CINESERIE VENEZIANE - SE "STILL LIFE" LO AVESSE COMPRATO VELTRONI, CON IL PRECISO SCOPO DI SCREDITARE AGLI OCCHI DEL MONDO LA MOSTRA DI VENEZIA, NON AVREBBE POTUTO COMBINARE PIÙ DANNI - UN FILM CHE FARÀ FUGGIRE GLI SPETTATORI DALLE SALE.
Mariarosa Mancuso per "Il Foglio"
La legge di Murphy - adattata ai frequentatori di festival - recita: "Se hai perso un film del concorso, di sicuro quel film vincerà l'oro". Accadde a Cannes con "Rosetta" dei fratelli Dardenne, presidente della giuria David Cronenberg. E' successo un'altra volta alla mostra di Venezia, presidente della giuria mademoiselle Catherine Deneuve (non lo diciamo per sfottò: è lei che tiene alla sua signorinità, fulminando chiunque osi chiamarla madame). Aggravante: "Still Life" di Jia Zhang-Ke era stato messo in gara all'ultimo momento, con il nome in codice "film sorpresa". Due proiezioni per i giornalisti attorno a mezzanotte, quando anche il festivaliero più ligio al dovere ripone il taccuino e si avvia al suo secondo lavoro: cercare qualcosa di commestibile. (Al Lido non solo esistono prezzi differenziati per i veneziani e i forestieri, ma con l'ora tarda il prosciutto dei panini volge al verdognolo, ogni pasto è un rischio).
L'annuncio del vincitore coglie i giornalisti impreparati. Non si ha la forza neppure di fischiare. I meglio informati dichiarano - per sentito dire - che si tratta del "Gianni Amelio made in China". I secchioni aspettano la proiezione di recupero, onde prendere finalmente visione del capolavoro. Trattasi di film neorealista, lento fino allo spasimo. Tra canottiere, mutande appese, cadenti caseggiati popolari filmati in digitale, narra la costruzione della diga delle Tre Gole sul fiume Yangtze. Un villaggio sta per essere sommerso, un minatore e un'infermiera cercano i rispettivi consorti, spariti da anni (senza che lo spettatore capisca esattamente perché: è incredibile quante poche informazioni i registi cinesi riescono a mettere in film che a vederli paiono non finire mai). Ma lo smarrimento, si sa, ha sempre le stimmate dell'arte.
Nella classifica dei ricatti poetici è secondo solo all'esilio. Non manca il messaggio: poiché la diga non è stata progettata dal presidente Mao (quel brav'uomo che secondo Rossana Rossanda ha totalizzato un bel 70 per cento di cose buone e giuste, sbagliando per il 30 per cento appena), ecco che il cinefilo si strugge sui costi umani della modernizzazione, sull'incipiente capitalismo, e sul conseguente consumismo. Nessuno di loro però aveva versato una sola lacrima quando la gente veniva deportata a spalar merda e a mangiare radici, in nome della Rivoluzione culturale. Quattro giurati su sette votano per "Still Life" (sta per "natura morta", anche se un cronista di quotidiano, vittima di un cortocircuito con l'acciaieria di Bagnoli vista in "La stella che non c'è", lo ha chiamato "Steel Life").
Se li avesse comprati Walter Veltroni, con il preciso scopo di screditare agli occhi del mondo la Mostra di Venezia, non avrebbero potuto combinare più danni. Hanno premiato con il Leone d'oro un film che farà fuggire gli spettatori dalle sale, se mai nelle sale arriverà. Non hanno neppure considerato "I figli degli uomini", ignorando il regista Alfonso Cuarón e l'attore Clive Owen. Unico contentino: l'Osella per il "contributo tecnico" al direttore della fotografia Emmanuel Lubetzki (chiunque abbia anche solo un po' di amore per il cinema, sa che "bella la fotografia" è il bacio della morte ai titoli privi di ogni altra attrattiva).
