ODO GELLI FAR FESTA/17 - LA MORTE DI PERON, ISABELITA CEDE IL POTERE AI MILITARI, L'INFLUENZA DI LICIO RESTA FORTE ("DEI DESAPARECIDOS SI È SAPUTO DOPO") - L'INCONTRO CON PINOCHET - L'OPERAZIONE CONDOR.
Tratto da "Licio Gelli - Parola di Venerabile", di Sandro Neri, Aliberti Editore
Perón muore il 1 luglio del 1974. L'Argentina vive continue tensioni. La Triplice A - l'Alleanza anticomunista argentina - sequestra e uccide intellettuali e politici sospettati di vicinanza con la guerriglia. Il potere, intanto, passa a Isabelita, che però non avrà la forza per conservarlo. Perón pensava davvero di poter lasciare il Paese nelle mani della moglie? Come vedeva la successione?
Aveva previsto che Isabelita ereditasse la presidenza, ma coadiuvata da una sorta di cupola. Composta da Emilio Massera, comandante in capo della Marina, dall'ammiraglio Armando Lambruschini e dal generale Roberto Viola. La formula, però, non funzionò. Per i limiti di Isabelita e, soprattutto, per la difficile situazione che il Paese stava vivendo. Non a caso la stessa Isabel aveva chiesto l'aiuto dell'esercito per sedare il malcontento sociale. E finito per cedere il potere nelle mani di Lopez Rega che aveva predisposto le Tre A, nome in codice del piano messo a punto per combattere il comunismo con ogni mezzo. Ne aveva parlato, ricordo, già il 23 giugno 1973, nel corso di un incontro con i principali collaboratori di Perón. «Il Paese deve risalire la china» aveva detto. «Bisogna evitare sconvolgimenti politici interni». Ma ora i militari non condividevano più la politica di Isabelita, che consideravano troppo lassista, e non sopportavano più Lopez Rega. Me lo confidò il capo di stato maggiore dell'Esercito, Eduardo Viola, che in seguito mi preannunciò una riunione fissata per il 25 novembre all'Hotel President al fine di discutere della successione di Isabelita.
Quella riunione si tenne regolarmente?
Sì, alle 22, in una suite al terzo piano. Le decisioni strategiche vennero rinviate a un successivo vertice, ma quella sera venne decisa l'uscita dal Paese di Lopez Rega, che sarebbe stato nominato Ambasciatore a Riposo, con l'obbligo però di non mettere più piede in Argentina. Successivamente, credo nel mese di marzo, mi venne poi chiesto di accompagnare Lopez Rega prima in Spagna e dopo a Ginevra. Sono rimasto in contatto epistolare con "Lopecito" fino alla sua morte.
Isabelita si fidava di lei?
Abbastanza. Anche se ammetto di non aver mai pensato che fosse in grado di guidare l'Argentina. Non aveva statura politica e nemmeno solide basi culturali. Il popolo non la amava come aveva fatto con Evita. In più, in quel momento in Argentina era impossibile instaurare un governo democratico. Serviva un regime forte, una repubblica presidenziale ma non parlamentare.
E magari una giunta militare, come è infatti avvenuto.
I militari argentini, quelli che hanno assunto il potere nel 1976, erano personaggi di grande preparazione anche tecnica, soprattutto in fatto di politica economica. Avevano tutti studiato economia, sapevano dove puntare per poter risollevare il Paese. Non a caso gli anni della dittatura militare si sarebbero poi rivelati quelli della riduzione del debito pubblico.
Perché una democrazia parlamentare non avrebbe potuto fare altrettanto?
Per il carattere stesso dell'Argentina. Là tutti puntavano al potere e in un quadro simile l'esperienza democratica aveva regolarmente portato il Paese al caos. Troppa gente senza lavoro, inflazione altissima, scioperi, anche a causa dell'incapacità dei sindacati. Se ne rendeva conto anche Isabelita, tanto che una sera - presente anche l'ammiraglio Emilio Massera - mi confidò: «Ogni volta che sento bussare alla porta tremo. Temo sempre che possano essere i militari». Le risposi: «Guardi, presidente: il giorno che dovessero arrivare i militari a prendere il suo posto non busseranno alla porta. La apriranno e basta». E così è stato.
