PIU' ARTE, MENO SARTE! (ERA ORA)
I CAPOLAVORI DEL GUGGENHEIM GALOPPANO ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE
TRA UN PICASSO E UN POLLOCK, IN FILA LA ROMA POTENTONA DI VELTRONI E CALTA

Reportage fotografico di Umberto Pizzi di Zagarolo


UNA PICASSATA PER TUTTI
Paolo Vagheggi per La Repubblica


Un tempo ospitavano carrozze e cavalli. Oggi i tremila metri quadrati delle Scuderie Papali al Quirinale, recuperati sei anni fa da Gae Aulenti, sono invasi dai gialli di Roy Lichtenstein o di Pablo Picasso, dai verdi di Marc Chagall, dai rossi di Pierre Bonnard, dagli onirici autoritratti di Andy Warhol, dalle installazioni di Mario Merz e Richard Serra.
È la mostra Capolavori del Guggenheim, che apre i battenti al pubblico il 3 marzo: è una veduta sulle collezioni di Solomon e Peggy Guggenheim, zio e nipote, amanti dell´arte e concorrenti nell´acquisizione di dipinti e sculture. E´ un´imponente raccolta che la Solomon R. Guggenheim Foundation nel tempo ha ingrandito e completato con acquisti o ricevendo donazioni.

A Roma sono arrivate 83 opere da New York, Venezia e Bilbao, che, attraverso la collezione, offrono una veduta a volo d´uccello sulla storia dell´arte dalla fine del XIX secolo, dagli impressionisti, da Renoir e Monet, passando per Seurat, Kandinsky, Chagall, Braque, Matisse, Picasso o Léger, per arrivare a Pollock, Tanguy e ai nostri giorni. Sono punte del gigantesco iceberg Guggenheim, e questa è la prima di una sequenza di esposizioni che l´istituzione statunitense in collaborazione con quelle romane allestirà alle Scuderie.


STORIA DELLA COLLEZIONE PRIVATA PIU' BELLA DEL MONDO
Fabrizio Dentice per La Repubblica

La collezione Guggenheim, gestita dall´omonima Fondazione nei tre splendidi musei di New York, Venezia e Bilbao, è un caso esemplare, prima ancora che unico, di collezionismo illuminato tradotto in servizio pubblico. La sua storia è lunga, avventurosa, contrastata, e magnifica per la quantità di denaro spesa, la passione sia artistica che ideale profusa, la felice spregiudicatezza delle scelte (premiata sempre dal tempo), e per l´audace idea del Museo come opera d´arte in sé - un «insieme» totale di contenitore e contenuto - che ha portato alle straordinarie soluzioni architettoniche di Frank Lloyd Wright a New York e, a Bilbao, di Frank O. Gehry.

La Mostra alle Scuderie, volendo dire tutto quel che non può essere detto in una sola istanza, è come uno di quei calici che delibati ti lasciano con la voglia di attaccarti alla bottiglia. In ottantadue opere si ha un campione, sommario ma eloquente, dell´intera raccolta: e ordinato in modo che vi si legga anche la storia, ormai quasi secolare, del suo crescere. Con le vicende e diatribe del percorso, i criteri e motivazioni delle scelte, gli apporti, per donazione e acquisti in blocco di altre storiche collezioni, e soprattutto il confluire nel disegno finale di due operazioni ben distinte per natura e intenzioni. Perché fra il progetto intitolato a Solomon, lo zio, e quello di Peggy, vispissima nipote, non vi fu mai concordanza, bensì concorrenza, per non dire perfino puntigliosa rivalità.

Lo zio Solomon, afflitto da una fortuna miliardaria, al principio del secolo scorso comprava qua e là, come fanno i ricchi, per suo piacere e prestigio, e appendeva ai muri della suite che occupava con la moglie all´Hotel Plaza di New York. Tutto cambiò quando i coniugi conobbero una giovane pittrice alsaziana, contessa per soprammercato, che da Parigi s´era installata nel 1927 a New York.

Questa donna formidabile, Hilla Rebay, nutrita di teosofia steineriana e di passione per la «spiritualità» dell´arte che chiamava «non oggettiva» (e che noi diremmo astratta), presa per consigliere, mutò radicalmente le loro scelte, portandoli in Europa a conoscere gli artisti d´avanguardia a lei graditi e dando un chiaro indirizzo al loro fino allora svagato collezionismo.

La svolta salta agli occhi nella rassegna quando, da un primo gruppo di tele impressioniste (fra cui La donna con pappagallo di Renoir e il Davanti allo specchio di Manet) e postimpressioniste come il Paesaggio con neve di van Gogh e il Contadino che zappa di Seurat, ci si trova davanti al Ritratto di Mistinguette di Picabia, e più ancora a tre tele del periodo «distruttivo» di Robert Delaunay. Qui il curatore della Mostra, Lisa Dennison, si è servita di esempi in parte impropri (perché, come il Renoir e la splendida Donna in abito da sera di Manet, acquisiti con lasciti più tardi), ma assai efficaci per rendere nel loro insieme l´idea di quel che i coniugi Guggenheim collezionavano nella fase ancora eclettica, prima che la Rebay irrompesse con la sua foga ideologica nel loro vivere.

