GLI AGNELLI D'ITALIA. OVVERO L'IMPOSSIBILITA' DI VIVERE UNA VITA NORMALE
DAL MISTERIOSO INCIDENTE STRADALE DEL '52 AI FESTINI CON COCAINA E TRANS
SCAVARE NEL PASSATO, AL DI LÀ DELLE APPARENZE, SERVE A CAPIRE IL PRESENTE

Ugo Bertone per Il Foglio

Benedetto l'errore di quell'ignoto cronista provenzale di provincia, condannato ai più umili lavori di cucina (redazionale, naturalmente). Il resoconto degli incidenti d'auto, ad esempio. Tipo quello che, nella notte tra il 21 e il 22 agosto del 1952, alle 4.10 del mattino per l'esattezza, ebbe per protagonista, all'uscita della galleria di Cap Roux, "una Fiat che ha investito una Lancia: sei feriti, di cui quattro gravi". Di particolari in cronaca non ce ne furono molti, salvo che, allaguida della Fiat c'era un certo "Giovanni Angeli". O Agnelli? Chissà se quel refuso fu un segno della Provvidenza oppure, come spesso capita, qualcuno si preoccupò di dare una spinta alla divina Provvidenza. Quel che è sicuro è che una tragedia sfiorata, che al futuro Avvocato costò quasi un anno di immobilità con il rischio dell'amputazione di una gamba, venne liquidato in poche righe di una cronaca di Nice Matin. Che differenza con il trattamento riservato al nipote, Lapo Elkann, fulminato sulla via del Valentino.

Certo, ciascuno ha il teatro che si merita. I tornanti della Basse Corniche che corre negli anni Cinquanta tra Beaulieu e Monaco, una delle poche zone appena sfiorate dal conflitto mondiale, evocano più il clima di "Caccia al ladro", Grace Kelly, Cary Grant più Alfred Hitchcock che non la triste rispettabilità piccolo borghese dei condomini di via Marochetti, a Torino, a pochi passi dalla Stampa e da quell'officina di corso Dante dov'è nata la Fiat. E quella compagnia internazionale da Alì Khan a Stavros Niarchos che animava le notti della Costa Azzurra quando Brigitte Bardot ancora frequentava le medie, ha ben poco a che vedere con i transessuali di barriera. Le donne avevano il fascino di Linda Christian o di Rita Hayworth, gli amici quello di Porfirio Rubirosa o di Errol Flynn. Ma scavare nel passato, al di là delle apparenze, può servire a capire il presente.

Le difficoltà, ad esempio, dell'educazione del principe moderno, soprattutto in quella versione bizzarra che, da più di mezzo secolo, rende diverso il signor Fiat da qualsiasi capitano d'industria italiano. Il caso Agnelli, insomma, può servire per capire il tutto. Anche le radici di una maledizione, l'impossibilità a vivere una vita normale, che non è un fatto privato, soprattutto dopo che l'Ifil, recuperando la maggioranza in Fiat ai danni delle banche del convertendo, ha riaffermato il primato assoluto della famiglia più famosa d'Italia sull'impresa manifatturiera più importante del paese.

Una prima chiave di lettura si trova forse proprio negli avvenimenti di quella notte d'agosto del 1952. Gianni Agnelli, allora poco più che trentenne, era reduce da una festa in casa di Arpad Plesch, ricco ed enigmatico uomo d'affari ungherese. A fine serata si era offerto di accompagnare a casa Anne-Marie d'Estainville, 17 anni, splendida adolescente alle prime uscite pubbliche. Lei accettò con entusiasmo, racconta Marie-France Pochna, autrice dell'unica biografia autorizzata dall'Avvocato (che presto si stufò dell'impresa). Ma aveva dimenticato la borsetta. Agnelli corse indietro per riprenderla. Poi, per più di un'ora, non si fece vedere salvo riapparire con la camicia aperta e la cravatta slacciata.

Cos'era successo? L'ipotesi più probabile è che lo scapolo d'oro abbia dovuto subire una scena di gelosia di Pamela Churchill, già divorziata da Randolph, figlio di sir Winston. Quel che è certo è che Agnelli è un'altra persona, rispetto all'affascinante damerino di poche ore prima: teso, nervosissimo, schiaccia l'acceleratore a tavoletta uscendo con una sgommata da villa Leopolda di Beaulieu. Lo scontro frontale, tremendo, si verifica pochi minuti dopo sulla statale 98: l'auto va a sfracellarsi contro un camioncino Lancia di alcuni macellai e lo schiaccia contro una parete di roccia.

