DOPO 14 MESI DI SILENZIO PARLA MISTER CRAC-GNOTTI
IL FALLIMENTO E' COLPA DELLE BANCHE: HANNO CHIUSO IL RUBINETTO
MAI TRUFFATO NESSUNO: NON SAPEVO DEI BOND GIRATI AI RISPARMIATORI
IL FALLIMENTO E' COLPA DELLE BANCHE: HANNO CHIUSO IL RUBINETTO
MAI TRUFFATO NESSUNO: NON SAPEVO DEI BOND GIRATI AI RISPARMIATORI
Maurizio Tortorella per Panorama, in edicola domani
Ha deciso di parlare dopo 14 mesi di silenzio. Si era imposto quell'ostinato mutismo con i giornali, dice, soltanto per rispetto della magistratura: agli atti giudiziari si risponde con gli atti giudiziari. Poi, domenica 25 gennaio, ha letto su un quotidiano che i pubblici ministeri romani che stanno indagando su di lui avevano presentato al giudice una richiesta di custodia cautelare. «Quasi mi s'invitava a preparare la valigia con il necessaire per la cella».
E stato allora che Sergio Cragnotti, ex presidente della Cirio, ex presidente della Lazio, dal novembre 2002 incapace di fare fronte a un indebitamento scaduto di 150 milioni d'euro (e parte di un debito di 1,125 miliardi, una tranche del quale ancora non scaduta) e poi accusato di una serie impressionante di reati (dalla truffa alla bancarotta fraudolenta, dal falso in bilancio alla corruzione) e d'aver creato un «buco» da oltre 500 milioni d'euro, ha deciso di difendersi accettando un'intervista in esclusiva con Panorama.
«Sono stato molto scosso da quella cronaca di un arresto annunciato» afferma Cragnotti, seduto nello studio romano del suo avvocato, Giulia Bongiorno. «E sono ancora perplesso. Non perché voglia fuggire dalle mie responsabilità: di quelle risponderò e, credo, sarò in grado di rispondere bene. Però mi sembra che il diritto di difesa sia veramente evanescente. Basti pensare che i miei legali, Franco Coppi e Bongiorno, non sanno nemmeno in quante procure sono indagato, né esattamente per quali reati: hanno basato la ricostruzione delle contestazioni leggendo le cronache giudiziarie sui giornali. Questo perché mi si dice che l'indagine è coperta dal segreto. Ma questo segreto limita la mia difesa. E poi, che segreto è se leggo tutto sui giornali? Ora si parla anche di associazione per delinquere, vedremo».
Ha paura dell'arresto?
No. Sono sicuro della trasparenza di quello che ho fatto e della correttezza del mio progetto industriale. E sono pronto a spiegare tutto ai magistrati. In quasi un anno e mezzo, dal novembre 2002, ho cercato di farlo più volte, con i miei avvocati: depositando tre memoriali e chiedendo insistentemente di essere interrogato. Il 20 novembre scorso, quando ho incontrato i pm romani, m'hanno posto pochissime domande, dicendomi che era troppo presto. Peccato: io sono in grado di fornire importanti chiarimenti. Di più, sono convinto che qualcosa per i creditori si possa ancora fare.
Lei è già stato in prigione: tre giorni nel novembre 1993, per l'affare Enimont. Come ricorda quelle 72 ore?
Un'esperienza dura. Ma fui liberato subito dopo l'interrogatorio col gip. Del resto nel gruppo Enimont mi occupavo solo di cessioni e acquisizioni: non partecipavo alle strategie dei Ferruzzi.
In questi mesi d'indagini e di scandalo lei, che era li re della Lazio e dei pelati, si è dovuto dimettere da tutto. Ha subito delusioni umane? Si è sentito abbandonato da qualcuno?
Sono un uomo molto concreto, con i piedi per terra: non mi esalto nei momenti felici e non mi deprimo nei momenti di crisi. So affrontare le circostanze. Ho vissuto periodi esaltanti: con la Lazio e con il mio progetto industriale. Però si cresce quando si ha il consenso, soprattutto bancario e politico. Ecco, li sono stato deluso. Non da quelli che non m'hanno fatto la telefonata dì solidarietà: chi se ne importa. Mi ha deluso chi non ha capito e non mi ha seguito.
