TOSATTI STORY - "NON SI È CAPITO CHE LO SPORT È DI PER SÉ UNO SPETTACOLO A FORTI TINTE, NON HA BISOGNO DI SHOWMAN. BISCARDI, CHE LO HA CAPITO, FA UNA RAPPRESENTAZIONE QUASI OSCENA, VOLGARE, QUALUNQUISTA DEL CALCIO, MA FA PROPRIO QUELLO".
Franco Recanatesi per News settimanale
"I salesiani mi hanno fatto un culo così, ma ora li ringrazio: se nella vita sono stato competitivo, lo devo a loro e alla fame che ho sofferto da bambino». Dice "competitivo" Giorgio Tosatti e non capace o intraprendente o fortunato. Competitivo come può essere soltanto l'animo di un giocatore; intelligente e tignoso, plasmato non solo dalla scuola dei salesiani, ma anche da un'infanzia canaglia che non ti lascia scampo: o ti stronca o ti fa d'acciaio.
A Tosatti è andata bene, ha steso ostacoli come un caterpillar, ha realizzato un mestiere (anche se non quello desiderato) che gli ha offerto gloria e denaro. Adesso è fra i giornalisti più popolari e apprezzati d'Italia, numero uno indiscusso nel campo sportivo. Ha una bella famiglia, moglie e due figli maschi, una bella casa a Roma che affaccia sul Circo Massimo, un rassicurante conto in banca. E non gioca più. Con le carte, almeno. Il vizio (la virtù) del gioco intellettuale gli è rimasto: «Un giocatore lo è per sempre. E ha un passo in più rispetto agli altri. Di certo più degli altri si gode la vita. Io me la sono spassata. E nel momento in cui dovesse finire direi: va bene, questa mano l'ho persa, addio».
Tosatti, la sua filosofia sembra a metà strada fra gli eroi di Dostoevskij e Amici miei.
La formazione è tutto. Ti formano la famiglia, la scuola, gli amici, ma soprattutto le esperienze, gli eventi. I miei ricordi più vivi di bambino sono le bombe che hanno distrutto la nostra casa di Genova, i tre giorni e tre notti alla stazione di La Spezia con una sola fontanella per tutti e niente da mangiare, l'odissea a piedi da Genova alla casa dei nonni di Sampierdarena, di notte, schivando i cadaveri sulla strada, mia madre e mia sorella più grande che dicevano sempre «non ho fame» perché noi maschi mangiassimo di più. E quando avevo 11 anni e la miseria sembrava superata, la morte di mio padre a Superga. Mia madre fece miracoli per farmi studiare, non riuscii a prendere la maturità perché dovetti lavorare per portare qualche soldo a casa, ma quegli anni sui banchi li ho macinati con una rabbia e una determinazione da farli fruttare il doppio.
Il rigore, la durezza, la tenacia dei salesiani. Dalle scuole salesiane arrivano anche Pippo Baudo e Berlusconi.
E Giancarlo Caselli e Mario Giobbe, miei compagni di classe al Valselice di Genova. Ma questo carattere tosto affiorava già da bambino. Un ricordo emblematico: avevo dieci anni, frequentavo la quinta elementare, presi 5 in matematica nella pagella del secondo trimestre. Non avevo mai avuto un'insufficienza. Bussai alla porta del preside. Gli dissi: «Sono vittima di un'ingiustizia, dev'esserci un errore». Lui verificò: c'era stato un errore davvero e il 5 fu corretto in 6. Mio padre fu orgoglioso di me, non tanto per il voto recuperato quanto per come avevo saputo cavarmela.
Bello dentro, ma povero fuori. Quanto durò?
A 16 anni incontrai Antonio Meden, un amico di mio padre, grande pokerista, diventato ricco spennando gli americani al tavolo verde. Mi insegnò tutti i segreti di quel gioco meraviglioso che appresi velocemente. Passavo le serate nei retrobottega dei bar a vincere contro giocatori più grandi e presuntuosi di me, portando a casa dei bei soldi.
Tris, scale e full come armi del riscatto.
Be', diciamo che le carte mi aiutarono a maturare alcune convinzioni: l'applicazione paga sempre e contro la disperazione l'azzardo può essere un'arma vincente. Ci vogliono coraggio, fiuto e fiducia per mettere in gioco tutto ciò che si ha e anche di più. Quando Tuttosport mi liquidò con 15mila lire dieci mesi di lavoro abusivo e mia madre era affranta perché ci avevano pignorato i mobili di casa per un debito di 35mila lire, puntai tutto su un cavallo che veniva dato a 4. Vinse, riscossi 60mila lire e salvai la famiglia.
