IL LATO DEBOLE DEI POTERI FORTI: VELENI, MA SOPRATTUTTO VELINE.
UN TEMPO C'ERANO ENRICO CUCCIA E EUGENIO CEFIS, I DEVOTI DEL SILENZIO
OGGI I «BRIATORIZZATI» METTONO IN PIAZZA SE STESSI E LE LORO FACCENDE.
UN TEMPO C'ERANO ENRICO CUCCIA E EUGENIO CEFIS, I DEVOTI DEL SILENZIO
OGGI I «BRIATORIZZATI» METTONO IN PIAZZA SE STESSI E LE LORO FACCENDE.
Tratto da "Il lato debole dei poteri forti", di Paolo Madron, Longanesi & C.
In giro, Enrico Cuccia lo si vedeva davvero poco. Mezz'ora la mattina, giusto il tempo di bere un caffe` da Taveggia, la pasticceria sotto casa, e raggiungere via Filodrammatici dopo aver percorso a testa bassa e passo svelto corso Vittorio Emanuele, per poi attraversare piazza della Scala e scomparire tra i portici del teatro. Come un furetto, raccontavano i pochi giornalisti che avevano tentato di carpirgli qualche parola, coniando cos?` uno dei suoi tanti soprannomi. Ma invano, perche´ il fondatore di Mediobanca, gli occhi piantati davanti a se´ e il mento a sfiorare il petto, non dava mai retta a nessuno. Il suo codice di comportamento non ammetteva molti contatti con il mondo esterno, meno che mai con chi lo avvicinava intenzionato a carpirgli i segreti del suo lavoro. Il massimo concesso a un giornalista che gli si fece incontro con la scusa di regalargli un libro di poesie fu un « grazie » sibilato a denti stretti, nulla piu`. Una religione del silenzio, la sua. E lui un devoto di strettissima osservanza.
Eugenio Cefis invece lo si vedeva piu` spesso, durante gli spostamenti tra i suoi due uffici milanesi: quello di rappresentanza in Foro Bonaparte, sede della Montedison, e quello privato in via Chiossetto, nelle vicinanze di San Babila. Pare ne esistesse anche un terzo, supersegreto, dove lui incontrava i politici. Al presidente del gruppo orgoglio della chimica privata questa moltiplicazione dei luoghi faceva provare l'ebbrezza dell'ubiquita`, ma soprattutto placava il timore di essere spiato, certo com'era che ci fossero sempre occhi furtivi a seguirne le mosse. Da chi ti spia ci si difende spiando. Cos?` il campione della razza padrona aveva messo microfoni dappertutto, persino nei bagni, negli ascensori e nelle automobili di servizio. L'ottocentesco palazzo della societa`, a poche centinaia di metri da piazzale Cadorna, dietro l'austera facciata disegnata da Enrico Combi nascondeva apparati di sicurezza e controllo degni del KGB. Come Cuccia, neanche lui parlava, men che meno con i giornali che spedivano i loro cronisti a fargli la posta. Ma nel suo caso il silenzio, piu` che una religione, era soprattutto una precauzione, nella lucida consapevolezza che in questo paese chi si occupa di chimica corre il serio rischio di finire male. Cuccia e Cefis sono stati i due piu` grandi uomini di potere che l'economia italiana abbia mai avuto. Lo sono stati in un'epoca in cui il loro era considerato un mondo a parte. Simili nel fare della riservatezza un dogma, diversi nel giudizio sulla societa` italiana e i suoi protagonisti, e diversi anche negli obiettivi che perseguivano.
C'e` un terzo uomo di potere che andrebbe citato, anche se dopo la sua morte, con il coraggio di chi non ha piu` niente da perdere, l'attribuzione alla categoria e` diventata oggetto di revisionismo, ed e` Gianni Agnelli. Tutt'altra personalita` rispetto agli altri due, addirittura agli antipodi: regale, introverso, seducente, un narciso malinconico, annoiato, e un viso solcato da profonde rughe. Sulle quali infieriva con robusti tratti di penna il suo vignettista principe, Giorgio Forattini, che enfatizzava sin quasi alla caricatura quella sua pelle incartapecorita.
Agnelli era « leggero » per natura, aveva sempre l'aria di uno che capita l?` per caso e sta pensando ad altro. Talvolta, sembrava lo facesse apposta. Al punto di indurre il sospetto che molto del suo personaggio fosse sapientemente studiato a tavolino, e magari provato la mattina davanti allo specchio, quando il maggiordomo Brunetto lo aiutava a infilarsi la giacca, mentre lui se ne stava al telefono con uno dei suoi spifferatori di frivolezze che tanto lo divertivano, Giovannino Malago` , Jas Gawronski e Mario d'Urso, eccentrico bon viveur napoletano dalla battuta sapida.