Sta parlando delle banche o, meglio, dei banchieri, vero? Quali?
Non voglio fare nomi. Ma certamente chi ha sostenuto il mio progetto industriale, creato sulla fantasia di un imprenditore e sulle sue conoscenze internazionali, all'improvviso ha fatto mancare il suo sostegno. Insensatamente: perché avevo comprato il gruppo conserviero Del Monte nel 2001, era impossibile che le sinergie con la Cirio funzionassero già nel 2002. La delusione più grande è tutta qui: nel sistema finanziario che non m'ha seguito.
Al centro dell'inchiesta sul crac Cirio c'è un'operazione finanziaria complicatissima, uno scambio tra la sua Bombril e la sua Cirio. Vuole spiegarla?
L'operazione è del 1999: la Cragnotti & partners sta al centro, da un lato c'è la Cirio Holding e la Cirio, dall'altro la brasiliana Bombril, gruppo della detergenza che controlla tutte le partecipate sudamericane. Allora io prendo la Cirio Holding e la vendo alla Bombril. Questa operazione viene dettata dalla grande espansione del mercato brasiliano in quel momento. La Bombril paga 380 milioni d'euro attraverso un aumento di capitale sottoscritto dalla Cragnotti & partners al 40 per cento e al 60 per cento sul mercato. Nulla d'irregolare.
E poi?
Poi in Brasile c'è stata la crisi valutaria, non potevamo restare con una holding che faceva un bilancio consolidato in una moneta, il real, che si svalutava in un anno del 200 per cento. Così dopo due anni abbiamo fatto l'operazione al contrario, allo stesso prezzo: Cirio Holding è diventata la capogruppo. E nelle carte che ho consegnato alla magistratura ho dimostrato la correttezza e la trasparenza dell'operazione.
II problema, insomma, sta nel capire le sue strategie. Tutto qui?
Non c'è nulla di incomprensibile: i magistrati avranno i loro periti. Bene, leggano le carte. Il punto è che non si può trasformare automaticamente ciò che non è semplice in un illecito.
E il «buco» dei 500 milioni d'euro?
Non è un buco. Perché non si tratta di poste false iscritte in bilancio. 1500 milioni d'euro rappresentano partite debitorie e creditorie infragruppo. Generate da finanziamenti operati da Bombril e regolarmente iscritti in bilancio. Nel consolidato, insomma, appare che la Bombril vanta un credito verso la Cragnotti & partners. Che via via è cresciuto, tra interessi e inflazione, fino a 500 milioni d'euro. Ma lo abbiamo comunicato alla Consob, alle banche, e anche su tutti i nostri bilanci è stato iscritto, con le debite annotazioni.
Però è per quel «buco» che ora vogliono arrestarla. I pm ipotizzano che lei possa farne altri. Non è così?
Io sto pure 30 anni dentro. Mi vengono a dire che potrei «reiterare il reato». Ma come faccio? Le varie Cragnotti & partners ormai non svolgono alcuna attività imprenditoriale e non hanno assolutamente nulla a che fare con il gruppo, che è stato commissariato sia in Italia che in Brasile: come farei a «inquinare le prove» o a commettere reati? La mia Cragnottí & partners di Amsterdam è li, vuota. Qualcuno deve spiegarmi come posso fuggire, se ho perso tutto il mio patrimonio. Come faccio? Si parla tanto di questo debito intragruppo, di questo buco da 500 milioni d'euro: è vero, la Bombril vanta un credito, trasparente, di circa 500 milioni d'euro, verso la Cragnotti & partners. Comunque, a scanso di equivoci, ho rassegnato le dimissioni da tutte le cariche direttive della società.
Torniamo alle origini del crac del novembre 2002. Perché allora le banche hanno chiuso il rubinetto?
Bella domanda. Il problema è proprio questo. Scade il bond obbligazionario nel novembre 2002 e le banche non vengono al rinnovo.
Ma perché?