Che ruolo ha avuto l'ingombrante figura di Lopez Rega nella caduta di Isabelita?
Col suo operato metteva spesso in difficoltà la presidenza della vedova Perón. Tra gli episodi più gravi, sicuramente l'incidente dei sommergibili nucleari. L'Argentina ne aveva ottenuti, grazie a un accordo riservatissimo e all'impegno di mantenere la cessione segreta per tre anni, un paio dal governo della Germania Ovest. Rega pensò di venderne uno alla Libia, in una delle fasi più critiche dei rapporti interni allo scacchiere mediterraneo. La reazione dei tedeschi fu pesantissima. Per rappresaglia venne chiuso lo stabilimento della Telefunken in Argentina, un'azienda che dava lavoro a centinaia di persone. La soluzione del caso venne affidata a me. In veste di ministro plenipotenziario volai, a bordo dell'aereo presidenziale e con mandato firmato dalla stessa Isabelita, a Bonn, incontrai rappresentanti del governo e della massoneria tedesca. Il sommergibile fu restituito ai tedeschi, i rapporti fra Germania Federale e Argentina ripresero e lo stabilimento Telefunken fu riaperto.
Nel luglio 1975 Rega fu costretto a salire su un aereo diretto in Brasile, con un biglietto di sola andata; un mese dopo Isabelita dovette licenziare il comandante dell'Esercito e nominare al suo posto il generale Videla. Pochi mesi più tardi, il 24 marzo 1976, dovrà lei stessa rinunciare alla presidenza, per ritrovarsi agli arresti. Lei, invece, all'avvento della dittatura militare riuscirà comunque a mantenere i suoi incarichi e il suo potere.
Io rappresentavo gli interessi della massoneria, quella argentina, che con Perón era diventata molto potente, e non solo. Alla vigilia dell'investitura del generale Roberto Viola a presidente, dopo il periodo di Videla, ebbi un incontro riservato con lui, presente anche il Gran Maestro de la Vega, per la firma di un documento di tre pagine. Un accordo che definiva il mio ruolo e i miei incarichi, che erano poi quelli di garante del patto che legava governo e massoneria. Comunque già nel 1976 Emilio Massera, capo della Marina, e Roberto Viola, capo dell'Esercito, erano persone che conoscevo da tempo e che per certo mi stimavano.
Glielo rinfaccerà Aldo Moro, al suo primo incontro con lui, biasimandola di lavorare per una dittatura. Cosa sapeva delle camere di tortura con cui i militari combattevano l'opposizione interna?
Il generale dell'esercito Suárez Mason combatteva i ribelli nel solo modo che potesse fare, cioè con metodi militari. Sulle montagne si tenevano dei veri scontri armati. E i giornali pubblicavano ogni giorno una sorta di bollettino dei caduti. Ricordo di aver visto qualcosa di simile solo durante la Guerra di Spagna. Da altri militari seppi che i prigionieri venivano condotti in una grande struttura della Marina o in un'altra sede vicino al Mar de la Plata. Dal generale Suárez Mason non ebbi mai più alcuna notizia, se non che si dichiarava soddisfatto delle operazioni di rastrellamento. Mi risulta che notizie precise non venissero fornite neppure al presidente Perón. Negli anni successivi la sparizione di persone che erano poi avversari politici della giunta al governo o sovversivi, come venivano chiamati, rientrava in una serie di avvenimenti misteriosi, che le stesse famiglie degli scomparsi per molto tempo non seppero decifrare. Si diceva che chi era in forte dissenso con la politica argentina preferisse lasciare il Paese o comunque far perdere le proprie tracce per non incappare in denunce o nella repressione. Che poi molte di queste persone fossero state rapite per ordine dei militari si è saputo solo dopo.
Negli anni della dittatura militare migliaia di persone furono arrestate, torturate e uccise. I loro corpi sparivano inghiottiti dal mare dopo essere stati gettati dagli aerei, spesso ancora in vita. Lei dei desaparecidos sapeva, perché almeno in un'occasione dovette occuparsene personalmente.
