VANITY GAD - LERNER FA BAU BAU A TUTTI: DAL TESORIERE DEI DS SPOSETTI A DELLA VALLE, CHE INVESTE IN "POTERE" - "COPPOLA FIGURA AZIONISTA FIANCO A FIANCO CON MONTEZEMOLO, DE BENEDETTI, LIGRESTI. LORO CI FANNO GLI AFFARI, E POI SAREI IO QUELLO CHE...

Gad Lerner per Vanity Fair, in edicola domani


Bau bau. Amo i cani, specie se meticci (o bastardi) come me. Dunque non chiederò né a D'Alema né a Fassino di mettere il guinzaglio a Ugo Sposetti, e di non farlo più abbaiare. Ma certo le parole in libertà del loro tesoriere rischiano di moltiplicare il disagio fra tanti cittadini di sinistra.

Ve la ricordate la frase che Sposetti si compiacque di diramare ai giornali contro i suoi partner politici Giulio Santagata e Angelo Rovati, stretti collaboratori di Romano Prodi? «Forse sarebbe meglio se Prodi mettesse il guinzaglio ai suoi cani e non li facesse più abbaiare». Un linguaggio che ne misura la statura politica. E a me che l'ho criticato su Vanity Fair, Sposetti si è rivolto con allusioni di tono mafioso: «Su Lerner potrei dire tante cose che non dico, perché sono un signore». Davvero? Ha qualcosa da dire su di me? Si sbrighi a dirla. Forse i ricatti funzionano a casa sua, ma non a casa mia.

Questo è il personaggio che Livia Turco, partecipando a una singolare levata di scudi del gruppo dirigente diessino, ha definito «un sant'uomo». Sempre la Turco ha confidato a Alessandra Longo di Repubblica di essersi presa il sant'uomo da parte e di avergli chiesto: «Ugo, ma com'è possibile, con la tua esperienza, che non ti sia accorto di che tipo era Consorte?». E lui: «Guarda che è come quando il marito fa le corna alla moglie. Lei è l'ultima a saperlo». Soprattutto quando non vuole saperlo, postilla di bastardo.

È un duro, Sposetti, ma sa essere dolcissimo. Nutro solo rispetto per i sentimenti d'amicizia che egli manifesta nei confronti di Consorte (penso alle continue ironie di cui siamo oggetto noi amici di Sofri), ma dissento dall'elogio che ne ha tracciato ancora sabato scorso all'assemblea dei tesorieri Ds: «Una delle persone migliori in circolazione nel campo dell'ingegneria finanziaria». Giungendo (triplo ohibò) alla seguente conclusione: «Credo che l'aspetto giudiziario che lo ha coinvolto sia un suo problema personale, sul quale nessuno si può pronunciare». Nessuno si può pronunciare? Un problema personale le plusvalenze milionarie dei manager diessini Consorte e Sacchetti? Mica male, detto da un esponente della direzione della Quercia!

Pochi giorni prima, nella sua lettera di dimissioni, guarda caso Consorte sottolineava «un impegno lavorativo non inferiore a quello che ho profuso per il Gruppo Unipol» da lui rivolto lungo 25 anni «più in generale alle organizzazioni economiche del mondo della sinistra». Avrà dunque gradito il messaggio di rinnovata lealtà inviatogli dal tesoriere del suo partito, il sant'uomo da lui coccolato telefonicamente l'estate scorsa: «Non sa niente nessuno, lo sai solo tu come al solito, perché sei l'unico di cui mi fido». E fiero lo ricambiava Sposetti: «Se non ci fossimo stati noi, Fazio sarebbe stato perso». Ma non occorre spiarli dal buco della serratura delle intercettazioni telefoniche per riconoscere la scelta di campo sbagliata da essi condivisa.

In effetti se Stefano Ricucci (o il suo eventuale ispiratore, se esiste) non avesse avuto la mania di grandezza di scalare il Corriere della Sera, molto probabilmente oggi Fiorani siederebbe alla guida della Banca Antonveneta; Consorte avrebbe scalato la Bnl; e Fazio regnerebbe tuttora sul sistema creditizio italiano. Par di capire che fino a pochi mesi fa Sposetti si augurasse la realizzazione di un tale scenario. Proprio come se l'augurava Berlusconi.

Del resto sarebbe ingeneroso caricare le responsabilità politiche soltanto sulle spalle di Consorte e del suo silenzioso vice Ivano Sacchetti, cooperatore reggiano anch'egli destinatario della munificenza di Gnutti. Non è stato forse il presidente della Lega delle Cooperative, Giuliano Poletti, il 13 agosto scorso, a definire Stefano Ricucci «un bravo imprenditore di successo» ingiustamente tenuto «fuori dalla porta del cosiddetto salotto buono»?