Non so ancora spiegarmelo. C'è un solo fattore oggettivo: tutto il mercato dei bond è andato in crisi perché la situazione finanziaria italiana ed europea dava scarsa credibilità alla carta. Anche se i nostri bond non avevano un rating, una classificazione di rischiosità, perché i bond Cirio erano destinati esclusivamente alle banche. Io non vendevo ai risparmiatori, accendevo debiti con le banche.
Però poi le banche vendevano quei bond ai risparmiatori, gabbandoli. Non dirà che non ne sapeva nulla.
Proprio così: io non ne sapevo assolutamente nulla. Non sapevo che fine facevano quei bond, non sapevo che le banche andavano dai loro clienti e addebitavano quei bond sui loro dossier.
Eppure, è partita da lì la sequenza delle denunce per truffa. Anche contro di lei.
Non era una truffa mia. Ripeto: io non ne sapevo nulla. Tutto quello che so è che a un certo punto le banche hanno chiesto alla Cragnotti & partners che partecipasse al rinnovo dei bond. Io ho offerto loro asset patrimoniali in garanzia per il rinnovo del bond: non hanno accettato. Eppure, stavo per vendere partecipazioni di prima importanza, come la Del Monte Pacific, da sola un valore di 100-120 milioni di dollari.
Ma lei si sarà dato una spiegazione di questo dietrofront improvviso delle banche. O no?
No, non so spiegarmelo. Il progetto era stato illustrato alle banche. Eravamo in condizione di fare fronte al nostro indebitamento. Forse eravamo indietro nel programma di dismissioni, che ci avrebbero concesso di fare cassa e di ripianare il debito. Ma la crisi economica e la svalutazione delle partecipazioni consigliavano prudenza. Perché svalutare un patrimonio accumulato con tanta fatica?
Così, alla fine, è saltato tutto. Scusi, ma le pare possibile tanto masochismo?
È così. Le banche non hanno saputo comprendere le conseguenze. Chiamiamola superficialità del management bancario. Perché non è il nostro operato che ha creato il default, la crisi finanziaria, ma è vero esattamente il contrario: è il dietrofront delle banche che ha creato l'insolvenza.
Lei è stato criticato anche a causa delle spese pazze per la sua Lazio. Si sono calcolati 600 miliardi di lire spesi solo per l'acquisto dei principali giocatori. L'avventura nel calcio ha responsabilità nel crollo?
La Lazio è stata un investimento importante per il gruppo. Ma anche quello è stato gestito con grande trasparenza: l'abbiamo quotata in borsa! E il progetto anche in quel caso ha prodotto una valorizzazione. Io ho comprato la Lazio per 25 miliardi di lire nel 1992, la squadra è andata sul mercato con 300 miliardi e in borsa la società è arrivata a quotarne mille: un'escalation importante. Certamente, ora c'è la crisi del calcio. Ma anche li è mancato un progetto per fare uscire il settore dallo schema infantile che l'ha imbrigliato. Resta il fatto che la Lazio che ho comprato fatturava 30 miliardi di lire, la Lazio che lascio ne fattura circa 300.
Resta anche il fatto che ora, come il suo collega Calisto Tanzi, lei è additato come il «mostro» dei risparmiatori.
Parlo per quel che leggo sui giornali su Tanzi. Se è tutto vero, vorrei prendere le distanze da quel che è accaduto in Parmalat: Cirio è stata sempre trasparente con il mondo esterno e con gli organi di vigilanza. Non ha assolutamente nulla da nascondere. Per noi si è trattato soltanto di una momentanea crisi di liquidità, non sostenuta dalle banche, che ha causato un immenso danno d'immagine e poi un gravissimo danno finanziario per i risparmiatori. Abbiamo cercato alternative, ma l'ostinazione del sistema bancario contro l'imprenditore Cragnotti ha fatto precipitare la situazione.
In una telefonata, posta sotto Intercettazione, lei avrebbe manifestato scetticismo sull'Ipotesi di un arricchimento personale di Tanzi. Conferma?
Non penso che un imprenditore come lui abbia potuto distrarre, per sé, 14 miliardi d'euro.
Nei suoi interrogatori Tanzi ha detto che l'acquisto della Eurolat, uno dei punti focali dell'inchiesta sulle malversazioni in Parmalat, fu «fortemente caldeggiato», cioè Imposto, dalla Capitalia di Cesare Geronzi. È andata così?