Sembra la fine del mondo: un passeggero, Louis Penna riesce a liberarsi e a chiamare i soccorsi. Anne-Marie, piena di lividi ma integra, esce dall'auto. Per sua fortuna, arriva in quel momento un altro partecipante alla festa, Carlo Stagni, assieme ad alcuni amici. Sarà lui a provvedere che la ragazza sia portata via prima dell'arrivo della polizia. Anne-Marie ripulirà le ferite con la vodka all'Old Beach hotel di Montecarlo. Poi rientrerà in casa, in punta di piedi: non dirà nulla a nessuno, nemmeno ai genitori.

Intanto, sul luogo dell'incidente, il brigadiere Billat dirige le indagini: i macellai sono presto trasportati all'ospedale Saint-Roch di Nizza da dove saranno dimessi dopo un mese di degenza. Un incaricato di casa Agnelli provvederà a contattare le famiglie per una liquidazione rapida e generosa: niente assicurazioni, niente tribunali, naturalmente. Intanto Carlo Stagni, rimasto sul posto, spiegò ai gendarmi che al fianco di Agnelli viaggiava un certo Charles Van der Brouk, un arredatore di successo. Lui, poveretto, aveva subito un brutto choc ma niente di più. Se la polizia voleva interrogarlo, bastava chiamarlo a Monaco dov'era stato trasportato da solleciti amici. E l'indomani Van der Brouk confermò tutto. L'incidente? Tragica fatalità, senza colpe specifiche di nessuno.

Tutto a posto? Non proprio. Quando Gianni Agnelli arriva alla clinica Lutetia di Cannes i medici contano sette fratture alla gamba destra. L'intervento dura parecchie ore. Con un pessimo esito. All'epoca. Si sa, i mezzi a disposizione dei chirurghi erano quel che erano. Gli esami del sangue erano stati fatti in fretta. Probabilmente, il tasso di glicemia del paziente era alterato dall'alcool e dagli eccitanti assorbiti durante la serata. Fatto sta, dopo una settimana la diagnosi non lascia adito a dubbi: setticemia.

Ci vorranno nove mesi d'immobilità più tutta l'abilità del professor Dogliotti, mago della chirurgia torinese, per evitare l'amputazione della gamba. C'era voluta la dedizione della sorella Susanna, già infermiera di guerra, per prendere in mano la situazione e salvare il ferito. Ci volle l'enorme forza di volontà del ferito per superare la prova: l'anno dopo grazie ad una protesi, la gamba funziona. E Gianni Agnelli potrà tornare alla barca, lo sci e, naturalmente, alla guida veloce. Come se niente fosse. Anche perché, sia sui verbali di polizia che sui giornali italiani e francesi, quella notte del 21 agosto era scomparsa. Dissolta nella nebbia del passato. Purtroppo per Lapo, i tempi sono cambiati.

Altri tempi, altro destino. Ma, naturalmente, la preparazione del principe non si consuma in un episodio solo, per drammatico e cruento che sia. Il lungo tirocinio di Gianni Agnelli prima di assumere il bastone del comando dura
vent'anni. Anzi, di più se si considera che il giovane tenente Agnelli viene cooptato, come vicepresidente, nel consiglio Fiat il 25 febbraio del 1943, a 22 anni non ancora compiuti. "La stessa età - ricorderà nell'assemblea Fiat del 22 giugno 1998 - che ha oggi mio nipote John Elkann. Da allora nel consiglio Fiat sono rimasto circa vent'anni, accanto al Professor Valletta, fino a quando, nel 1966, mi affidò la presidenza della Fiat".

Sembra la stessa storia, ma non lo è. Da quel mattino di sette anni fa, l'ingegner Elkann timbra il cartellino al Lingotto. E il fratello Lapo si è ben presto dato da fare per ritagliarsi un ruolo, responsabile del marchio Fiat, di non minore impegno, almeno in termini di stress. Gianni Agnelli, invece, si farà vedere ben poco ai piani alti del quartier generale della Fiat. La routine quotidiana della gestione lo annoia. Al limite gli basterà la gavetta (distratta) alla Riv di Villar Perosa, la fabbrica di cuscinetti a sfera che il nonno Giovanni gli aveva regalato per il suo primo compleanno nel 1922.