Credo di avere una spiegazione politica per questo madornale errore di valutazione, cui non sono sfuggiti neppure i vertici della Quercia. Si chiama istinto di partito. Ma prima devo estinguere la pratica riguardante il tesoriere Sposetti, il quale manifesta indignazione perché gli avrei dato del ladro. Va là, Sposetti! Scendi giù dal pero, lo sai benissimo che neanche in una riga ti ho dato del ladro, ma dell'arrogante. È di complicità politica che ti accuso: per anni ti sei ben guardato dall'avvertire come disdicevole il fatto che Consorte instaurasse rapporti con i settori più spregiudicati e retrivi dell'economia italiana. E nel frattempo ripianavi il debito dei Ds non con l'eroismo - ma attraverso dismissioni realizzate soprattutto grazie al banchiere Geronzi e all'immobiliare della famiglia Angelucci; aspettando che una discutibilissima legge-lampo quadruplicasse i rimborsi elettorali. Di qui l'arroganza nei confronti di quei pezzenti prodiani dell'Ulivo che non a caso rende Sposetti tanto simpatico a Giuliano Ferrara.
Nessun attentato all'onorabilità politica dei Ds, dunque, ma una critica personale e politica su cui mi pare che D'Alema e Fassino, seppur tardivamente, abbiano cominciato a riflettere.

Veniamo dunque all'istinto di partito che ha così mal consigliato il vertice della Quercia. Ne ho parlato a lungo con Massimo D'Alema, che prima mi ha telefonato e poi ha voluto riferirne all'Unità con toni affettuosi e rispettosi che ricambio.
Succede in economia quel che accade nel campo delle nomine alle Authority, negli enti pubblici, alla Rai, nelle aziende sanitarie locali. Proclami in pubblico che la Rai deve emanciparsi dal controllo della politica, ma se hai la possibilità di piazzarci alla presidenza un tuo bravo parlamentare, che fai?, mica vorrai cedere spazio all'avversario! Allo stesso modo vengono sempre buoni i banchieri di complemento come De Bustis; gli imprenditori in cerca di sponde politiche ovunque, come Marcellino Gavio; i finanzieri passepartout alla Gnutti; gli intermediari per tutte le stagioni come Giancarlo Elia Valori.

È la realpolitik che talvolta porta a privilegiare un rapporto con i cinici e gli spregiudicati illudendosi di saperli adoperare - rispetto a un disegno modernizzatore e all'applicazione delle regole.

Siamo o non siamo il paese in cui anche gli imprenditori più riveriti hanno subito condanne per insider trading? E allora cosa volete che debba preoccuparsi Consorte, come se gli Agnelli non avessero utilizzato certi trucchi finanziari con la copertura dei giornali amici. L'altrui furbizia viene sempre chiamata a giustificazione delle proprie cattive compagnie. È l'handicap di un sistema politico frazionato, dove un partito si sente grande quando appena sfiori il 20 per cento dei voti; e per forza i suoi leader patiscono soggezione nei confronti di soggetti economici interessati di volta in volta a giocare con loro di sponda o a intimidirli. Non a caso su questo Paese ha regnato per cinque anni il sovrano del conflitto d'interessi, Silvio Berlusconi, sfasciandone le regole.

Sono sicuro che l'editore americano di Vanity Fair mi concederà un'ultima divagazione, anche se sfiora un suo ottimo inserzionista pubblicitario. Sarebbe di cattivo gusto parlare solo degli sconfitti, in questa guerra economico-giudiziaria.
Per un ritratto-intervista dell'immobiliarista Danilo Coppola pubblicato su questo giornale, ora che dilagano le inchieste sull'arricchimento dei furbetti qualcuno ha tentato di beccarmi. Lerner fa tanto il moralista con il povero Sposetti, e vorrebbe far dimenticare «lo sdoganamento, se non proprio l'elogio, tessuto a Danilo Coppola»! Dixit il Corriere della sera, il cui direttore invano mi aveva fatto chiedere un'intervista nel merito. Dopo di che la pseudonotizia era stata fatta trapelare prima sul Foglio, poi sul Riformista.

Per capire come funzionano davvero gli intrecci sulla scena ristretta del capitalismo italiano, vale la pena di raccontare chi mi ha gentilmente procurato quell'appuntamento con Danilo Coppola, quando invano tentavo di portarlo ospite in tv. Fece da tramite una cara amica della Banca intermobiliare di Torino, di cui Coppola figura azionista fianco a fianco con Luca Cordero di Montezemolo, Carlo De Benedetti, Salvatore Ligresti. Loro ci fanno gli affari, e poi sarei io quello che lo sdogana?

Quella intervista a Coppola diede fastidio perché raccontava un suo incontro a dir poco sgradevole con Diego Della Valle, cioè un grande imprenditore afflitto però dalla sindrome italiana per cui ogni capitalista che si rispetti, per contare di più, deve investire in «potere». Controllare una banca, un giornale e magari una squadra di calcio. Blindarsi con vetusti patti di sindacato.

Altro che sdoganamento, l'articolo di Vanity Fair del 9 giugno finiva così: «Io non lo so come Coppola abbia fatto il suo primo miliardo. La crescita smisurata del potere degli immobiliaristi mi segnala un'Italia sfortunata dove la speculazione cresce e l'industria va indietro. Peggio: viviamo manovre di potere oscure degne dei tempi di Sindona e del crac del Banco Ambrosiano. Ma non saranno certo i patti di sindacato fra i soliti noti, fragili e indebitati, a garantirci un futuro migliore».


Dagospia 18 Gennaio 2006