Eurolat era leader nel latte fresco: 1.200 miliardi di fatturato, un margine operativo lordo di 80-90 miliardi, con marchi e asset industriali importantissimi per la Parmalat e la valorizzazione ne teneva conto. Il prezzo netto che fu pagato, poi, fu di 630 miliardi di lire.
Non è vero, allora, che la Capitalia fece un prezzo alto, o meglio lo impose, al solo scopo di consegnare a Cragnotti una liquidità sufficiente per coprire li debito che lei aveva proprio con Capitalia?
Capitalia fece solo da advisor. E io dovevo comunque riequilibrare la mia situazione debitoria. Non avessi venduto il latte, avrei ceduto qualcos'altro. Per la Cirio avevamo avuto offerte da Cooperative Italia, da Conserve Italia: possono confermarlo. Erano interessatissimi.
Però poi vendette proprio l'Eurolat alla Parmalat. Passando per il triangolo oggi sotto la lente delle procure, che mette insieme i tre indagati Cragnotti, Tanzi e Cesare Geronzi.
Geronzi è il presidente di Capitalia. Ma tutta l'operazione è stata fatta dal management. Hanno fatto da advisor, come in altre operazioni: tutto qui.
In che rapporti è oggi con Geronzi?
Non lo sento da molto, molto tempo. Ma è indagato anche lui, e in questa situazione non vorrei parlarne.
Se la sente allora di dire qualcosa ai 14 mila dipendenti Cirio o ai 35 mila risparmiatori caduti sul bond Cirio?
Vorrei dire loro che il gruppo Cirio-Del Monte è sano. Capace dì generare un flusso di cassa sufficiente per remunerare gli obbligazionisti. Credo infatti che ci sia una miriade di richieste per comprare le singole aziende. Del Monte è un gruppo da 600 milioni d'euro di fatturato: da solo ha le possibilità di dare agli obbligazionisti il loro capitale.
Ora il suo gruppo verrà venduto a pezzi: uno «spezzatino». Cosa ne pensa?
Penso che è sbagliato. Ho sempre lottato per portare avanti il progetto di un grande gruppo. Il ministero era entrato nella crisi con un progetto di amministrazione straordinaria finalizzato a mantenere l'unità. Era possibile, è possibile. Ma mi pare che i commissari vadano nella direzione opposta. Ed è un grave errore. L'Italia non avrà mai più un progetto: resteremo sempre un paese di piccoli imprenditori.
Una volta Enrico Cuccia di lei ha detto che coi denaro era una fattucchiera...
Ma perché voi giornalisti date sempre un'interpretazione negativa di quel vecchio giudizio? Con Cuccia avevo un rapporto ottimo, parlavamo, mi consigliava: ricordo anzi che a suo tempo mi suggerì di non entrare nell'alimentare perché mi esponevo ai rischi di sabotaggi. Ma so che mi stimava molto, come Raul Gardini. Ecco, io credo che abbia usato il termine «fattucchiera» come Gardini diceva che ero un «mago».
Oggi però, in borsa, usano un altro nomignolo: la chiamano «Crac-gnotti». Crudeli, vero?
Non posso biasimarli. Non posso nascondere la verità: Cirio ha subito un default, ma non credo per causa mia. Certo, abbiamo causato un danno agli investitori. E anch'io ho perduto tutto: in due mesi il mio gruppo è passato da una valutazione di 700 miliardi a zero. Il danno, provocato e ricevuto, è più grave di qualunque nomignolo mi venga affibbiato. Però non credo che il progetto fosse sbagliato: non c'è stato nulla di truffaldino, nessun occultamento di informazioni, nessuna sopravvalutazione. La Cirio-Del Monte non era una speculazione di Cragnotti, salvava l'agricoltura italiana. Il mio rammarico è questo: non avere completato l'opera. Ora chi è stato responsabile di questo fallimento dovrà pagarne le conseguenze.
Pare di capire, comunque, che lei non si senta responsabile. E così?