Fu Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, a chiedermi di farlo. L'ammiraglio Massera doveva venire in visita in Italia e voleva incontrare anche Andreotti. Mi incaricai, in veste di rappresentante del governo argentino, di fissare l'appuntamento. Ma Andreotti precisò che avrebbe ricevuto Massera solo in cambio di 18 salvacondotti per altrettanti giovani italo-argentini che risultavano scomparsi a Buenos Aires. Tra questi, anche un giovane la cui sorte stava particolarmente a cuore al presidente Giovanni Leone e il figlio ventiquattrenne di un dirigente della Fiat che risultava incarcerato. Massera portò tutti i salvacondotti e riuscì a ottenere il colloquio a cui puntava. Al Grand Hotel di Roma, dove alloggiava, ricevette anche Gianni Agnelli, che si era infortunato una gamba su un motoscafo. L'accompagnai io alla suite, porgendogli il braccio. Gli dissi: «Avvocato, se ci fanno una fotografia vedrà come balliamo.» Rispose senza scomporsi: «Lei sa ballare? » Massera, comunque, in tutto si fermò cinque giorni, durante i quali si tennero anche una cena al ministero della Marina offerta dall'ammiraglio Giovanni Torrisi, una colazione di quattro ore con Francesco Cossiga nell'abitazione del suo consigliere in via dell'Alchimia e, sempre all'Excelsior, un incontro con alcuni industriali italiani, per pianificare progetti imprenditoriali sul territorio argentino.
Che ricordo ha di Massera?
Un'ottima persona. Parlava un discreto italiano, come gli altri membri della giunta militare. Era un buon economista e anche un gentiluomo.
La Corte federale, il 9 dicembre 1985, condannerà Massera all'ergastolo per omicidio pluriaggravato, privazione illegale della libertà, torture e furto. Nel 1977, durante la visita in Italia, il capo della giunta militare argentina era stato accompagnato da lei ai cantieri della Oto Melara di La Spezia. Massera era interessato a una fornitura di fregate Lupo e di apparecchiature missilistiche, ma al suo arrivo aveva trovato uno sciopero indetto dai sindacati per denunciare le violenze della dittatura di Buenos Aires. Ho letto che l'episodio aveva mandato Massera su tutte le furie.
I fatti sono un po' diversi. Era stata preparata una protesta, è vero. Ma ne eravamo stati puntualmente informati. Anche con il giusto anticipo. Tanto da avere il tempo di cambiare programma, dirigerci a un altro stabilimento e vivere l'episodio con un po' d'ironia. I contestatori seppero che non saremmo passati ai cantieri quando eravamo già in viaggio per Roma. Massera sembrava divertito all'idea di aver beffato quanti l'attendevano con gli striscioni e i cartelli. Comunque, detto per inciso, in quell'occasione riuscì a concludere gli affari che gli stavano a cuore. Non comprò solo navi ma ogni genere di armi.
Nel corso della sua attività di diplomatico argentino ha mai incontrato il generale Augusto Pinochet?
Certo, due volte. Ma sempre in occasione di cerimonie ufficiali dove io ero uno dei tanti invitati. Ebbi occasione di parlare un po' più da vicino con Pinochet la sera del ricevimento organizzato da Perón per festeggiare il suo rientro a Buenos Aires, nell'agosto del '73. In quell'occasione conobbi anche Salvator Allende, pure lui tra gli invitati, che rividi poi anche a Cangallo, in visita alla sede della massoneria. Era ancora presidente del Cile, non potevo immaginare che meno di un mese più tardi sarebbe stato ucciso.
Negli anni Settanta scatta l'Operazione Condor: un accordo tra i servizi di sicurezza di Argentina, Cile, Uruguay, Bolivia, Brasile e Paraguay con l'obiettivo comune di combattere il marxismo. Il bilancio di quest'iniziativa parla di 50.000 omicidi, 30.000 desaparecidos - la maggior parte dei quali in Argentina - e 400.000 prigionieri. Lei, che lavorava per il governo argentino, cosa sapeva di tutto questo?