Un sospetto che si rafforzava guardando alle sue apparizioni pubbliche, vere e proprie performance cinematografiche assecondate da un'accorta regia. D'estate, per esempio, l'arrivo in elicottero sul campo della Juventus a Villar Perosa, un appuntamento che si ripeteva uguale a ogni ritiro di precampionato. L'immancabile sciata sulle piste di Sankt Moritz, o in barca a torso nudo, al timone dello Stealth, il supertecnologico yacht da 20 miliardi che aveva disegnato per lui German Frers, l'Armani delle barche. Un canovaccio noto e reiterato, che il protagonista era pero` capace di attualizzare e rinfrescare con qualche battuta fulminante sui fatti del momento. E poi quelle toccate e fughe agli eventi mondani, dove si presentava in ritardo tra uno stuolo di addetti stampa e guardie del corpo, per poi rapidamente dileguarsi con mirabile leggerezza, come una nuvola in una giornata di vento, lui che dava sempre l'impressione di stare sulle nuvole. « Non era molto portato per i finali », disse Gawronski in un'intervista dopo la sua morte. « Mai un libro letto fino all'ultima pagina, mai un film, una partita visti fino in fondo. Viveva di corsa, come di corsa guidava l'auto. Aveva l'ossessione del primato, gli piaceva soprattutto essere il primo a sapere, anche quando non gli serviva. »
Ricordo una sua apparizione in questo stile all'hotel Pierre di New York, dove una volta all'anno, di solito la prima settimana di ottobre, la FIAT dava una gran festa per la comunita` degli italiani importanti, invitando, naturalmente, anche i giornalisti. Eccolo arrivare con un Furio Colombo azzimatissimo ciambellano di corte intento ad aprirgli la strada tra l'ammirazione degli astanti. Nulla che lasciasse presagire, dietro i modi affettati dell'allora responsabile di FIAT Usa, il futuro (e gia` ex) direttore dell'Unita` , una metamorfosi tanto repentina quasi quanto quella di Irene Pivetti, da vandeana della politica a spregiudicata icona trash dello schermo tivu`.
Per non parlare degli inconfondibili vezzi di Agnelli che, con terminologia orribile ma moderna, facevano subito tendenza: gli scarponcini Tod's a corredo di un vestito impeccabile, l'orologio allacciato sopra il polsino della camicia, il nodo della cravatta sapientemente allentato. Nonche´ l'inconfondibile erre moscia, blasonato e straimitato tratto distintivo, tanto che l'arrotamento a volte sembrava persino forzato. Oggi lo si ritrova pari pari nel nipote Lapo Elkann: a chiudere gli occhi - ma guai ad aprirli - sembra di riascoltare Gianni da giovane.
Per quanto lo si potesse considerare un ibrido di autenticita` e artifizio, l'Avvocato era comunque riuscito a circondare la propria figura di un alone mitico, soprattutto quando si rendeva protagonista di ruoli che mandavano in visibilio la stampa rosa, come quello di premuroso padrino al battesimo del figlio di un'acclamata modella, che probabilmente era stata in passato una delle sue tante estemporanee conquiste. Gran parte di questa mitologia era forse dovuta al fatto che la sua presenza, dai contorni sempre cos?` sfumati, rimandava a un altrove inaccessibile ai comuni mortali. O almeno cos?` lasciava credere. Un altrove che nemmeno i suoi piu` dissacranti biografi, e a cimentarsi sono stati in molti, sono riusciti a circoscrivere. Ma che qualcuno dei suoi prediletti, come il giornalista Paolo Mieli (e lo vedremo piu` avanti), ha imparato a mo' di ars vivendi. A differenza di Cuccia e Cefis, insomma, Agnelli aveva un'immagine pubblica, e di cio` si compiaceva. E rispetto agli altri protagonisti, nel suo universo occupava uno spazio di rilievo la presenza femminile. Uno spazio rigorosamente privato, che gli addetti del suo entourage contribuivano a conservare tale, passando periodicamente al setaccio le agenzie fotografiche per ripulirle di cio` che sarebbe risultato assai sconveniente pubblicare. In modo da preservare il decoro della casa e il cuore infranto della moglie Marella che, raccontano le amiche, lo ha amato di autentica estasiata passione fin sul letto di morte.