No, non mi sento responsabile. Credo di avere agito con assoluta trasparenza e che tutto quello che ho fatto abbia dato solo un valore aggiunto al gruppo. La responsabilità è altrove. Se improvvisamente, con un progetto che richiedeva cinque o sei anni almeno, le banche chiudono la porta dopo un solo anno, dovranno spiegare loro il perché. Io non sono un imprenditore sconfitto, sono solo un imprenditore abbandonato.
Dagospia 29 Gennaio 2004
Ha deciso di parlare dopo 14 mesi di silenzio. Si era imposto quell'ostinato mutismo con i giornali, dice, soltanto per rispetto della magistratura: agli atti giudiziari si risponde con gli atti giudiziari. Poi, domenica 25 gennaio, ha letto su un quotidiano che i pubblici ministeri romani che stanno indagando su di lui avevano presentato al giudice una richiesta di custodia cautelare. «Quasi mi s'invitava a preparare la valigia con il necessaire per la cella».
E stato allora che Sergio Cragnotti, ex presidente della Cirio, ex presidente della Lazio, dal novembre 2002 incapace di fare fronte a un indebitamento scaduto di 150 milioni d'euro (e parte di un debito di 1,125 miliardi, una tranche del quale ancora non scaduta) e poi accusato di una serie impressionante di reati (dalla truffa alla bancarotta fraudolenta, dal falso in bilancio alla corruzione) e d'aver creato un «buco» da oltre 500 milioni d'euro, ha deciso di difendersi accettando un'intervista in esclusiva con Panorama.
«Sono stato molto scosso da quella cronaca di un arresto annunciato» afferma Cragnotti, seduto nello studio romano del suo avvocato, Giulia Bongiorno. «E sono ancora perplesso. Non perché voglia fuggire dalle mie responsabilità: di quelle risponderò e, credo, sarò in grado di rispondere bene. Però mi sembra che il diritto di difesa sia veramente evanescente. Basti pensare che i miei legali, Franco Coppi e Bongiorno, non sanno nemmeno in quante procure sono indagato, né esattamente per quali reati: hanno basato la ricostruzione delle contestazioni leggendo le cronache giudiziarie sui giornali. Questo perché mi si dice che l'indagine è coperta dal segreto. Ma questo segreto limita la mia difesa. E poi, che segreto è se leggo tutto sui giornali? Ora si parla anche di associazione per delinquere, vedremo».
Ha paura dell'arresto?
No. Sono sicuro della trasparenza di quello che ho fatto e della correttezza del mio progetto industriale. E sono pronto a spiegare tutto ai magistrati. In quasi un anno e mezzo, dal novembre 2002, ho cercato di farlo più volte, con i miei avvocati: depositando tre memoriali e chiedendo insistentemente di essere interrogato. Il 20 novembre scorso, quando ho incontrato i pm romani, m'hanno posto pochissime domande, dicendomi che era troppo presto. Peccato: io sono in grado di fornire importanti chiarimenti. Di più, sono convinto che qualcosa per i creditori si possa ancora fare.
Lei è già stato in prigione: tre giorni nel novembre 1993, per l'affare Enimont. Come ricorda quelle 72 ore?
Un'esperienza dura. Ma fui liberato subito dopo l'interrogatorio col gip. Del resto nel gruppo Enimont mi occupavo solo di cessioni e acquisizioni: non partecipavo alle strategie dei Ferruzzi.
In questi mesi d'indagini e di scandalo lei, che era li re della Lazio e dei pelati, si è dovuto dimettere da tutto. Ha subito delusioni umane? Si è sentito abbandonato da qualcuno?
Sono un uomo molto concreto, con i piedi per terra: non mi esalto nei momenti felici e non mi deprimo nei momenti di crisi. So affrontare le circostanze. Ho vissuto periodi esaltanti: con la Lazio e con il mio progetto industriale. Però si cresce quando si ha il consenso, soprattutto bancario e politico. Ecco, li sono stato deluso. Non da quelli che non m'hanno fatto la telefonata dì solidarietà: chi se ne importa. Mi ha deluso chi non ha capito e non mi ha seguito.
Sta parlando delle banche o, meglio, dei banchieri, vero? Quali?