Niente, perché nessuno, in seno al governo argentino, mi parlò mai di questo accordo. Che d'altronde, se quelle erano le sue finalità, credo fosse segreto.
17 - Continua
Dagospia 13 Dicembre 2006
Perón muore il 1 luglio del 1974. L'Argentina vive continue tensioni. La Triplice A - l'Alleanza anticomunista argentina - sequestra e uccide intellettuali e politici sospettati di vicinanza con la guerriglia. Il potere, intanto, passa a Isabelita, che però non avrà la forza per conservarlo. Perón pensava davvero di poter lasciare il Paese nelle mani della moglie? Come vedeva la successione?
Aveva previsto che Isabelita ereditasse la presidenza, ma coadiuvata da una sorta di cupola. Composta da Emilio Massera, comandante in capo della Marina, dall'ammiraglio Armando Lambruschini e dal generale Roberto Viola. La formula, però, non funzionò. Per i limiti di Isabelita e, soprattutto, per la difficile situazione che il Paese stava vivendo. Non a caso la stessa Isabel aveva chiesto l'aiuto dell'esercito per sedare il malcontento sociale. E finito per cedere il potere nelle mani di Lopez Rega che aveva predisposto le Tre A, nome in codice del piano messo a punto per combattere il comunismo con ogni mezzo. Ne aveva parlato, ricordo, già il 23 giugno 1973, nel corso di un incontro con i principali collaboratori di Perón. «Il Paese deve risalire la china» aveva detto. «Bisogna evitare sconvolgimenti politici interni». Ma ora i militari non condividevano più la politica di Isabelita, che consideravano troppo lassista, e non sopportavano più Lopez Rega. Me lo confidò il capo di stato maggiore dell'Esercito, Eduardo Viola, che in seguito mi preannunciò una riunione fissata per il 25 novembre all'Hotel President al fine di discutere della successione di Isabelita.
Quella riunione si tenne regolarmente?
Sì, alle 22, in una suite al terzo piano. Le decisioni strategiche vennero rinviate a un successivo vertice, ma quella sera venne decisa l'uscita dal Paese di Lopez Rega, che sarebbe stato nominato Ambasciatore a Riposo, con l'obbligo però di non mettere più piede in Argentina. Successivamente, credo nel mese di marzo, mi venne poi chiesto di accompagnare Lopez Rega prima in Spagna e dopo a Ginevra. Sono rimasto in contatto epistolare con "Lopecito" fino alla sua morte.
Isabelita si fidava di lei?
Abbastanza. Anche se ammetto di non aver mai pensato che fosse in grado di guidare l'Argentina. Non aveva statura politica e nemmeno solide basi culturali. Il popolo non la amava come aveva fatto con Evita. In più, in quel momento in Argentina era impossibile instaurare un governo democratico. Serviva un regime forte, una repubblica presidenziale ma non parlamentare.
E magari una giunta militare, come è infatti avvenuto.
I militari argentini, quelli che hanno assunto il potere nel 1976, erano personaggi di grande preparazione anche tecnica, soprattutto in fatto di politica economica. Avevano tutti studiato economia, sapevano dove puntare per poter risollevare il Paese. Non a caso gli anni della dittatura militare si sarebbero poi rivelati quelli della riduzione del debito pubblico.
Perché una democrazia parlamentare non avrebbe potuto fare altrettanto?
Per il carattere stesso dell'Argentina. Là tutti puntavano al potere e in un quadro simile l'esperienza democratica aveva regolarmente portato il Paese al caos. Troppa gente senza lavoro, inflazione altissima, scioperi, anche a causa dell'incapacità dei sindacati. Se ne rendeva conto anche Isabelita, tanto che una sera - presente anche l'ammiraglio Emilio Massera - mi confidò: «Ogni volta che sento bussare alla porta tremo. Temo sempre che possano essere i militari». Le risposi: «Guardi, presidente: il giorno che dovessero arrivare i militari a prendere il suo posto non busseranno alla porta. La apriranno e basta». E così è stato.
Che ruolo ha avuto l'ingombrante figura di Lopez Rega nella caduta di Isabelita?