Aggiungiamo a questa trinita` anche un quarto uomo potente che, almeno tra la meta` degli anni '70 e la fine degli anni '80, poteva a buon diritto fregiarsi dell'attribuzione. Carlo De Benedetti, all'apice del successo, mostrava una sostenuta consapevolezza del suo rango, anche se interpretava il ruolo con uno stile piu` laico e moderno. Dal concittadino Agnelli lo differenziavano molte cose, in primo luogo il fatto di essere un industriale di prima generazione, un self made man. Tanto che, con riferimento all'Avvocato, vezzosamente osservava: « Io sono un borghese, lui e` il re », e lo diceva con il tono allusivo del rivoluzionario che si prepara in segreto a conquistare la Bastiglia. E la sua Bastiglia era la FIAT, sulla quale, a inizio carriera, ebbe il comando per cento giorni, prima di litigare con gli Agnelli e soprattutto con Cesare Romiti, suo storico antagonista. Se ne ando` sbattendo la porta, dopo aver accarezzato, ma sempre pubblicamente smentito, il proposito di diventarne il padrone. L'Ingegnere ha realizzato solo in minima parte cio` che si era ripromesso, forse perche´ aveva puntato troppo in alto, forse perche´ tradito da un carattere poco incline a mediare. Ma all'alba dei settant'anni e` ancora l?` che si difende, dispensando da dietro le quinte giudizi e consigli con la baldanza dei tempi andati, e con l'ambizione di pesare, attraverso i suoi giornali, nel gran gioco della politica che disprezza ma lo avvince. Avrebbe potuto cadere rovinosamente, invece e` invecchiato bene, che e` sempre un gran merito. Si e` risposato, ironia della sorte, con Silvia Monti, avvenente signora con un passato d'attrice, forse l'unica che fece perdere davvero la testa all'Avvocato, e ha raggiunto un'invidiabile serenita`. E` stato risparmiato da dispiaceri e lutti e dall'oscura maledizione di quel re che in cuor suo ambiva a detronizzare. « Devo fare in una generazione quello che gli Agnelli hanno fatto in tre », soleva ripetere all'apice del successo. Preda dell'indomabile frenesia di battere, prima che gli altri, se stesso.
Cuccia e Cefis erano inaccessibili. Agnelli un po' meno, vivendo in un mondo a parte che ogni tanto, bonta` sua, incrociava per pochi attimi quello reale. De Benedetti, all'apice della gloria, camminava sulle acque come Gesu` sul lago di Tiberiade, e non era facile avvicinarlo. L'inaccessibilita` era il denominatore comune ricorrente di una schiatta di potenti in cui spiccano i nomi di cui abbiamo sin qui parlato. Ma inaccessibili erano anche molti illustri loro comprimari. L'accidioso industriale Leopoldo Pirelli portava una maschera di disincanto perennemente dipinta sul volto, come se la vita, proprio quella che gli era toccata come erede e capo di una grande azienda, fosse quasi una pena da espiare. Luigi Orlando, il taciturno re del rame con gli uffici nel bel palazzo rinascimentale di Borgo Pinti a Firenze, era davvero un grande: aveva intessuto alleanze importanti prima che la dinastia andasse a rotoli per la troppa smania di crescere.
Anche Giampiero Pesenti, forse per timidezza, raramente si faceva avvicinare. Una volta, a una drammatica assemblea della Gemina, in cui si doveva decidere cosa fare dopo che nelle sue casse si era scoperto un buco da centinaia di miliardi, prima di farsi intervistare dal telegiornale tiro` fuori dal taschino un pettine per ravviarsi i pochi capelli, con un gesto di disarmante, quasi crepuscolare, semplicita`. Chi mai poteva immaginare dei potenti con un pettine nel taschino della giacca, come un qualsiasi agente d'assicurazioni o un venditore di aspirapolveri?
Non voglio sostenere che l'inaccessibilita` fosse di per se´ un valore positivo. Piu` realisticamente, era il portato di un'oligarchia capitalista che mirava a preservare una distanza dal resto della societa`, per due motivi essenziali: perche´ non tollerava intrusioni che ne svelassero riti, splendori e nefandezze, e perche´ la condivisione del potere esponeva i suoi detentori al rischio di perderlo. Sta di fatto che proprio l'inaccessibilita` dei potenti e` una delle suggestioni che stanno dietro all'idea di questo libro.