Non voglio fare nomi. Ma certamente chi ha sostenuto il mio progetto industriale, creato sulla fantasia di un imprenditore e sulle sue conoscenze internazionali, all'improvviso ha fatto mancare il suo sostegno. Insensatamente: perché avevo comprato il gruppo conserviero Del Monte nel 2001, era impossibile che le sinergie con la Cirio funzionassero già nel 2002. La delusione più grande è tutta qui: nel sistema finanziario che non m'ha seguito.
Al centro dell'inchiesta sul crac Cirio c'è un'operazione finanziaria complicatissima, uno scambio tra la sua Bombril e la sua Cirio. Vuole spiegarla?
L'operazione è del 1999: la Cragnotti & partners sta al centro, da un lato c'è la Cirio Holding e la Cirio, dall'altro la brasiliana Bombril, gruppo della detergenza che controlla tutte le partecipate sudamericane. Allora io prendo la Cirio Holding e la vendo alla Bombril. Questa operazione viene dettata dalla grande espansione del mercato brasiliano in quel momento. La Bombril paga 380 milioni d'euro attraverso un aumento di capitale sottoscritto dalla Cragnotti & partners al 40 per cento e al 60 per cento sul mercato. Nulla d'irregolare.
E poi?
Poi in Brasile c'è stata la crisi valutaria, non potevamo restare con una holding che faceva un bilancio consolidato in una moneta, il real, che si svalutava in un anno del 200 per cento. Così dopo due anni abbiamo fatto l'operazione al contrario, allo stesso prezzo: Cirio Holding è diventata la capogruppo. E nelle carte che ho consegnato alla magistratura ho dimostrato la correttezza e la trasparenza dell'operazione.
II problema, insomma, sta nel capire le sue strategie. Tutto qui?
Non c'è nulla di incomprensibile: i magistrati avranno i loro periti. Bene, leggano le carte. Il punto è che non si può trasformare automaticamente ciò che non è semplice in un illecito.
E il «buco» dei 500 milioni d'euro?
Non è un buco. Perché non si tratta di poste false iscritte in bilancio. 1500 milioni d'euro rappresentano partite debitorie e creditorie infragruppo. Generate da finanziamenti operati da Bombril e regolarmente iscritti in bilancio. Nel consolidato, insomma, appare che la Bombril vanta un credito verso la Cragnotti & partners. Che via via è cresciuto, tra interessi e inflazione, fino a 500 milioni d'euro. Ma lo abbiamo comunicato alla Consob, alle banche, e anche su tutti i nostri bilanci è stato iscritto, con le debite annotazioni.
Però è per quel «buco» che ora vogliono arrestarla. I pm ipotizzano che lei possa farne altri. Non è così?
Io sto pure 30 anni dentro. Mi vengono a dire che potrei «reiterare il reato». Ma come faccio? Le varie Cragnotti & partners ormai non svolgono alcuna attività imprenditoriale e non hanno assolutamente nulla a che fare con il gruppo, che è stato commissariato sia in Italia che in Brasile: come farei a «inquinare le prove» o a commettere reati? La mia Cragnottí & partners di Amsterdam è li, vuota. Qualcuno deve spiegarmi come posso fuggire, se ho perso tutto il mio patrimonio. Come faccio? Si parla tanto di questo debito intragruppo, di questo buco da 500 milioni d'euro: è vero, la Bombril vanta un credito, trasparente, di circa 500 milioni d'euro, verso la Cragnotti & partners. Comunque, a scanso di equivoci, ho rassegnato le dimissioni da tutte le cariche direttive della società.
Torniamo alle origini del crac del novembre 2002. Perché allora le banche hanno chiuso il rubinetto?
Bella domanda. Il problema è proprio questo. Scade il bond obbligazionario nel novembre 2002 e le banche non vengono al rinnovo.
Ma perché?
Non so ancora spiegarmelo. C'è un solo fattore oggettivo: tutto il mercato dei bond è andato in crisi perché la situazione finanziaria italiana ed europea dava scarsa credibilità alla carta. Anche se i nostri bond non avevano un rating, una classificazione di rischiosità, perché i bond Cirio erano destinati esclusivamente alle banche. Io non vendevo ai risparmiatori, accendevo debiti con le banche.
Però poi le banche vendevano quei bond ai risparmiatori, gabbandoli. Non dirà che non ne sapeva nulla.
