NELLA CRUNA DI DAGO - LA VITA È RACCONTO. ECCO PERCHÉ IL PETTEGOLEZZO NON MORIRÀ MAI - DI DAGOSPIA NE AVEVANO BISOGNO I LETTORI, CHE VOLEVANO SAPERE DI PIÙ E AVEVANO BISOGNO D'ALTRO. LO HANNO FATTO LORO - ANCORA 3 ANNI E POI MI LICENZIO.

Alain Elkann per La Stampa


Roberto D'Agostino si aggira a piedi nudi con pantaloni di tela chiari e una polo blu per la casa attico nel centro di Roma. Al muro un grande quadro, un oggetto fallico sul bordo di una finestra che guarda in lontananza Roma e il Vaticano.
Sul terrazzo del piano inferiore si intravede una palma di plastica fosforescente, stile Las Vegas.

D'Agostino, come definirebbe la sua grande casa dalla quale esce solo di notte?
«Roma è fantastica di sera, il giorno la vedo dalle finestre. Per me è una casa-casino, nel senso di casa di piacere dove c'è un miscuglio di alto e basso dall'arte agli arti... Opera d'arte mescolate con quello che è il significato della cultura pop che negli Anni 60 ha fatto un gesto fortemente rivoluzionario e antiborghese. Warhol ha portato in alto una zuppa Campbell».

Si considera un collezionista?
«No. E' un'espressione funebre quella di collezionista».

Però i gadget fanno parte integrante della sua vita...
«Non è una collezione, è un affastellarsi dei simboli contemporanei del vivere. Mi creda, gli oggetti hanno la capacità di essere attivi. Li puoi chiamare gadget o sculture, l'oggetto è attivo. Anche lo Swatch è attivo. La tecnologia dagli Anni 80 in poi con il computer è riuscita a dare il grande cambiamento».

Lei si definirebbe un intellettuale, un giornalista, un personaggio, un grande curioso?
«Le trovo tutte etichette antiche, perché gran parte di questi mestieri sono obsoleti».

E allora lei chi è?
«Sono giornalista, ma non è colpa mia. Faccio la televisione, ma non è colpa mia...».

Essere il deus ex machina del sito «Dagospia» che fa arrabbiare tutta Italia, è colpa sua?
«No. Non è neanche colpa mia. Dagospia non appartiene a me, nasce il 23 maggio 2000 con tutt'altri fini. Io non avevo in mente questo. Sulla spinta di Barbara Palombelli che fu la prima a fare un sito su Web entrai nella Rete. Io non sapevo nulla di Internet e pensavo solo di aprire uno spazio per un blog, un diario telematico di costume e società che erano gli argomenti miei, dalle mutande alle feste senza alcuna ambizione».

Poi si è fatto serio, è entrato nei grandi giochi...
«Non sono entrato, mi hanno messo. Di Dagospia ne avevano bisogno i naviganti, i lettori, che volevano sapere di più e avevano bisogno d'altro. Lo hanno fatto loro. Quando Dagospia è nato ho ricevuto tante di quelle indiscrezioni che riguardavano politica, finanza, Vaticano, economia. Lo hanno fatto gli altri e io sono diventato il contenitore».

Ma come è iniziato tutto questo?
«Quando mi spifferarono la notizia di Sonia Raule, direttore di programmi di Telemontecarlo, fu la palla di neve che è diventata slavina, e giorno dopo giorno cambiò il contenuto».

Ma gli informatori quanti sono?
«Non lo so nemmeno. Vede, mi hanno appena chiamato per dirmi per esempio che Rainer Masera ha ricevuto la Legion d'onore».

Gli informatori sono anonimi?
«No. Devo assolutamente sapere chi sono. E da parte mia nessuna indiscrezione. L'unico nome che posso fare, perché è la guida spirituale del sito, è Francesco Cossiga, "noto spione"».

Altri grandi informatori?
«I peggiori sono i giornalisti. Loro mi hanno scodellato le polpette avvelenate e le querele. Brutta razza i giornalisti!».

Ma lei non è un collega? Sarà invidia?
«Forse quello dei giornalisti è un mondo rancoroso più che invidioso».

Come organizza il lavoro?
«Vorrei che fosse chiaro che considero Dagospia una portineria elettronica. Nel senso che c'è un via-vai come una volta, ti raccontano le corna dell'uno e dell'altro, quello che è fuggito con la ragazzina; insomma, un tempo il portiere raccontava i fatterelli, adesso ci sono io. Un tempo la piazza italiana era un taglia e cuci di racconti e di aneddoti. Noi nasciamo e abbiamo le favole e da grandi abbiamo bisogno di altre favole. La vita è racconto. Ecco perché il pettegolezzo non morirà mai. Gli inglesi che lo hanno coltivato bene dicono che è la bugia che dice la verità».

Di quello che scrive, quanto c'è di vero e quanto inventa?
«Per quanto riguarda le nomine di personaggi, i cambi societari, questi sono fatti e sono sempre o veri o falsi. Poi c'è la capacità di raccontare. Nel pettegolezzo c'è quello "alto", come la Recherche di Proust».

E' vero che il suo maestro è Arbasino?
«Sì, mi ha folgorato con Fratelli d'Italia, uno dei più grandi libri di pettegolezzo degli Anni 50-60. Lì c'è la fiction».