Rispetto anche a solo dieci anni fa, i capitalisti di oggi mettono in piazza se stessi e le loro faccende come se fosse la cosa piu` naturale del mondo, con una disinvoltura che spesso rasenta l'ingenuita` o la dabbenaggine. Si compiacciono nel farsi fotografare alle feste mondane, a teatro, alla vernice di una mostra o a bordo delle loro barche in gaudente compagnia. E di fronte alla lusinga della foto di copertina di un settimanale, perdono ogni ritegno. Molti di loro si sono ormai « briatorizzati », sono stati contagiati dal modello interpretato da quel simpatico e improbabile personaggio che e` Flavio Briatore, geometra di Cuneo divenuto emblema dell'eccesso e insieme dell'accesso. Emblema, cioe`, di come sia diventato facile anche per un comune mortale frequentare luoghi e ambienti VIP, in cui lui, assieme ad altri del bel mondo, recita il ruolo di anfitrione spacciando per autentico cio` che dall'inizio alla fine odora di artefatto. Per quanto si dia da fare, Briatore non riesce a togliersi di dosso quell'impressione di ricchezza aiazzonesca, improvvisata, esibita per compiacere una platea di fatui creduloni, come se le sue ville, le sue barche o i suoi locali notturni fossero delle quinte teatrali che mascherano il vuoto.
Quinte che, una volta finito lo spettacolo ad uso e consumo delle cronache mondane che lo enfatizzano, qualcuno passa a smontare e rimettere in magazzino, tenendole pronte per la prossima rappresentazione. La fine dei potenti, o almeno di una certa specie di potenti, assomiglia al declino dei divi cinematografici nell'era della televisione: prima li spiavamo sullo schermo illuminato della sala buia, e parevano appartenere a un empireo da cui nemmeno il postumo rivelarsi delle loro vite reali riusciva a farli scendere. Poi, con la dittatura del piccolo schermo, sono diventati familiari, raggiungibili, quotidiane presenze di un immaginario che all'improvviso ha smesso di sognare. Perche´ mai il potere, anche ai massimi livelli, avrebbe dovuto sottrarsi allo stesso inesorabile processo di massificazione? Le gesta dei Mattei e dei Cefis, dei Cuccia e degli Agnelli, dei Pirelli e dei Pesenti, rese epiche da tanta letteratura che ha finito con il trasfigurarle, avevano addosso lo sguardo morboso di chi sapeva che non avrebbe mai potuto non solo partecipare al loro mondo, ma neppure comprenderne le intime regole. L'inaccessibilita` del potere era anzitutto quella dei suoi protagonisti, chiusi nelle loro torri d'avorio, lontanissimi dalla gente comune, attori di una commedia che anche agli addetti ai lavori risultava spesso indecifrabile.
Di questa algida messa in scena, che talvolta abbiamo visto anche trasformarsi in tragedia, i giornali facevano da specchio. Ma solitamente a cose fatte, e offrendo sempre un sentore vago, un resoconto sbiadito rispetto a cio` che realmente doveva essere accaduto in quel mondo chiuso, dove i signori del denaro rappresentavano il loro esclusivo Kammerspiel. Mentre erano piu` a loro agio nel raccontarne, anche se solo per sentito dire, gli stili di vita e le trasgressioni del costume.
Ecco come nascono, per un ceto medio arricchitosi in modo irrefrenabile, riviste come Capital o Class, sfogliate con avidita` da un pubblico totalmente dominato dallo spirito di emulazione. Lettori che non sarebbero certo diventati dei Pirelli, dei De Benedetti o degli Agnelli, ma a modo loro potevano sentirsi piu` vicini a quell'ambiente, imitandone i vezzi e le abitudini piu` alla moda. Non importa se l'alone era sempre mitico, lo sfondo fiabesco, e i protagonisti scrutati come attraverso un cannocchiale rovesciato. Con il passare del tempo, la societa` dell'accesso avrebbe umanizzato il potere, privandolo di tutti i connotati della differenza. A un certo punto, l'impressione e` che non vi sia piu` scarto, non piu` l'abisso di una distanza incolmabile, bens?` assoluta contiguita` e una prosaica, incessante affabulazione.