Proprio così: io non ne sapevo assolutamente nulla. Non sapevo che fine facevano quei bond, non sapevo che le banche andavano dai loro clienti e addebitavano quei bond sui loro dossier.
Eppure, è partita da lì la sequenza delle denunce per truffa. Anche contro di lei.
Non era una truffa mia. Ripeto: io non ne sapevo nulla. Tutto quello che so è che a un certo punto le banche hanno chiesto alla Cragnotti & partners che partecipasse al rinnovo dei bond. Io ho offerto loro asset patrimoniali in garanzia per il rinnovo del bond: non hanno accettato. Eppure, stavo per vendere partecipazioni di prima importanza, come la Del Monte Pacific, da sola un valore di 100-120 milioni di dollari.
Ma lei si sarà dato una spiegazione di questo dietrofront improvviso delle banche. O no?
No, non so spiegarmelo. Il progetto era stato illustrato alle banche. Eravamo in condizione di fare fronte al nostro indebitamento. Forse eravamo indietro nel programma di dismissioni, che ci avrebbero concesso di fare cassa e di ripianare il debito. Ma la crisi economica e la svalutazione delle partecipazioni consigliavano prudenza. Perché svalutare un patrimonio accumulato con tanta fatica?
Così, alla fine, è saltato tutto. Scusi, ma le pare possibile tanto masochismo?
È così. Le banche non hanno saputo comprendere le conseguenze. Chiamiamola superficialità del management bancario. Perché non è il nostro operato che ha creato il default, la crisi finanziaria, ma è vero esattamente il contrario: è il dietrofront delle banche che ha creato l'insolvenza.
Lei è stato criticato anche a causa delle spese pazze per la sua Lazio. Si sono calcolati 600 miliardi di lire spesi solo per l'acquisto dei principali giocatori. L'avventura nel calcio ha responsabilità nel crollo?
La Lazio è stata un investimento importante per il gruppo. Ma anche quello è stato gestito con grande trasparenza: l'abbiamo quotata in borsa! E il progetto anche in quel caso ha prodotto una valorizzazione. Io ho comprato la Lazio per 25 miliardi di lire nel 1992, la squadra è andata sul mercato con 300 miliardi e in borsa la società è arrivata a quotarne mille: un'escalation importante. Certamente, ora c'è la crisi del calcio. Ma anche li è mancato un progetto per fare uscire il settore dallo schema infantile che l'ha imbrigliato. Resta il fatto che la Lazio che ho comprato fatturava 30 miliardi di lire, la Lazio che lascio ne fattura circa 300.
Resta anche il fatto che ora, come il suo collega Calisto Tanzi, lei è additato come il «mostro» dei risparmiatori.
Parlo per quel che leggo sui giornali su Tanzi. Se è tutto vero, vorrei prendere le distanze da quel che è accaduto in Parmalat: Cirio è stata sempre trasparente con il mondo esterno e con gli organi di vigilanza. Non ha assolutamente nulla da nascondere. Per noi si è trattato soltanto di una momentanea crisi di liquidità, non sostenuta dalle banche, che ha causato un immenso danno d'immagine e poi un gravissimo danno finanziario per i risparmiatori. Abbiamo cercato alternative, ma l'ostinazione del sistema bancario contro l'imprenditore Cragnotti ha fatto precipitare la situazione.
In una telefonata, posta sotto Intercettazione, lei avrebbe manifestato scetticismo sull'Ipotesi di un arricchimento personale di Tanzi. Conferma?
Non penso che un imprenditore come lui abbia potuto distrarre, per sé, 14 miliardi d'euro.
Nei suoi interrogatori Tanzi ha detto che l'acquisto della Eurolat, uno dei punti focali dell'inchiesta sulle malversazioni in Parmalat, fu «fortemente caldeggiato», cioè Imposto, dalla Capitalia di Cesare Geronzi. È andata così?
Eurolat era leader nel latte fresco: 1.200 miliardi di fatturato, un margine operativo lordo di 80-90 miliardi, con marchi e asset industriali importantissimi per la Parmalat e la valorizzazione ne teneva conto. Il prezzo netto che fu pagato, poi, fu di 630 miliardi di lire.