Molta gente ha paura di lei?
«Ma no. Io ho paura di me stesso».

Lei però ama provocare?
«Lo slogan di Dagospia è: in un Paese serio Dagospia non esisterebbe».

Ma preferirebbe che non esistesse?
«Preferirei fare altre cose. Quando fra tre anni scoccherà il mio sessantesimo compleanno chiuderò Dagospia. E' un'esperienza e poi basta. Ne ho avute tante altre».

Ricordiamole...
«Ho fatto dai 7 ai 14 anni il boy scout, dai 18 ai 30 il bancario di giorno e di notte il dj (e l'estate romana di Nicolini), dai 30 in poi il giornalista, lo scemo in televisione e ho scritto 9 libri tra cui uno di plastica gonfiabile».

E soprattutto «Sbucciando piselli» con Federico Zeri...
«Sì. Per me è stato un maestro di vita e lo rimpiango, rimpiango la sua morte ogni giorno».



Ma che cosa vi univa?
«Erano le affinità elettive, che ti portano a vivere con Zeri per sei mesi per scrivere un libro. Era un maestro per me, irraggiungibile».

Lo scherzo e il ridere vi accomunavano?
«Sì. Abbiamo avuto la sintonia di vedere le cose col cinismo romano. Vedere ogni cosa da un punto di vista grottesco. E' la tradizione. Del resto pensiamo a Belli, Longanesi, Flaiano. Smontare la realtà a colpi di battute feroci».

Adesso però ci sono banche, intercettazioni, grandi affari, politica. Non è roba da poco...
«Ormai l'Italia è diventata Italiaspia e viviamo in Italiaspia, altro che Dagospia!».

Si diverte in questo Paese?
«Io mi diverto a vivere a Roma».

Perché Roma?
«A Parigi tutti si credono Napoleone, a Roma tutti si credono il Papa; quindi c'è una capacità di vedere quello che avviene con cinismo. Chi passa da Roma viene demolito. Qui è tutto "ajo, ojo e peperoncino"».

E la spiritualità?
«C'è anche quella, fortissima. Però, privata. Non è una città che ama mettere i sentimenti in piazza. E' una città, in fondo, molto chiusa».

Lei non è un po' riduttivo?
«Il cinismo è la capacità di vivere attraverso i paradossi. E il paradosso cos'è se non la capacità di mettere in risalto la verità? Quindi a Roma c'è una maniera paradossale di parlare e comportarsi. Roma è extraterritoriale come il Vaticano. Io sono nato a Roma, sono le mie radici, e a New York non mi diverto come qui perché parlano un'altra lingua, la mia identità è questa. La cultura romana è quella che permette di cucinare Dagospia, che mescola palazzi del potere, salotto Angiolillo, Vaticano. Il potere è in piazza».

Le piace il potere?
«Mi piace raccontarlo. Mi piace perché è formato da un cono d'ombra. Il potere è il diavolo, non è il denaro, è il potere che conta più del denaro».

Ma se non si parla che di soldi, di scalate...
«Di soldi puoi averne finché vuoi ma non fanno il potere».

Che cos'è il potere?
«Cuccia è il massimo esempio. Non aveva niente, camminava a piedi per andare a Mediobanca».

Lei è potente?
«Assolutamente no».

Però dice tutto quello che vuole e non ha padroni...
«Sono potente nella misura in cui non ho nessuno sopra di me, che mi dice quello che devo fare. Io sono padrone di me stesso. E come le ho detto sopra, a 60 anni mi licenzio».

Non credo che ce la farà...
«Si dice sempre così, poi è importante uscire bene dalla scena, al momento giusto. Abbandonare il palcoscenico al massimo del tuo show, non quando la platea fischia. E' la cosa più difficile della vita. Io chiuderò al massimo».

E come lo saprà qual è il suo massimo?
«Il massimo dell'età, 60».

Ma la pensione è a 65. Che cosa farà in quei cinque anni?
«Scriverò libri e farò viaggi. Per me la vita è un gioco e non voglio prenderla sul serio».

Non è che poi finirà in politica?
«Sono pronto per candidarmi per le secondarie».

Ma lei vive al telefono?
«La mia giornata è così. Leggo i giornali, almeno 10, tutti i settimanali, e poi una raffica di telefonate dalle 8 alle 21».

E quando scrive?
«Ho imparato a stare al telefono e con una mano scrivo. E poi naturalmente ci sono collaboratori da tutte le parti che mandano pezzi. E' un bollettino di guerra che si aggiorna ogni ora».

Ma c'è uno stile comune Dagospia?
«Come no. C'è un artificio retorico tipico del gossip. Non si può dire Tizio va a letto con Caietta. Bisogna fare la fiction».

Chi sono i suoi lettori?
«Il target è medio-alto perché Internet non è ancora così popolare, anche se lo è sempre di più. Io so che, per esempio, ieri ho avuto più di 180 mila visite ma in autunno arriviamo a 200 mila. E ogni giorno abbiamo un'auditel dei pezzi più letti».

E che cosa interessa di più?
«Il grande successo è Cafonal che racconta attraverso le immagini di Umberto Pizzi lo show off del potere. Le immagini vanno più forte delle parole».


Dagospia 12 Settembre 2005