A 20 anni l'ingresso a Tuttosport con un contratto da impiegato. A 25 inviato nella redazione di Roma.
Non ero mai stato a Roma. Guadagnavo 300mila lire al mese, che nel 1962 era uno stipendio grasso. I miei amici erano Luciano Giacotto, Gianni Minà, Enrico Montesano. Passavo le notti al tavolo di poker con Domenico Modugno, Migliacci, Bardotti e altri, finché a una mia puntata di 2mila lire Modugno rilanciò fino a 200mila. Capii che ognuno deve stare al suo posto e ripiegai da Marcello all'Osteria a cantare con Al Bano, Massimo Ranieri, la Pavone, Sergio Endrigo, Morandi. Con Minà mettemmo in piedi la prima agenzia di ufficio stampa per cantanti. La Rca ci dava 24 milioni l'anno. Lanciammo Gianni Morandi, i Rockes, Franco Califano. Anni finalmente di discreti guadagni. E di divertimento, fino a quando Ghirelli mi rimise alla stanga.
Maggio 1965, Ghirelli direttore e Tosatti caporedattore del Corriere dello Sport: comincia la grande scalata.
La mia condizione economica migliorò parallelamente al peggioramento della vita: 14-15 ore al giorno seduto alla scrivania, mi nutrivo a panini e caffè, fumavo come un turco, presi 20 chili il primo anno, poi il resto. Lasciai il Corriere dopo 21 anni, gli ultimi dieci da direttore portandolo da 90mila a 354mila copie, con il record ancora imbattuto per i quotidiani di 1.700.000 copie del 21 luglio 1982, con la Nazionale di calcio campione del mondo in Spagna.
Il segreto di quel successo?
Un giornale che non raccontava balle, molto autorevole, e la straordinaria qualità dei redattori. Presi Curzio Maltese e Massimo Gramellini, feci inviato il povero Luca Argentieri a 22 anni. Un giornale è fatto di intelligenze, un bravo direttore è quello che sa formare bravi giornalisti.
Tosatti era maturo per nuove e più ambiziose avventure.
Rifiutai le direzioni del Mattino di Padova e di Paese Sera. L'unica avventura che potesse intrigarmi era la tv. E quando Silvio Berlusconi mi telefonò per propormi uno spazio sui canali Fininvest e sul Giornale di Montanelli accettai. Ho lavorato per dieci anni in assoluta libertà e con il presidente del Consiglio ho conservato un ottimo rapporto.
Anche dopo il "tradimento"? 1993: via dal Giornale, via dalla Fininvest.
A Montanelli era succeduto Vittorio Feltri, che stimo molto, ma di cui non condivido certi atteggiamenti un po' bruschi. E Mieli mi offriva di scrivere sul Corriere della Sera. Alla Rai, furono Maffei, direttore di Raisport, e Perricone, presidente Sipra, a volermi. Gran peso nella mia decisione ebbe il fatto che la Rai possedeva i diritti sui mondiali 1994. Berlusconi capì. Feci cinque anni alla Domenica sportiva battendo sempre la concorrenza, poi, con l'arrivo di Francia, passai a 90° minuto con ascolti da record.
Nello sport è il numero uno, ma i suoi interessi e le sue competenze spaziano dalla politica all'economia, dal cinema alla fantascienza, dalla biologia all'archeologia.
Ha dimenticato la comunicazione. Mi ha sempre appassionato la maniera in cui l'informazione viene veicolata al pubblico. Spesso con pesanti manipolazioni. Ha visto Good Night, and Good Luck, il film di George Clooney? Io intendo il giornalista allo stesso modo: al servizio dei cittadini rischiando tutto, cane da guardia verso il potere.
È così in Italia?
Qualche esempio c'è. Sempre più raro, perché oggi tante carriere si fanno al servizio dei politici o di potentati economici, più che della collettività.
Mi faccia l'elenco dei "buoni".
Leggo volentieri Galli della Loggia, Panebianco, Mieli, Romano, De Bortoli, Anselmi, Berselli. E ne dimentico qualcuno. Ma in genere i commentatori di qualità sono anziani. Ai giovani questo tipo di pratica non viene insegnata.
Non c'è Montanelli nella sua lista. E neanche Scalfari.