Non è vero, allora, che la Capitalia fece un prezzo alto, o meglio lo impose, al solo scopo di consegnare a Cragnotti una liquidità sufficiente per coprire li debito che lei aveva proprio con Capitalia?
Capitalia fece solo da advisor. E io dovevo comunque riequilibrare la mia situazione debitoria. Non avessi venduto il latte, avrei ceduto qualcos'altro. Per la Cirio avevamo avuto offerte da Cooperative Italia, da Conserve Italia: possono confermarlo. Erano interessatissimi.
Però poi vendette proprio l'Eurolat alla Parmalat. Passando per il triangolo oggi sotto la lente delle procure, che mette insieme i tre indagati Cragnotti, Tanzi e Cesare Geronzi.
Geronzi è il presidente di Capitalia. Ma tutta l'operazione è stata fatta dal management. Hanno fatto da advisor, come in altre operazioni: tutto qui.
In che rapporti è oggi con Geronzi?
Non lo sento da molto, molto tempo. Ma è indagato anche lui, e in questa situazione non vorrei parlarne.
Se la sente allora di dire qualcosa ai 14 mila dipendenti Cirio o ai 35 mila risparmiatori caduti sul bond Cirio?
Vorrei dire loro che il gruppo Cirio-Del Monte è sano. Capace dì generare un flusso di cassa sufficiente per remunerare gli obbligazionisti. Credo infatti che ci sia una miriade di richieste per comprare le singole aziende. Del Monte è un gruppo da 600 milioni d'euro di fatturato: da solo ha le possibilità di dare agli obbligazionisti il loro capitale.
Ora il suo gruppo verrà venduto a pezzi: uno «spezzatino». Cosa ne pensa?
Penso che è sbagliato. Ho sempre lottato per portare avanti il progetto di un grande gruppo. Il ministero era entrato nella crisi con un progetto di amministrazione straordinaria finalizzato a mantenere l'unità. Era possibile, è possibile. Ma mi pare che i commissari vadano nella direzione opposta. Ed è un grave errore. L'Italia non avrà mai più un progetto: resteremo sempre un paese di piccoli imprenditori.
Una volta Enrico Cuccia di lei ha detto che coi denaro era una fattucchiera...
Ma perché voi giornalisti date sempre un'interpretazione negativa di quel vecchio giudizio? Con Cuccia avevo un rapporto ottimo, parlavamo, mi consigliava: ricordo anzi che a suo tempo mi suggerì di non entrare nell'alimentare perché mi esponevo ai rischi di sabotaggi. Ma so che mi stimava molto, come Raul Gardini. Ecco, io credo che abbia usato il termine «fattucchiera» come Gardini diceva che ero un «mago».
Oggi però, in borsa, usano un altro nomignolo: la chiamano «Crac-gnotti». Crudeli, vero?
Non posso biasimarli. Non posso nascondere la verità: Cirio ha subito un default, ma non credo per causa mia. Certo, abbiamo causato un danno agli investitori. E anch'io ho perduto tutto: in due mesi il mio gruppo è passato da una valutazione di 700 miliardi a zero. Il danno, provocato e ricevuto, è più grave di qualunque nomignolo mi venga affibbiato. Però non credo che il progetto fosse sbagliato: non c'è stato nulla di truffaldino, nessun occultamento di informazioni, nessuna sopravvalutazione. La Cirio-Del Monte non era una speculazione di Cragnotti, salvava l'agricoltura italiana. Il mio rammarico è questo: non avere completato l'opera. Ora chi è stato responsabile di questo fallimento dovrà pagarne le conseguenze.
Pare di capire, comunque, che lei non si senta responsabile. E così?
No, non mi sento responsabile. Credo di avere agito con assoluta trasparenza e che tutto quello che ho fatto abbia dato solo un valore aggiunto al gruppo. La responsabilità è altrove. Se improvvisamente, con un progetto che richiedeva cinque o sei anni almeno, le banche chiudono la porta dopo un solo anno, dovranno spiegare loro il perché. Io non sono un imprenditore sconfitto, sono solo un imprenditore abbandonato.
Dagospia 29 Gennaio 2004