Col suo operato metteva spesso in difficoltà la presidenza della vedova Perón. Tra gli episodi più gravi, sicuramente l'incidente dei sommergibili nucleari. L'Argentina ne aveva ottenuti, grazie a un accordo riservatissimo e all'impegno di mantenere la cessione segreta per tre anni, un paio dal governo della Germania Ovest. Rega pensò di venderne uno alla Libia, in una delle fasi più critiche dei rapporti interni allo scacchiere mediterraneo. La reazione dei tedeschi fu pesantissima. Per rappresaglia venne chiuso lo stabilimento della Telefunken in Argentina, un'azienda che dava lavoro a centinaia di persone. La soluzione del caso venne affidata a me. In veste di ministro plenipotenziario volai, a bordo dell'aereo presidenziale e con mandato firmato dalla stessa Isabelita, a Bonn, incontrai rappresentanti del governo e della massoneria tedesca. Il sommergibile fu restituito ai tedeschi, i rapporti fra Germania Federale e Argentina ripresero e lo stabilimento Telefunken fu riaperto.
Nel luglio 1975 Rega fu costretto a salire su un aereo diretto in Brasile, con un biglietto di sola andata; un mese dopo Isabelita dovette licenziare il comandante dell'Esercito e nominare al suo posto il generale Videla. Pochi mesi più tardi, il 24 marzo 1976, dovrà lei stessa rinunciare alla presidenza, per ritrovarsi agli arresti. Lei, invece, all'avvento della dittatura militare riuscirà comunque a mantenere i suoi incarichi e il suo potere.
Io rappresentavo gli interessi della massoneria, quella argentina, che con Perón era diventata molto potente, e non solo. Alla vigilia dell'investitura del generale Roberto Viola a presidente, dopo il periodo di Videla, ebbi un incontro riservato con lui, presente anche il Gran Maestro de la Vega, per la firma di un documento di tre pagine. Un accordo che definiva il mio ruolo e i miei incarichi, che erano poi quelli di garante del patto che legava governo e massoneria. Comunque già nel 1976 Emilio Massera, capo della Marina, e Roberto Viola, capo dell'Esercito, erano persone che conoscevo da tempo e che per certo mi stimavano.
Glielo rinfaccerà Aldo Moro, al suo primo incontro con lui, biasimandola di lavorare per una dittatura. Cosa sapeva delle camere di tortura con cui i militari combattevano l'opposizione interna?
Il generale dell'esercito Suárez Mason combatteva i ribelli nel solo modo che potesse fare, cioè con metodi militari. Sulle montagne si tenevano dei veri scontri armati. E i giornali pubblicavano ogni giorno una sorta di bollettino dei caduti. Ricordo di aver visto qualcosa di simile solo durante la Guerra di Spagna. Da altri militari seppi che i prigionieri venivano condotti in una grande struttura della Marina o in un'altra sede vicino al Mar de la Plata. Dal generale Suárez Mason non ebbi mai più alcuna notizia, se non che si dichiarava soddisfatto delle operazioni di rastrellamento. Mi risulta che notizie precise non venissero fornite neppure al presidente Perón. Negli anni successivi la sparizione di persone che erano poi avversari politici della giunta al governo o sovversivi, come venivano chiamati, rientrava in una serie di avvenimenti misteriosi, che le stesse famiglie degli scomparsi per molto tempo non seppero decifrare. Si diceva che chi era in forte dissenso con la politica argentina preferisse lasciare il Paese o comunque far perdere le proprie tracce per non incappare in denunce o nella repressione. Che poi molte di queste persone fossero state rapite per ordine dei militari si è saputo solo dopo.
Negli anni della dittatura militare migliaia di persone furono arrestate, torturate e uccise. I loro corpi sparivano inghiottiti dal mare dopo essere stati gettati dagli aerei, spesso ancora in vita. Lei dei desaparecidos sapeva, perché almeno in un'occasione dovette occuparsene personalmente.