Risultato: mentre una volta l'elite frequentava percorsi e luoghi riservati, adesso la contaminazione e` pressoche´ totale. Specie negli spazi dedicati all'evasione e al divertimento. Se la Costa Smeralda, Cortina o le piazzette di Portofino e di Capri erano luoghi frequentati da pochi eletti, ora vi si puo` incontrare il non ancora baciato dalla notorieta` (ma in agguato c'e` sempre un reality televisivo pronto a mondare l'insopportabile onta dell'anonimato) che sorseggia un caffe` a un tavolino accanto a quello di Montezemolo, di Marco Tronchetti Provera o Diego Della Valle.
Dagospia 29 Dicembre 2005
In giro, Enrico Cuccia lo si vedeva davvero poco. Mezz'ora la mattina, giusto il tempo di bere un caffe` da Taveggia, la pasticceria sotto casa, e raggiungere via Filodrammatici dopo aver percorso a testa bassa e passo svelto corso Vittorio Emanuele, per poi attraversare piazza della Scala e scomparire tra i portici del teatro. Come un furetto, raccontavano i pochi giornalisti che avevano tentato di carpirgli qualche parola, coniando cos?` uno dei suoi tanti soprannomi. Ma invano, perche´ il fondatore di Mediobanca, gli occhi piantati davanti a se´ e il mento a sfiorare il petto, non dava mai retta a nessuno. Il suo codice di comportamento non ammetteva molti contatti con il mondo esterno, meno che mai con chi lo avvicinava intenzionato a carpirgli i segreti del suo lavoro. Il massimo concesso a un giornalista che gli si fece incontro con la scusa di regalargli un libro di poesie fu un « grazie » sibilato a denti stretti, nulla piu`. Una religione del silenzio, la sua. E lui un devoto di strettissima osservanza.
Eugenio Cefis invece lo si vedeva piu` spesso, durante gli spostamenti tra i suoi due uffici milanesi: quello di rappresentanza in Foro Bonaparte, sede della Montedison, e quello privato in via Chiossetto, nelle vicinanze di San Babila. Pare ne esistesse anche un terzo, supersegreto, dove lui incontrava i politici. Al presidente del gruppo orgoglio della chimica privata questa moltiplicazione dei luoghi faceva provare l'ebbrezza dell'ubiquita`, ma soprattutto placava il timore di essere spiato, certo com'era che ci fossero sempre occhi furtivi a seguirne le mosse. Da chi ti spia ci si difende spiando. Cos?` il campione della razza padrona aveva messo microfoni dappertutto, persino nei bagni, negli ascensori e nelle automobili di servizio. L'ottocentesco palazzo della societa`, a poche centinaia di metri da piazzale Cadorna, dietro l'austera facciata disegnata da Enrico Combi nascondeva apparati di sicurezza e controllo degni del KGB. Come Cuccia, neanche lui parlava, men che meno con i giornali che spedivano i loro cronisti a fargli la posta. Ma nel suo caso il silenzio, piu` che una religione, era soprattutto una precauzione, nella lucida consapevolezza che in questo paese chi si occupa di chimica corre il serio rischio di finire male. Cuccia e Cefis sono stati i due piu` grandi uomini di potere che l'economia italiana abbia mai avuto. Lo sono stati in un'epoca in cui il loro era considerato un mondo a parte. Simili nel fare della riservatezza un dogma, diversi nel giudizio sulla societa` italiana e i suoi protagonisti, e diversi anche negli obiettivi che perseguivano.
C'e` un terzo uomo di potere che andrebbe citato, anche se dopo la sua morte, con il coraggio di chi non ha piu` niente da perdere, l'attribuzione alla categoria e` diventata oggetto di revisionismo, ed e` Gianni Agnelli. Tutt'altra personalita` rispetto agli altri due, addirittura agli antipodi: regale, introverso, seducente, un narciso malinconico, annoiato, e un viso solcato da profonde rughe. Sulle quali infieriva con robusti tratti di penna il suo vignettista principe, Giorgio Forattini, che enfatizzava sin quasi alla caricatura quella sua pelle incartapecorita.
Agnelli era « leggero » per natura, aveva sempre l'aria di uno che capita l?` per caso e sta pensando ad altro. Talvolta, sembrava lo facesse apposta. Al punto di indurre il sospetto che molto del suo personaggio fosse sapientemente studiato a tavolino, e magari provato la mattina davanti allo specchio, quando il maggiordomo Brunetto lo aiutava a infilarsi la giacca, mentre lui se ne stava al telefono con uno dei suoi spifferatori di frivolezze che tanto lo divertivano, Giovannino Malago` , Jas Gawronski e Mario d'Urso, eccentrico bon viveur napoletano dalla battuta sapida.