Oppure, prima carica pubblica, un posto ai vertici del consiglio della Juventus, la prima poltrona che cederà al fratello Umberto. Questi diventerà presidente della Juve nel 1955, a soli 21 anni, il tempo giusto per portare in bianconero Omar Sivori e John K. Charles. Lapo, probabilmente, sognava quella poltrona, magari con Antonio Cassano in campo. Facile che quel sogno sia svanito. O, almeno, rinviato di qualche primavera. Lo studio? Il giovane Gianni si accontenta di una laurea strappata negli anni di guerra, quando anche all'università non si va tanto per il sottile. E lui stesso ricorda che Luigi Einaudi in persona, all'atto di riconsegnargli il libretto, dirà: "con quel cognome che porta dovrebbe vergognarsi".



L'Avvocato non è mai stato avvocato. Né, per la verità, ha mai voluto esserlo. Ma la sua vera scuola è stata la guerra in cui dimostra non poco coraggio personale. Oppure le prove di capofamiglia cui viene chiamato dal destino. Come in quella gelida mattina del 19 dicembre del 1945, quando cammina solo in testa dietro il feretro del nonno, fino alla sepoltura a Villar Perosa. La Stampa, allora sotto gestione commissariale, dedica al fondatore della Fiat solo un titolo a due colonne: "negli ultimi tempi era l'ombra di sé stesso - si legge - Il lottatore che sembrava temprato nell'acciaio era ormai vinto". E' in questa cornice che Gianni Agnelli decide che non è ancora arrivato il suo momento: il 18 giugno 1946 Vittorio Valletta viene nominato presidente della Fiat. Alla vigilia era stato proprio il Professore ad offrire al nipote del fondatore la doppia carica. Ma, con grande saggezza, Gianni fa un passo indietro.

Comincia così il "lungo sonno"di Gianni Agnelli. Niente di paragonabile all'assunzione di responsabilità dei due giovani Elkann, ansiosi di dimostrare fin da subito in Fiat che la classe non è acqua. Niente di paragonabile all'Eden infinito del nonno. Su di lui si sprecano gli aneddoti più bizzarri, prima e dopo le nozze con donna Marella. Come nel '58, quando con una combriccola di amici sbarca a Saint-Tropez: tutti in pantaloni
bianchi e camicia azzurra aperta sul petto (non è ancora tempo di lanciare felpe firmate con il marchio Fiat), tutti all'Esquinade, bar destinato all'Olimpo del jet set.

All'alba tutti al mercato del pesce ad avvicinarsi ai banchetti, ricorda Beno Graziani, leggendario reporter rosa di Paris Match, aprire i pantaloni ed esibire le proprie nudità ai pescatori che scaricano le casse dalle barche: una scena che fa molto Fellini, ma pare che sia vera. Così come l'abitudine di far pipì sulla roulette che gli vale l'interdizione da più di un casinò. Anche se la leggenda, soprattutto in quegli anni, spesso fa premio sulla realtà. Ma che volete? Non c'erano le tv, ma nemmeno i paparazzi. Purtroppo per Lapo , i tempi sono cambiati.

E' lo stesso Gianni Agnelli ad alimentare quest'immagine da leggenda: "mi piacciono le vetture veloci, il tappeto verde, le belle ragazze". Uno stereotipo che trae in inganno gli antagonisti di sinistra. "Un principe molle, con propensione alla noia - lo dipinge nel marzo del '43 un'inchiesta dell'Unità - che dal nonno ha ereditato solo il nome ed il denaro. Talento: niente". Infine: "Ignora del tutto il brivido mattutino di alzarsi alle sei, come faceva il senatore e come fanno i suoi operai". Eppure, proprio in quel 1959 il principe annoiato che sverna in via Veneto ha compiuto un passo fondamentale: la nomina alla guida della cassaforte finanziaria del gruppo, l'Ifi.

E' il ruolo chiave per il controllo del patrimonio di famiglia. Ma è, soprattutto, il posto in cui Agnelli si trova a che fare con i due nomi più illustri della finanza italiana: Raffaele Mattioli, presidente della Comit ed Enrico Cuccia, amministratore di Mediobanca. Ma è con Cuccia che si stabilisce un legame immediato, quasi istintivo. Valletta non ama Cuccia, anzi fa il possibile per tenerlo lontano dagli affari Fiat. Il banchiere, ricorda Guido Carli, già guarda avanti: "Cuccia si arrovellava sulla Fiat del dopo Valletta". Ed è il primo, quasi il solo a puntare sul re della dolce vita su cui si sprecavano aneddoti e battute pure in Confindustria.
Cuccia no, già vedeva in Agnelli un manager pronto al salto di qualità, da affidare ad André Meyer, nume di Lazard, per l'introduzione nella finanza che conta, tra Parigi e New York. "Agnelli mi è piaciuto - dirà in una delle rarissime confidenze - perché tutto gli stava stretto. Torino, l'Italia. E non aveva paura di farsi nemici".