Fu Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, a chiedermi di farlo. L'ammiraglio Massera doveva venire in visita in Italia e voleva incontrare anche Andreotti. Mi incaricai, in veste di rappresentante del governo argentino, di fissare l'appuntamento. Ma Andreotti precisò che avrebbe ricevuto Massera solo in cambio di 18 salvacondotti per altrettanti giovani italo-argentini che risultavano scomparsi a Buenos Aires. Tra questi, anche un giovane la cui sorte stava particolarmente a cuore al presidente Giovanni Leone e il figlio ventiquattrenne di un dirigente della Fiat che risultava incarcerato. Massera portò tutti i salvacondotti e riuscì a ottenere il colloquio a cui puntava. Al Grand Hotel di Roma, dove alloggiava, ricevette anche Gianni Agnelli, che si era infortunato una gamba su un motoscafo. L'accompagnai io alla suite, porgendogli il braccio. Gli dissi: «Avvocato, se ci fanno una fotografia vedrà come balliamo.» Rispose senza scomporsi: «Lei sa ballare? » Massera, comunque, in tutto si fermò cinque giorni, durante i quali si tennero anche una cena al ministero della Marina offerta dall'ammiraglio Giovanni Torrisi, una colazione di quattro ore con Francesco Cossiga nell'abitazione del suo consigliere in via dell'Alchimia e, sempre all'Excelsior, un incontro con alcuni industriali italiani, per pianificare progetti imprenditoriali sul territorio argentino.
Che ricordo ha di Massera?
Un'ottima persona. Parlava un discreto italiano, come gli altri membri della giunta militare. Era un buon economista e anche un gentiluomo.
La Corte federale, il 9 dicembre 1985, condannerà Massera all'ergastolo per omicidio pluriaggravato, privazione illegale della libertà, torture e furto. Nel 1977, durante la visita in Italia, il capo della giunta militare argentina era stato accompagnato da lei ai cantieri della Oto Melara di La Spezia. Massera era interessato a una fornitura di fregate Lupo e di apparecchiature missilistiche, ma al suo arrivo aveva trovato uno sciopero indetto dai sindacati per denunciare le violenze della dittatura di Buenos Aires. Ho letto che l'episodio aveva mandato Massera su tutte le furie.
I fatti sono un po' diversi. Era stata preparata una protesta, è vero. Ma ne eravamo stati puntualmente informati. Anche con il giusto anticipo. Tanto da avere il tempo di cambiare programma, dirigerci a un altro stabilimento e vivere l'episodio con un po' d'ironia. I contestatori seppero che non saremmo passati ai cantieri quando eravamo già in viaggio per Roma. Massera sembrava divertito all'idea di aver beffato quanti l'attendevano con gli striscioni e i cartelli. Comunque, detto per inciso, in quell'occasione riuscì a concludere gli affari che gli stavano a cuore. Non comprò solo navi ma ogni genere di armi.
Nel corso della sua attività di diplomatico argentino ha mai incontrato il generale Augusto Pinochet?
Certo, due volte. Ma sempre in occasione di cerimonie ufficiali dove io ero uno dei tanti invitati. Ebbi occasione di parlare un po' più da vicino con Pinochet la sera del ricevimento organizzato da Perón per festeggiare il suo rientro a Buenos Aires, nell'agosto del '73. In quell'occasione conobbi anche Salvator Allende, pure lui tra gli invitati, che rividi poi anche a Cangallo, in visita alla sede della massoneria. Era ancora presidente del Cile, non potevo immaginare che meno di un mese più tardi sarebbe stato ucciso.
Negli anni Settanta scatta l'Operazione Condor: un accordo tra i servizi di sicurezza di Argentina, Cile, Uruguay, Bolivia, Brasile e Paraguay con l'obiettivo comune di combattere il marxismo. Il bilancio di quest'iniziativa parla di 50.000 omicidi, 30.000 desaparecidos - la maggior parte dei quali in Argentina - e 400.000 prigionieri. Lei, che lavorava per il governo argentino, cosa sapeva di tutto questo?
Niente, perché nessuno, in seno al governo argentino, mi parlò mai di questo accordo. Che d'altronde, se quelle erano le sue finalità, credo fosse segreto.
17 - Continua
Dagospia 13 Dicembre 2006