Un sospetto che si rafforzava guardando alle sue apparizioni pubbliche, vere e proprie performance cinematografiche assecondate da un'accorta regia. D'estate, per esempio, l'arrivo in elicottero sul campo della Juventus a Villar Perosa, un appuntamento che si ripeteva uguale a ogni ritiro di precampionato. L'immancabile sciata sulle piste di Sankt Moritz, o in barca a torso nudo, al timone dello Stealth, il supertecnologico yacht da 20 miliardi che aveva disegnato per lui German Frers, l'Armani delle barche. Un canovaccio noto e reiterato, che il protagonista era pero` capace di attualizzare e rinfrescare con qualche battuta fulminante sui fatti del momento. E poi quelle toccate e fughe agli eventi mondani, dove si presentava in ritardo tra uno stuolo di addetti stampa e guardie del corpo, per poi rapidamente dileguarsi con mirabile leggerezza, come una nuvola in una giornata di vento, lui che dava sempre l'impressione di stare sulle nuvole. « Non era molto portato per i finali », disse Gawronski in un'intervista dopo la sua morte. « Mai un libro letto fino all'ultima pagina, mai un film, una partita visti fino in fondo. Viveva di corsa, come di corsa guidava l'auto. Aveva l'ossessione del primato, gli piaceva soprattutto essere il primo a sapere, anche quando non gli serviva. »
Ricordo una sua apparizione in questo stile all'hotel Pierre di New York, dove una volta all'anno, di solito la prima settimana di ottobre, la FIAT dava una gran festa per la comunita` degli italiani importanti, invitando, naturalmente, anche i giornalisti. Eccolo arrivare con un Furio Colombo azzimatissimo ciambellano di corte intento ad aprirgli la strada tra l'ammirazione degli astanti. Nulla che lasciasse presagire, dietro i modi affettati dell'allora responsabile di FIAT Usa, il futuro (e gia` ex) direttore dell'Unita` , una metamorfosi tanto repentina quasi quanto quella di Irene Pivetti, da vandeana della politica a spregiudicata icona trash dello schermo tivu`.
Per non parlare degli inconfondibili vezzi di Agnelli che, con terminologia orribile ma moderna, facevano subito tendenza: gli scarponcini Tod's a corredo di un vestito impeccabile, l'orologio allacciato sopra il polsino della camicia, il nodo della cravatta sapientemente allentato. Nonche´ l'inconfondibile erre moscia, blasonato e straimitato tratto distintivo, tanto che l'arrotamento a volte sembrava persino forzato. Oggi lo si ritrova pari pari nel nipote Lapo Elkann: a chiudere gli occhi - ma guai ad aprirli - sembra di riascoltare Gianni da giovane.
Per quanto lo si potesse considerare un ibrido di autenticita` e artifizio, l'Avvocato era comunque riuscito a circondare la propria figura di un alone mitico, soprattutto quando si rendeva protagonista di ruoli che mandavano in visibilio la stampa rosa, come quello di premuroso padrino al battesimo del figlio di un'acclamata modella, che probabilmente era stata in passato una delle sue tante estemporanee conquiste. Gran parte di questa mitologia era forse dovuta al fatto che la sua presenza, dai contorni sempre cos?` sfumati, rimandava a un altrove inaccessibile ai comuni mortali. O almeno cos?` lasciava credere. Un altrove che nemmeno i suoi piu` dissacranti biografi, e a cimentarsi sono stati in molti, sono riusciti a circoscrivere. Ma che qualcuno dei suoi prediletti, come il giornalista Paolo Mieli (e lo vedremo piu` avanti), ha imparato a mo' di ars vivendi. A differenza di Cuccia e Cefis, insomma, Agnelli aveva un'immagine pubblica, e di cio` si compiaceva. E rispetto agli altri protagonisti, nel suo universo occupava uno spazio di rilievo la presenza femminile. Uno spazio rigorosamente privato, che gli addetti del suo entourage contribuivano a conservare tale, passando periodicamente al setaccio le agenzie fotografiche per ripulirle di cio` che sarebbe risultato assai sconveniente pubblicare. In modo da preservare il decoro della casa e il cuore infranto della moglie Marella che, raccontano le amiche, lo ha amato di autentica estasiata passione fin sul letto di morte.