Montanelli è al primo posto: straordinario, umorale ma non fazioso e si faceva capire anche dagli analfabeti. Purtroppo non c'è più. Di Scalfari ho stima come direttore e come maestro, quanto alla scrittura amo gente meno schierata.
Giornalismo sportivo: stesse crepe?
Tra quelli che ho diretto sono usciti fior di opinionisti, inchiestisti, coloristi, intervistatori. Oggi le interviste sono una tragedia, le domande sono di una banalità disarmante. I giornali sportivi sbagliano a tener conto solo della zona diffusionale, a voler assecondare la propria clientela. Anche pubblicando verità sgradevoli su Roma e Lazio, le vendite del mio Corriere dello Sport lievitavano. Per la tv il problema è un altro: non si è capito che lo sport è di per sé uno spettacolo a forti tinte, quindi non ha bisogno della mediazione di intrattenitori da varietà. Fare una trasmissione di solo calcio sembra quasi una colpa. Ma allo sportivo il prodotto ibrido interessa poco. Biscardi, che lo ha capito, fa una rappresentazione quasi oscena, volgare, qualunquista del calcio, ma fa proprio quello.
E da 25 anni ha successo.
Nel giornalismo sportivo, conta ancora saper scrivere?
Per la carriera non conta più nulla. I direttori premiano chi sa inventare meglio le false notizie di mercato. Dalla nobiltà e la cultura degli Zanetti, dei Barendson, dei Ghirelli, all'era dei pataccari e degli imbonitori. Il livello culturale è sprofondato. Ovunque.
Di chi è la colpa?
All'origine c'è una malintesa prova di democrazia della sinistra, che per non lasciare nessuno indietro ha abbassato il livello di conoscenza anziché consentire a tutti di progredire. Risultato: una classe dirigente inesistente, ignoranza di massa, mortificazione della meritocrazia. La tv ha poi esaltato questo cattivo costume spingendo la massa all'individualismo. Il messaggio che passa è questo: bisogna essere riconoscibili non per l'intelligenza, la cultura, ma per l'aspetto, la fortuna, la furbizia.
Se Berlusconi, suo "sponsor" e compagno "salesiano", leggerà questa intervista, non farà salti di gioia.
Parlo della tv in genere, non solo quella di Berlusconi. Per Berlusconi una volta ho anche votato, credendo alla promessa di una svolta liberista. Ma ciò non è avvenuto.
Oggi da che parte sta?
A 21 anni ho debuttato alle urne votando Saragat, poi ho scelto il Psi e Pannella ai tempi del divorzio. Avevo grande stima negli uomini della Prima Repubblica, che al di là di situazioni dettate da realtà particolari erano preparati e coerenti. Se uno era democristiano finiva democristiano. Ora vedo mandrie che si spostano da una parte all'altra.
Quindi?
Sono per una società che premi il merito e non dimentichi i bisogni. Per uno Stato che protegga i talenti, patrimonio della collettività, a scapito dei fuori corso. Per un welfare che non consenta la finta disoccupazione. Conclusione: non mi ritrovo in nessuno schieramento. Quindi non voto. La sinistra ha un'anima vicina alla mia, ma è troppo divisa.
È vero che l'hanno invitata a scrivere di politica?
Non è esatto. Mi sono state proposte, pochi anni fa, due rubriche di Borsa: per il Corriere della Sera e Il Mondo. Ero piuttosto ferrato, ma mi sembrava buffo che un giornalista che ha scritto a lungo di sport si occupasse di economia.
Uomo di televisione, lei la condanna. Ma la guarda?
Poco. Le partite di calcio. I telegiornali, Matrix - Mentana usa un linguaggio che mi piace - , la comicità di Zelig, dei programmi della Dandini, della Gialappa's, di Camera Café. I programmi di storia e di natura. Ma la mia vera passione sono i serial gialli: C.S.I., Golden Case, Law & Order...
Mai un varietà, con le eccezioni di Fiorello e Celentano.
Le piace Simona Ventura?
Se ha fatto quel che ha fatto, è brava.
Bonolis?
Eccellente intrattenitore. Temo che ogni tanto non scelga le cose più idonee alle sue caratteristiche.
Che fa, allude?
Chi, io?
Sul suo petto brilla una medaglia: lei è fra i 128 giocatori invitati a Londra per il più importante torneo di poker europeo, un milione di euro di premi. Ne va fiero?