"Non mi avevano detto che avrei dovuto difendere tutte le decisioni della giuria da sola" dice un po' seccata mademoiselle Deneuve durante la conferenza stampa (il nervosismo traspariva dal boa di struzzo animato di vita propria e dalla smorfietta sulle labbra, a significare: "Io sono il cinema, mica posso stare qui a spiegarvelo"). Da spiegare, c'era parecchio. Praticamente tutto, tranne la Coppa Volpi a Helen Mirren, magnifica regina Elisabetta in "The Queen" di Stephen Frears, unico premio accolto con grandi applausi. C'era da spiegare come e quando la giuria ha escogitato per Emanuele Crialese e il suo "Nuovomondo" il Leone d'argento Rivelazione.
Sulla rivelazione, niente da dire: il film è bello, mentre non si poteva dire lo stesso di "Respiro", con Valeria Golino. Ma una storia ben costruita, e personaggi ben caratterizzati, non potevano certo conquistare una presidentessa che prima di render noti Leoni e coppe Volpi ha sentito il bisogno di inginocchiarsi a David Lynch e al suo "Inland Empire", fuori concorso. "Lynch da linciare" ha scritto il giornalista del Guardian, con l'approvazione nostra e di tutti quelli che hanno visto senza anestesia l'accozzaglia di immagini spacciate per geniale visionarietà.
Con un simile partito preso, guai ai titoli che non pretendevano di rivoluzionare il linguaggio cinematografico, ma solo raccontare storie. Sono usciti tutti con le ossa rotte. Oltre a "I figli degli uomini" - film che tra vent'anni, se la Mostra di Venezia esisterà ancora, verrà riverito nella Retrospettiva - è stato bellamente ignorato "Bobby" di Emilio Estevez: 22 star che a paga sindacale occupano l'Ambassador hotel dove fu assassinato Robert Kennedy. "Coeurs - Piccole paure condivise" del settantottenne Alain Resnais è stato preferito a "Nue propriété" del trentenne Joachim Lafosse. Motivo: il primo ha la neve finta e i tramezzi inquadrati dall'alto, il secondo invece racconta realisticamente un banale litigio per la casa di famiglia. Va messa in conto anche la rendita di posizione conquistata dal maestro con "L'anno scorso a Marienbad", sceneggiato dal suo degno compare Alain Robbe-Grillet, anche lui alla Mostra con un film. Per i direttori di festival, come per le oche di Konrad Lorenz, vale qualcosa di simile all'imprinting: il primo film che ti ha annoiato, lo amerai per sempre.
Non ha fatto meglio la giuria della sezione Orizzonti. Il presidente Philip Groenig, nonché regista del "Grande silenzio", ha elencato i film che avevano colpito i giurati, pur senza aver diritto ai premi (andati a Spike Lee e al cinese Liu Jie). La lista era lunghissima. Ma neppure lì è stato trovato un posticino per "Infamous" di Douglas McGrath, di gran lunga il migliore in gara. Perfino più bello del "Capote" con Philippe Seymour Hoffman, diretto l'anno scorso da Bennett Miller. Forse parlavano troppo. Forse c'era troppa mondanità. Forse le pellicce di Truman Capote erano troppo eleganti. Forse la spiegazione del detto "si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle respinte" era troppo convincente. Forse - come da tempo sospettavamo nel profondo del nostro cuore, ora ne abbiamo la certezza - chi comincia inneggiando al silenzio prima o poi incappa in qualche altro luogo comune dell'intellettualità.
C'era da spiegare soprattutto perché mai è stato assegnato un premio "per l'insieme dell'opera" a quei due personaggi negati per il cinema che rispondono ai nomi di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Erano già insopportabili negli anni 70, figuriamoci adesso. Mettono gli attori con le spalle alla macchina da presa, e la giuria ricasca nella trappola. Se non si capisce, deve essere arte. Se non si capisce, e perdipiù la mascella rischia di slogarsi per gli sbadigli, deve essere arte sublime. Stupisce che, autolesionismo per autolesionismo, non abbiano premiato l'inguardabile "The Fountain" di Darren Aronofsky, tra i preferiti del direttore Marco Müller.