Aggiungiamo a questa trinita` anche un quarto uomo potente che, almeno tra la meta` degli anni '70 e la fine degli anni '80, poteva a buon diritto fregiarsi dell'attribuzione. Carlo De Benedetti, all'apice del successo, mostrava una sostenuta consapevolezza del suo rango, anche se interpretava il ruolo con uno stile piu` laico e moderno. Dal concittadino Agnelli lo differenziavano molte cose, in primo luogo il fatto di essere un industriale di prima generazione, un self made man. Tanto che, con riferimento all'Avvocato, vezzosamente osservava: « Io sono un borghese, lui e` il re », e lo diceva con il tono allusivo del rivoluzionario che si prepara in segreto a conquistare la Bastiglia. E la sua Bastiglia era la FIAT, sulla quale, a inizio carriera, ebbe il comando per cento giorni, prima di litigare con gli Agnelli e soprattutto con Cesare Romiti, suo storico antagonista. Se ne ando` sbattendo la porta, dopo aver accarezzato, ma sempre pubblicamente smentito, il proposito di diventarne il padrone. L'Ingegnere ha realizzato solo in minima parte cio` che si era ripromesso, forse perche´ aveva puntato troppo in alto, forse perche´ tradito da un carattere poco incline a mediare. Ma all'alba dei settant'anni e` ancora l?` che si difende, dispensando da dietro le quinte giudizi e consigli con la baldanza dei tempi andati, e con l'ambizione di pesare, attraverso i suoi giornali, nel gran gioco della politica che disprezza ma lo avvince. Avrebbe potuto cadere rovinosamente, invece e` invecchiato bene, che e` sempre un gran merito. Si e` risposato, ironia della sorte, con Silvia Monti, avvenente signora con un passato d'attrice, forse l'unica che fece perdere davvero la testa all'Avvocato, e ha raggiunto un'invidiabile serenita`. E` stato risparmiato da dispiaceri e lutti e dall'oscura maledizione di quel re che in cuor suo ambiva a detronizzare. « Devo fare in una generazione quello che gli Agnelli hanno fatto in tre », soleva ripetere all'apice del successo. Preda dell'indomabile frenesia di battere, prima che gli altri, se stesso.
Cuccia e Cefis erano inaccessibili. Agnelli un po' meno, vivendo in un mondo a parte che ogni tanto, bonta` sua, incrociava per pochi attimi quello reale. De Benedetti, all'apice della gloria, camminava sulle acque come Gesu` sul lago di Tiberiade, e non era facile avvicinarlo. L'inaccessibilita` era il denominatore comune ricorrente di una schiatta di potenti in cui spiccano i nomi di cui abbiamo sin qui parlato. Ma inaccessibili erano anche molti illustri loro comprimari. L'accidioso industriale Leopoldo Pirelli portava una maschera di disincanto perennemente dipinta sul volto, come se la vita, proprio quella che gli era toccata come erede e capo di una grande azienda, fosse quasi una pena da espiare. Luigi Orlando, il taciturno re del rame con gli uffici nel bel palazzo rinascimentale di Borgo Pinti a Firenze, era davvero un grande: aveva intessuto alleanze importanti prima che la dinastia andasse a rotoli per la troppa smania di crescere.
Anche Giampiero Pesenti, forse per timidezza, raramente si faceva avvicinare. Una volta, a una drammatica assemblea della Gemina, in cui si doveva decidere cosa fare dopo che nelle sue casse si era scoperto un buco da centinaia di miliardi, prima di farsi intervistare dal telegiornale tiro` fuori dal taschino un pettine per ravviarsi i pochi capelli, con un gesto di disarmante, quasi crepuscolare, semplicita`. Chi mai poteva immaginare dei potenti con un pettine nel taschino della giacca, come un qualsiasi agente d'assicurazioni o un venditore di aspirapolveri?
Non voglio sostenere che l'inaccessibilita` fosse di per se´ un valore positivo. Piu` realisticamente, era il portato di un'oligarchia capitalista che mirava a preservare una distanza dal resto della societa`, per due motivi essenziali: perche´ non tollerava intrusioni che ne svelassero riti, splendori e nefandezze, e perche´ la condivisione del potere esponeva i suoi detentori al rischio di perderlo. Sta di fatto che proprio l'inaccessibilita` dei potenti e` una delle suggestioni che stanno dietro all'idea di questo libro.