Vado più fiero del diploma honoris causa attribuitomi dal Centro tecnico di Coverciano: sono l'unico giornalista gratificato da questa onorificenza. È un riconoscimento alla qualità del mio mestiere. Anche se non era quello sognato.
Dagospia 09 Novembre 2005
"I salesiani mi hanno fatto un culo così, ma ora li ringrazio: se nella vita sono stato competitivo, lo devo a loro e alla fame che ho sofferto da bambino». Dice "competitivo" Giorgio Tosatti e non capace o intraprendente o fortunato. Competitivo come può essere soltanto l'animo di un giocatore; intelligente e tignoso, plasmato non solo dalla scuola dei salesiani, ma anche da un'infanzia canaglia che non ti lascia scampo: o ti stronca o ti fa d'acciaio.
A Tosatti è andata bene, ha steso ostacoli come un caterpillar, ha realizzato un mestiere (anche se non quello desiderato) che gli ha offerto gloria e denaro. Adesso è fra i giornalisti più popolari e apprezzati d'Italia, numero uno indiscusso nel campo sportivo. Ha una bella famiglia, moglie e due figli maschi, una bella casa a Roma che affaccia sul Circo Massimo, un rassicurante conto in banca. E non gioca più. Con le carte, almeno. Il vizio (la virtù) del gioco intellettuale gli è rimasto: «Un giocatore lo è per sempre. E ha un passo in più rispetto agli altri. Di certo più degli altri si gode la vita. Io me la sono spassata. E nel momento in cui dovesse finire direi: va bene, questa mano l'ho persa, addio».
Tosatti, la sua filosofia sembra a metà strada fra gli eroi di Dostoevskij e Amici miei.
La formazione è tutto. Ti formano la famiglia, la scuola, gli amici, ma soprattutto le esperienze, gli eventi. I miei ricordi più vivi di bambino sono le bombe che hanno distrutto la nostra casa di Genova, i tre giorni e tre notti alla stazione di La Spezia con una sola fontanella per tutti e niente da mangiare, l'odissea a piedi da Genova alla casa dei nonni di Sampierdarena, di notte, schivando i cadaveri sulla strada, mia madre e mia sorella più grande che dicevano sempre «non ho fame» perché noi maschi mangiassimo di più. E quando avevo 11 anni e la miseria sembrava superata, la morte di mio padre a Superga. Mia madre fece miracoli per farmi studiare, non riuscii a prendere la maturità perché dovetti lavorare per portare qualche soldo a casa, ma quegli anni sui banchi li ho macinati con una rabbia e una determinazione da farli fruttare il doppio.
Il rigore, la durezza, la tenacia dei salesiani. Dalle scuole salesiane arrivano anche Pippo Baudo e Berlusconi.
E Giancarlo Caselli e Mario Giobbe, miei compagni di classe al Valselice di Genova. Ma questo carattere tosto affiorava già da bambino. Un ricordo emblematico: avevo dieci anni, frequentavo la quinta elementare, presi 5 in matematica nella pagella del secondo trimestre. Non avevo mai avuto un'insufficienza. Bussai alla porta del preside. Gli dissi: «Sono vittima di un'ingiustizia, dev'esserci un errore». Lui verificò: c'era stato un errore davvero e il 5 fu corretto in 6. Mio padre fu orgoglioso di me, non tanto per il voto recuperato quanto per come avevo saputo cavarmela.
Bello dentro, ma povero fuori. Quanto durò?
A 16 anni incontrai Antonio Meden, un amico di mio padre, grande pokerista, diventato ricco spennando gli americani al tavolo verde. Mi insegnò tutti i segreti di quel gioco meraviglioso che appresi velocemente. Passavo le serate nei retrobottega dei bar a vincere contro giocatori più grandi e presuntuosi di me, portando a casa dei bei soldi.
Tris, scale e full come armi del riscatto.
Be', diciamo che le carte mi aiutarono a maturare alcune convinzioni: l'applicazione paga sempre e contro la disperazione l'azzardo può essere un'arma vincente. Ci vogliono coraggio, fiuto e fiducia per mettere in gioco tutto ciò che si ha e anche di più. Quando Tuttosport mi liquidò con 15mila lire dieci mesi di lavoro abusivo e mia madre era affranta perché ci avevano pignorato i mobili di casa per un debito di 35mila lire, puntai tutto su un cavallo che veniva dato a 4. Vinse, riscossi 60mila lire e salvai la famiglia.