Dagospia 12 Settembre 2006
La legge di Murphy - adattata ai frequentatori di festival - recita: "Se hai perso un film del concorso, di sicuro quel film vincerà l'oro". Accadde a Cannes con "Rosetta" dei fratelli Dardenne, presidente della giuria David Cronenberg. E' successo un'altra volta alla mostra di Venezia, presidente della giuria mademoiselle Catherine Deneuve (non lo diciamo per sfottò: è lei che tiene alla sua signorinità, fulminando chiunque osi chiamarla madame). Aggravante: "Still Life" di Jia Zhang-Ke era stato messo in gara all'ultimo momento, con il nome in codice "film sorpresa". Due proiezioni per i giornalisti attorno a mezzanotte, quando anche il festivaliero più ligio al dovere ripone il taccuino e si avvia al suo secondo lavoro: cercare qualcosa di commestibile. (Al Lido non solo esistono prezzi differenziati per i veneziani e i forestieri, ma con l'ora tarda il prosciutto dei panini volge al verdognolo, ogni pasto è un rischio).
L'annuncio del vincitore coglie i giornalisti impreparati. Non si ha la forza neppure di fischiare. I meglio informati dichiarano - per sentito dire - che si tratta del "Gianni Amelio made in China". I secchioni aspettano la proiezione di recupero, onde prendere finalmente visione del capolavoro. Trattasi di film neorealista, lento fino allo spasimo. Tra canottiere, mutande appese, cadenti caseggiati popolari filmati in digitale, narra la costruzione della diga delle Tre Gole sul fiume Yangtze. Un villaggio sta per essere sommerso, un minatore e un'infermiera cercano i rispettivi consorti, spariti da anni (senza che lo spettatore capisca esattamente perché: è incredibile quante poche informazioni i registi cinesi riescono a mettere in film che a vederli paiono non finire mai). Ma lo smarrimento, si sa, ha sempre le stimmate dell'arte.
Nella classifica dei ricatti poetici è secondo solo all'esilio. Non manca il messaggio: poiché la diga non è stata progettata dal presidente Mao (quel brav'uomo che secondo Rossana Rossanda ha totalizzato un bel 70 per cento di cose buone e giuste, sbagliando per il 30 per cento appena), ecco che il cinefilo si strugge sui costi umani della modernizzazione, sull'incipiente capitalismo, e sul conseguente consumismo. Nessuno di loro però aveva versato una sola lacrima quando la gente veniva deportata a spalar merda e a mangiare radici, in nome della Rivoluzione culturale. Quattro giurati su sette votano per "Still Life" (sta per "natura morta", anche se un cronista di quotidiano, vittima di un cortocircuito con l'acciaieria di Bagnoli vista in "La stella che non c'è", lo ha chiamato "Steel Life").
Se li avesse comprati Walter Veltroni, con il preciso scopo di screditare agli occhi del mondo la Mostra di Venezia, non avrebbero potuto combinare più danni. Hanno premiato con il Leone d'oro un film che farà fuggire gli spettatori dalle sale, se mai nelle sale arriverà. Non hanno neppure considerato "I figli degli uomini", ignorando il regista Alfonso Cuarón e l'attore Clive Owen. Unico contentino: l'Osella per il "contributo tecnico" al direttore della fotografia Emmanuel Lubetzki (chiunque abbia anche solo un po' di amore per il cinema, sa che "bella la fotografia" è il bacio della morte ai titoli privi di ogni altra attrattiva).
