volta”, con gli spalti pieni, tanti applausi, bis di “Nessun dorma!” (sì, era “Turandot”) e insomma entusiasmo generale. Quando Anna Netrebko compare in cima alla scalinata fra Hollywood e Sanremo della Città proibita zeffirelliana e attacca “In questa reggia” si capisce subito che è serata. Putinate e relative polemiche a parte, per restare a Puccini vien da dire: “Ecco un’artista!”. Netrebko non è solo una voce grande, ma una grande voce.
anna netrebko turandot
Si beve senza alcuna difficoltà gli acuti e i micidiali scarti di registro espressionisti della parte, ma non si limita a cantarla, come fanno nove Turandot su dieci: la interpreta. Un lusso di smorzature, piani, pianissimi (che restano però intellegibili in tutto l’anfiteatro, che proprio una bomboniera non è) che non sono bellurie vocalistiche fine a sé stesse, a servono a raccontare di una Principessa di gelo solo perché traumatizzata dalla violenza maschile, dunque, alla fine, forse anche lei più vittima che carnefice. Ne esce un personaggio molto più umano e alla fine più vero del solito. Precedenti famose Turandot “liriche”, come Sutherland con Mehta o Ricciarelli con Karajan, per restare al disco, facevano di necessità virtù o seguivano input direttoriali; quella di Netrebko è una scelta personale e coerente, forse ancora più meritevole, visto che lo sfolgorio del registro acuto le consentirebbe di fare la solita Turandot “areniana” modello “mo’ vi spettino” (semmai, starei attento a certe pericolose aperture di suono in basso...).
turandot
Nel resto, da segnalare la bravura di Yusif Eyvazov, Calaf. Non ripeto le solite geremiadi sul suo timbro, diciamo così, non malioso: le voci brutte sono soltanto quelle non espressive, e invece Eyvazov esprime e molto, cantando sempre con morbidezza, bella linea, smorzature e perfino un po’ di squillo in acuto. Il bis è stato il suo, ovviamente “Nessun dorma”, in attesa di un decreto legge (Draghi, rendi tu quest’ultimo servizio alla Patria) che vieti per dieci anni l’utilizzo di quest’aria in qualsivoglia concerto, spot, colonna sonora e simili. Maria Teresa Leva è una Liù iperlirica che fa una specie di scommessa con sé stessa: cantare ogni frase più piano della precedente. Ogni tanto esagera, perché ci suono note che letteralmente scompaiono, comunque la lezione di canto è servita.
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A Ferruccio Furlanetto, vista l’età e la carriera, va riconosciuto l’onore delle armi. Sono invece eccellenti le maschere, cappeggiate da Gëzim Myshketa (i due tenori sono Matteo Mezzaro e Riccardo Rados) e, altro segno di buona gestione, i comprimari: per Carlo Bosi, che dei comprimari è l’imperatore e infatti lo fa, non c’erano dubbi, ma non è facile sentire un Mandarino autorevole come Youngjun Park.
Direzione attenta, prudente nel primo atto e poi via via più sicura, e grazie al cielo non programmaticamente “areniana” tipo “pensiamo solo a mandare tutti insieme” di Marco Armiliato, colonna della stagione. Lo spettacolo è quello di Zeffirelli, iperaccessoriato e ipertrofico, affollato e intasato, grandioso e kitsch, sberluccicante e scintillante, e tuttavia non immemore di certe eleganze liberty “chinesi” alla Galileo Chini (specie nei costumi di Emi Wada, stupendi).
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Continuo a pensare che, a XXI secolo iniziato e anzi inoltrato, la spettacolarità si possa declinare anche in altro e più contemporaneo modo. Tuttavia, quando si apre un siparietto (oddio, diciamo pure siparione: saranno trenta metri) e appare una Città proibita molto più imponente e cinese di quella vera, scatta infallibile l’applauso, e quindi, come diceva un regista “moderno” seduto accanto a me, “ha ragione lui”. I tedeschi in trasferta dal Gardasee godono, gli americani si sentono a casa (cioè a Disneyland), il botteghino gode, e noi con lui.
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