A 20 anni l'ingresso a Tuttosport con un contratto da impiegato. A 25 inviato nella redazione di Roma.
Non ero mai stato a Roma. Guadagnavo 300mila lire al mese, che nel 1962 era uno stipendio grasso. I miei amici erano Luciano Giacotto, Gianni Minà, Enrico Montesano. Passavo le notti al tavolo di poker con Domenico Modugno, Migliacci, Bardotti e altri, finché a una mia puntata di 2mila lire Modugno rilanciò fino a 200mila. Capii che ognuno deve stare al suo posto e ripiegai da Marcello all'Osteria a cantare con Al Bano, Massimo Ranieri, la Pavone, Sergio Endrigo, Morandi. Con Minà mettemmo in piedi la prima agenzia di ufficio stampa per cantanti. La Rca ci dava 24 milioni l'anno. Lanciammo Gianni Morandi, i Rockes, Franco Califano. Anni finalmente di discreti guadagni. E di divertimento, fino a quando Ghirelli mi rimise alla stanga.
Maggio 1965, Ghirelli direttore e Tosatti caporedattore del Corriere dello Sport: comincia la grande scalata.
La mia condizione economica migliorò parallelamente al peggioramento della vita: 14-15 ore al giorno seduto alla scrivania, mi nutrivo a panini e caffè, fumavo come un turco, presi 20 chili il primo anno, poi il resto. Lasciai il Corriere dopo 21 anni, gli ultimi dieci da direttore portandolo da 90mila a 354mila copie, con il record ancora imbattuto per i quotidiani di 1.700.000 copie del 21 luglio 1982, con la Nazionale di calcio campione del mondo in Spagna.
Il segreto di quel successo?
Un giornale che non raccontava balle, molto autorevole, e la straordinaria qualità dei redattori. Presi Curzio Maltese e Massimo Gramellini, feci inviato il povero Luca Argentieri a 22 anni. Un giornale è fatto di intelligenze, un bravo direttore è quello che sa formare bravi giornalisti.
Tosatti era maturo per nuove e più ambiziose avventure.
Rifiutai le direzioni del Mattino di Padova e di Paese Sera. L'unica avventura che potesse intrigarmi era la tv. E quando Silvio Berlusconi mi telefonò per propormi uno spazio sui canali Fininvest e sul Giornale di Montanelli accettai. Ho lavorato per dieci anni in assoluta libertà e con il presidente del Consiglio ho conservato un ottimo rapporto.
Anche dopo il "tradimento"? 1993: via dal Giornale, via dalla Fininvest.
A Montanelli era succeduto Vittorio Feltri, che stimo molto, ma di cui non condivido certi atteggiamenti un po' bruschi. E Mieli mi offriva di scrivere sul Corriere della Sera. Alla Rai, furono Maffei, direttore di Raisport, e Perricone, presidente Sipra, a volermi. Gran peso nella mia decisione ebbe il fatto che la Rai possedeva i diritti sui mondiali 1994. Berlusconi capì. Feci cinque anni alla Domenica sportiva battendo sempre la concorrenza, poi, con l'arrivo di Francia, passai a 90° minuto con ascolti da record.
Nello sport è il numero uno, ma i suoi interessi e le sue competenze spaziano dalla politica all'economia, dal cinema alla fantascienza, dalla biologia all'archeologia.
Ha dimenticato la comunicazione. Mi ha sempre appassionato la maniera in cui l'informazione viene veicolata al pubblico. Spesso con pesanti manipolazioni. Ha visto Good Night, and Good Luck, il film di George Clooney? Io intendo il giornalista allo stesso modo: al servizio dei cittadini rischiando tutto, cane da guardia verso il potere.
È così in Italia?
Qualche esempio c'è. Sempre più raro, perché oggi tante carriere si fanno al servizio dei politici o di potentati economici, più che della collettività.
Mi faccia l'elenco dei "buoni".
Leggo volentieri Galli della Loggia, Panebianco, Mieli, Romano, De Bortoli, Anselmi, Berselli. E ne dimentico qualcuno. Ma in genere i commentatori di qualità sono anziani. Ai giovani questo tipo di pratica non viene insegnata.
Non c'è Montanelli nella sua lista. E neanche Scalfari.
Montanelli è al primo posto: straordinario, umorale ma non fazioso e si faceva capire anche dagli analfabeti. Purtroppo non c'è più. Di Scalfari ho stima come direttore e come maestro, quanto alla scrittura amo gente meno schierata.