"Non mi avevano detto che avrei dovuto difendere tutte le decisioni della giuria da sola" dice un po' seccata mademoiselle Deneuve durante la conferenza stampa (il nervosismo traspariva dal boa di struzzo animato di vita propria e dalla smorfietta sulle labbra, a significare: "Io sono il cinema, mica posso stare qui a spiegarvelo"). Da spiegare, c'era parecchio. Praticamente tutto, tranne la Coppa Volpi a Helen Mirren, magnifica regina Elisabetta in "The Queen" di Stephen Frears, unico premio accolto con grandi applausi. C'era da spiegare come e quando la giuria ha escogitato per Emanuele Crialese e il suo "Nuovomondo" il Leone d'argento Rivelazione.
Sulla rivelazione, niente da dire: il film è bello, mentre non si poteva dire lo stesso di "Respiro", con Valeria Golino. Ma una storia ben costruita, e personaggi ben caratterizzati, non potevano certo conquistare una presidentessa che prima di render noti Leoni e coppe Volpi ha sentito il bisogno di inginocchiarsi a David Lynch e al suo "Inland Empire", fuori concorso. "Lynch da linciare" ha scritto il giornalista del Guardian, con l'approvazione nostra e di tutti quelli che hanno visto senza anestesia l'accozzaglia di immagini spacciate per geniale visionarietà.
Con un simile partito preso, guai ai titoli che non pretendevano di rivoluzionare il linguaggio cinematografico, ma solo raccontare storie. Sono usciti tutti con le ossa rotte. Oltre a "I figli degli uomini" - film che tra vent'anni, se la Mostra di Venezia esisterà ancora, verrà riverito nella Retrospettiva - è stato bellamente ignorato "Bobby" di Emilio Estevez: 22 star che a paga sindacale occupano l'Ambassador hotel dove fu assassinato Robert Kennedy. "Coeurs - Piccole paure condivise" del settantottenne Alain Resnais è stato preferito a "Nue propriété" del trentenne Joachim Lafosse. Motivo: il primo ha la neve finta e i tramezzi inquadrati dall'alto, il secondo invece racconta realisticamente un banale litigio per la casa di famiglia. Va messa in conto anche la rendita di posizione conquistata dal maestro con "L'anno scorso a Marienbad", sceneggiato dal suo degno compare Alain Robbe-Grillet, anche lui alla Mostra con un film. Per i direttori di festival, come per le oche di Konrad Lorenz, vale qualcosa di simile all'imprinting: il primo film che ti ha annoiato, lo amerai per sempre.
Non ha fatto meglio la giuria della sezione Orizzonti. Il presidente Philip Groenig, nonché regista del "Grande silenzio", ha elencato i film che avevano colpito i giurati, pur senza aver diritto ai premi (andati a Spike Lee e al cinese Liu Jie). La lista era lunghissima. Ma neppure lì è stato trovato un posticino per "Infamous" di Douglas McGrath, di gran lunga il migliore in gara. Perfino più bello del "Capote" con Philippe Seymour Hoffman, diretto l'anno scorso da Bennett Miller. Forse parlavano troppo. Forse c'era troppa mondanità. Forse le pellicce di Truman Capote erano troppo eleganti. Forse la spiegazione del detto "si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle respinte" era troppo convincente. Forse - come da tempo sospettavamo nel profondo del nostro cuore, ora ne abbiamo la certezza - chi comincia inneggiando al silenzio prima o poi incappa in qualche altro luogo comune dell'intellettualità.
C'era da spiegare soprattutto perché mai è stato assegnato un premio "per l'insieme dell'opera" a quei due personaggi negati per il cinema che rispondono ai nomi di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Erano già insopportabili negli anni 70, figuriamoci adesso. Mettono gli attori con le spalle alla macchina da presa, e la giuria ricasca nella trappola. Se non si capisce, deve essere arte. Se non si capisce, e perdipiù la mascella rischia di slogarsi per gli sbadigli, deve essere arte sublime. Stupisce che, autolesionismo per autolesionismo, non abbiano premiato l'inguardabile "The Fountain" di Darren Aronofsky, tra i preferiti del direttore Marco Müller.
Dagospia 12 Settembre 2006