Anche Paul Klee e Wassily Kandinsky furono tra i primi cooptati; ed il secondo, ai cui scritti sull´arte Hilla si abbeverava, finì per diventare con circa centocinquanta opere il pittore più comprato. Di riflesso, nella rassegna alle Scuderie, di Kandinsky troviamo ben sei tele, di cui tre ancora figurative e le altre - composizioni astratte stimate fra i suoi capolavori - scaglionate in un tempo che va dal 1922 al '41.



Nel '37, traboccando ormai di quadri la suite dell´Hotel Plaza, Solomon si risolse a dar vita alla Fondazione, che due anni dopo inaugurava in un ex salone automobilistico il suo Museum of Non Objective Painting. Solomon peraltro continuò per venti anni ancora, fino alla morte nel '49, a comprare - Rebay o non Rebay - tutto quel che gli piaceva, «non oggettivo» o «oggettivo» che fosse. Aveva pure, dal '43 incaricato Frank Lloyd Wright di costruirgli, per metterci tutto dentro, un nuovo e innovativo museo che fosse anche un segno nel passaggio urbano; ma per contrasti di idee e, da parte di Wright, continue modifiche del progetto, non arrivò a vederne intrapresa la costruzione.

La prima pietra dello stupefacente edificio fu infatti posata soltanto nel '52, quando lui era ormai morto da tre anni ed Hilla Rebay, per la rigidità dei suoi criteri, era stata già rimossa e sostituita da un più aperto direttore, James J. Sweeney, tolto al MOMA.
La prima parte della Mostra, con una quarantina di pezzi, rispecchia per sommi capi, ma fedelmente, quello che fu il formarsi della raccolta in vita di Solomon e fino all´inaugurazione nel '59 del Museo di Wright. Ed è un po´ come sorvolare a bassa quota il più scelto giardino dell´arte contemporanea. C´è il Mondrian delle fasi sintetica ed astratta e Chagall con Il soldato che beve e Il calesse volante. Ci sono Braque e Léger, il Cézanne del Jas de Bouffan e il Cézanne ritrattista; il Matisse de L´italiana e il Franz Marc del Toro bianco; Bonnard con la grande e deliziosa Sala da pranzo sul giardino, il "Doganiere" Rousseau con Gli artiglieri, il Kupka simbolista con un suo capolavoro: il Grande nudo del 1910. Né poteva mancare la scultura «non oggettiva» di Brancusi, e di Jean Arp, grande amore di Hilla.

Peggy frattanto, non meno miliardaria dello zio, aveva preso, in Europa, un´altra via, diversa e più avventurosa. A Parigi, nel «ruggente Ventennio» tra le due guerre aveva fraternizzato coi Surrealisti e comprato, - stando al suo diario - «un´opera al giorno». A Londra, nel '38, si era fatta mercantessa, e nemica a vita di Hilla Rebay, che per l´insegna della galleria, «Guggenheim-Jeune», le rinfacciava di avere «usato e infangato per profitto» un nome che nel mondo era «legato a un ideale artistico». I rapporti, già tesi, s´erano vieppiù inaspriti quando Peggy, rimpatriata nel ´41, s´era messa a commerciare anche a New York, con una spettacolare galleria («Art of this Century») che metteva le ali ai prezzi dei Surrealisti e promuoveva l´espressionismo astratto e l´action painting della nascente Scuola di New York.

L´Europa restava tuttavia il solo amore durevole della nipote di Solomon, che vi tornò quando tacquero le armi, comprò a Venezia sul Canal Grande lo storico palazzo Venier dei Leoni, e vi prese dimora per farne anche la sede di un altro Museo Guggenheim, ma suo. Rivalità e dissapori con New York non impedirono che nel ?79, quando anche lei, trent´anni dopo lo zio, passò a miglior vita, per testamento fosse erede del tutto la non amata Fondazione.

Da quel congiungimento scaturisce la presenza in mostra di una scelta di opere da Venezia rappresentativa delle preferenze di Peggy e delle linee guida del suo collezionismo. I Surrealisti, per cominciare, con la grande Aurora di Delvaux e altre tele importanti di Tanguy, Dalì e Max Ernst (che di Peggy - va ricordato - fu, ma per breve tempo, anche marito). E poi la Scuola di New York, con due volte Mark Rothko e ben tre Jackson Pollock (beniamino e per primo stipendiato, a soli ventun anni, dalla «Art of this Century»). Ma pure il De Chirico metafisico del Pomeriggio soave e la Velocità astratta del Balla futurista.

Dal raddoppio per opera di Peggy, l´accresciuta sostanza e la figura di istituzione pubblica, trina e monumentale, hanno attirato al Museo una pioggia di donazioni strepitose, che insieme a mirati acquisti ne accentuano il carattere di vetrina aggiornata del «nuovo» che continuamente irrompe nel «contemporaneo» e diventa Storia.

L´attenzione è ovviamente speciale per l´arte americana, che nel finale della Mostra è fatta letteralmente esplodere sotto i nostri occhi in tele ed assemblaggi grandiosi. Helen Frankenthaler, Motherwell, Sam Francis, Rauschenberg, Lichtenstein, Richard Serra ed altro ancora, fino al Disastro arancione e all´Autoritratto dell´86 di Andy Warhol. E tutto grande per formato e impatto visivo: un fuoco d´artificio, messo lì come un punto esclamativo alla fine di un bel discorso.


Dagospia 02 Marzo 2005