Grazie ai suggerimenti di Cuccia, intanto, l'Avvocato può preparare il grande sbarco in Fiat: nel 1962 viene allargata la base finanziaria mediante il collocamento di azioni privilegiate, senza cioè chiedere nuovi quattrini agli azionisti. In quanto alle ordinarie, c'è l'impegno di non venderle salvo che far posto, con il benestare di tutti, a nuovi soci. E' in questo modo che Agnelliapre la porta di casa all'amico Leopoldo Pirelli.

Infine, già nel 1952 quello sciagurato che aveva eletto a domicilio la Costa Azzurra acquistando la villa dell'ex re del Belgio si era procurata un'amicizia preziosa: quella con il neo senatore John Fitzgerald Kennedy. Anzi, come si conviene alla sua fama dell'epoca, il primo contatto è con Jacqueline, sola dopo che John era ripartito per gli Stati Uniti. Gianni le propose una gita in barca, cominciò così un'amicizia tra le due coppie destinata a saldarsi sulle piste di sci di Saint Moritz o a Hyannis Port, il feudo del clan Kennedy.

Finanza, politica, il fascino che deriva dallo sport e dal successo. Quando l'Avvocato
arriva sulla soglia del potere in Fiat, ha le spalle più solide di quanto non potessero immaginare amici e nemici. Se si confronta la sua iniziazione al potere con l'iter seguito per i nipoti saltano all'occhio alcune evidenti differenze. Il tempo, innanzitutto. Era una scelta obbligata? Probabilmente no, anche se gli eredi Elkann non hanno attribuito la necessaria fiducia all'ultima scoperta dello zio Umberto, ovvero Sergio Marchionne.
Eppure, valeva la pena di assimilare la lezione del nonno. La lenta ascesa dell'Avvocato al potere passa attraverso la finanza e la politica, senza nemmeno sfiorare la gestione in Fiat. E' dalla stanza dei bottoni della finanziaria che si tessono le alleanze giuste e, soprattutto, si possono individuare le strategie per crescere.

E' quanto ha fatto Markus Wallemberg, leader dell'altro grande impero familiare europeo. Oggi Investor, l'Ifil del colosso svedese, è una grande finanziaria di partecipazioni che segue da vicino i suoi investimenti nel sistema bancario, nella farmaceutica o in Ericsson più una miriade di investimenti in società innovative, ad alta potenzialità di reddito. Al contrario, la famiglia si è progressivamente allontanata da Electrolux e dall'auto. In nessuna società i Wallemberg controllano la
maggioranza, ma ovunque (circa il 30 per cento delle società quotate a Stoccolma) contano su propri controllori nel consiglio di amministrazione. Alla logica del potere, insomma, si è sostituita quella della redditività.

Gli Agnelli hanno seguito il percorso opposto. Oggi l'impero finanziario, dopo le dimissioni di Daniel Winteler dall'Ifil, è in pratica governato dal solo Gianluigi Gabetti, più che ottuagenario, protagonista assoluto del contestato blitz sul convertendo che tanti malumori e strascichi ha lasciato nel mondo delle banche. Né s'intravede un asse diretto con i possibili Cuccia di oggi, da Corrado Passera (furente per l'esito del prestito convertendo) allo stesso Alessandro Profumo. Per non parlare di Enrico Salza, presidente del Sanpaolo-Imi. Dopo la sottoscrizione dell'equity swap, intanto,
più della metà del patrimonio familiare è concentrato in Fiat. E lì, forse con troppa precipitazione, i giovani Elkann hanno assunto compiti operativi che richiedevano più esperienza o, comunque, una formazione più completa.

Lì, sulle spalle degli eredi, si è caricato un cumulo di responsabilità che, probabilmente, si sono rivelate eccessive, forse insostenibili. Certo, ha ragione Luca di Montezemolo a dire che per il Lingotto nulla cambia dopo il dramma di Lapo. Ma non è detto che questa sia una bella notizia per la Fiat, per i suoi azionisti o per il gruppo Agnelli.


Dagospia 17 Ottobre 2005