Rispetto anche a solo dieci anni fa, i capitalisti di oggi mettono in piazza se stessi e le loro faccende come se fosse la cosa piu` naturale del mondo, con una disinvoltura che spesso rasenta l'ingenuita` o la dabbenaggine. Si compiacciono nel farsi fotografare alle feste mondane, a teatro, alla vernice di una mostra o a bordo delle loro barche in gaudente compagnia. E di fronte alla lusinga della foto di copertina di un settimanale, perdono ogni ritegno. Molti di loro si sono ormai « briatorizzati », sono stati contagiati dal modello interpretato da quel simpatico e improbabile personaggio che e` Flavio Briatore, geometra di Cuneo divenuto emblema dell'eccesso e insieme dell'accesso. Emblema, cioe`, di come sia diventato facile anche per un comune mortale frequentare luoghi e ambienti VIP, in cui lui, assieme ad altri del bel mondo, recita il ruolo di anfitrione spacciando per autentico cio` che dall'inizio alla fine odora di artefatto. Per quanto si dia da fare, Briatore non riesce a togliersi di dosso quell'impressione di ricchezza aiazzonesca, improvvisata, esibita per compiacere una platea di fatui creduloni, come se le sue ville, le sue barche o i suoi locali notturni fossero delle quinte teatrali che mascherano il vuoto.
Quinte che, una volta finito lo spettacolo ad uso e consumo delle cronache mondane che lo enfatizzano, qualcuno passa a smontare e rimettere in magazzino, tenendole pronte per la prossima rappresentazione. La fine dei potenti, o almeno di una certa specie di potenti, assomiglia al declino dei divi cinematografici nell'era della televisione: prima li spiavamo sullo schermo illuminato della sala buia, e parevano appartenere a un empireo da cui nemmeno il postumo rivelarsi delle loro vite reali riusciva a farli scendere. Poi, con la dittatura del piccolo schermo, sono diventati familiari, raggiungibili, quotidiane presenze di un immaginario che all'improvviso ha smesso di sognare. Perche´ mai il potere, anche ai massimi livelli, avrebbe dovuto sottrarsi allo stesso inesorabile processo di massificazione? Le gesta dei Mattei e dei Cefis, dei Cuccia e degli Agnelli, dei Pirelli e dei Pesenti, rese epiche da tanta letteratura che ha finito con il trasfigurarle, avevano addosso lo sguardo morboso di chi sapeva che non avrebbe mai potuto non solo partecipare al loro mondo, ma neppure comprenderne le intime regole. L'inaccessibilita` del potere era anzitutto quella dei suoi protagonisti, chiusi nelle loro torri d'avorio, lontanissimi dalla gente comune, attori di una commedia che anche agli addetti ai lavori risultava spesso indecifrabile.
Di questa algida messa in scena, che talvolta abbiamo visto anche trasformarsi in tragedia, i giornali facevano da specchio. Ma solitamente a cose fatte, e offrendo sempre un sentore vago, un resoconto sbiadito rispetto a cio` che realmente doveva essere accaduto in quel mondo chiuso, dove i signori del denaro rappresentavano il loro esclusivo Kammerspiel. Mentre erano piu` a loro agio nel raccontarne, anche se solo per sentito dire, gli stili di vita e le trasgressioni del costume.
Ecco come nascono, per un ceto medio arricchitosi in modo irrefrenabile, riviste come Capital o Class, sfogliate con avidita` da un pubblico totalmente dominato dallo spirito di emulazione. Lettori che non sarebbero certo diventati dei Pirelli, dei De Benedetti o degli Agnelli, ma a modo loro potevano sentirsi piu` vicini a quell'ambiente, imitandone i vezzi e le abitudini piu` alla moda. Non importa se l'alone era sempre mitico, lo sfondo fiabesco, e i protagonisti scrutati come attraverso un cannocchiale rovesciato. Con il passare del tempo, la societa` dell'accesso avrebbe umanizzato il potere, privandolo di tutti i connotati della differenza. A un certo punto, l'impressione e` che non vi sia piu` scarto, non piu` l'abisso di una distanza incolmabile, bens?` assoluta contiguita` e una prosaica, incessante affabulazione.
Risultato: mentre una volta l'elite frequentava percorsi e luoghi riservati, adesso la contaminazione e` pressoche´ totale. Specie negli spazi dedicati all'evasione e al divertimento. Se la Costa Smeralda, Cortina o le piazzette di Portofino e di Capri erano luoghi frequentati da pochi eletti, ora vi si puo` incontrare il non ancora baciato dalla notorieta` (ma in agguato c'e` sempre un reality televisivo pronto a mondare l'insopportabile onta dell'anonimato) che sorseggia un caffe` a un tavolino accanto a quello di Montezemolo, di Marco Tronchetti Provera o Diego Della Valle.
Dagospia 29 Dicembre 2005