Giornalismo sportivo: stesse crepe?
Tra quelli che ho diretto sono usciti fior di opinionisti, inchiestisti, coloristi, intervistatori. Oggi le interviste sono una tragedia, le domande sono di una banalità disarmante. I giornali sportivi sbagliano a tener conto solo della zona diffusionale, a voler assecondare la propria clientela. Anche pubblicando verità sgradevoli su Roma e Lazio, le vendite del mio Corriere dello Sport lievitavano. Per la tv il problema è un altro: non si è capito che lo sport è di per sé uno spettacolo a forti tinte, quindi non ha bisogno della mediazione di intrattenitori da varietà. Fare una trasmissione di solo calcio sembra quasi una colpa. Ma allo sportivo il prodotto ibrido interessa poco. Biscardi, che lo ha capito, fa una rappresentazione quasi oscena, volgare, qualunquista del calcio, ma fa proprio quello.
E da 25 anni ha successo.
Nel giornalismo sportivo, conta ancora saper scrivere?
Per la carriera non conta più nulla. I direttori premiano chi sa inventare meglio le false notizie di mercato. Dalla nobiltà e la cultura degli Zanetti, dei Barendson, dei Ghirelli, all'era dei pataccari e degli imbonitori. Il livello culturale è sprofondato. Ovunque.
Di chi è la colpa?
All'origine c'è una malintesa prova di democrazia della sinistra, che per non lasciare nessuno indietro ha abbassato il livello di conoscenza anziché consentire a tutti di progredire. Risultato: una classe dirigente inesistente, ignoranza di massa, mortificazione della meritocrazia. La tv ha poi esaltato questo cattivo costume spingendo la massa all'individualismo. Il messaggio che passa è questo: bisogna essere riconoscibili non per l'intelligenza, la cultura, ma per l'aspetto, la fortuna, la furbizia.
Se Berlusconi, suo "sponsor" e compagno "salesiano", leggerà questa intervista, non farà salti di gioia.
Parlo della tv in genere, non solo quella di Berlusconi. Per Berlusconi una volta ho anche votato, credendo alla promessa di una svolta liberista. Ma ciò non è avvenuto.
Oggi da che parte sta?
A 21 anni ho debuttato alle urne votando Saragat, poi ho scelto il Psi e Pannella ai tempi del divorzio. Avevo grande stima negli uomini della Prima Repubblica, che al di là di situazioni dettate da realtà particolari erano preparati e coerenti. Se uno era democristiano finiva democristiano. Ora vedo mandrie che si spostano da una parte all'altra.
Quindi?
Sono per una società che premi il merito e non dimentichi i bisogni. Per uno Stato che protegga i talenti, patrimonio della collettività, a scapito dei fuori corso. Per un welfare che non consenta la finta disoccupazione. Conclusione: non mi ritrovo in nessuno schieramento. Quindi non voto. La sinistra ha un'anima vicina alla mia, ma è troppo divisa.
È vero che l'hanno invitata a scrivere di politica?
Non è esatto. Mi sono state proposte, pochi anni fa, due rubriche di Borsa: per il Corriere della Sera e Il Mondo. Ero piuttosto ferrato, ma mi sembrava buffo che un giornalista che ha scritto a lungo di sport si occupasse di economia.
Uomo di televisione, lei la condanna. Ma la guarda?
Poco. Le partite di calcio. I telegiornali, Matrix - Mentana usa un linguaggio che mi piace - , la comicità di Zelig, dei programmi della Dandini, della Gialappa's, di Camera Café. I programmi di storia e di natura. Ma la mia vera passione sono i serial gialli: C.S.I., Golden Case, Law & Order...
Mai un varietà, con le eccezioni di Fiorello e Celentano.
Le piace Simona Ventura?
Se ha fatto quel che ha fatto, è brava.
Bonolis?
Eccellente intrattenitore. Temo che ogni tanto non scelga le cose più idonee alle sue caratteristiche.
Che fa, allude?
Chi, io?
Sul suo petto brilla una medaglia: lei è fra i 128 giocatori invitati a Londra per il più importante torneo di poker europeo, un milione di euro di premi. Ne va fiero?
Vado più fiero del diploma honoris causa attribuitomi dal Centro tecnico di Coverciano: sono l'unico giornalista gratificato da questa onorificenza. È un riconoscimento alla qualità del mio mestiere. Anche se non era quello sognato.
Dagospia 09 Novembre 2005