CAFONALINO - MIEI ARDITTI (ROBERTO), LEGGETE "STORIE DI VITTIME DEGLI ANNI DI PIOMBO RACCONTATE DALLE LORO FAMIGLIE" - ARRIVANO TUTTI, DA MARZULLO A MASTELLA.
Foto di Umberto Pizzi da Zagarolo
Alla presenza di Gigi Marzullo, Jas Gawronski, Clemente Mastella, Claudio Scajola, Valeria Licastro e altri ospiti, il fedelissimo collaboratore di Bru-neo Vespa, Roberto Arditti ha presentato nella Sala del Consiglio della Camera di Commercio di Roma, il suo "Obiettivi quasi sbagliati. Storie di vittime degli anni di piombo raccontate dalle loro famiglie" (Sperling & Kupfer).
A seguire un estratto del libro; la storia di Barbara Gori, figlia di Sergio, il manager di Montedison ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980.
Tratto da "Obiettivi quasi sbagliati. Storie di vittime degli anni di piombo raccontate dalle loro famiglie" di Roberto Arditti, (Sperling & Kupfer)
LA CAMICIA GIALLA DI PAPÀ
A un certo punto arriva lo scatolone. Dopo qualche giorno, quando le sensazioni e il dolore cominciano a trovare un posto più definito. Lo scatolone contiene gli oggetti di papà, che qualche giorno prima è stato ammazzato mentre compiva il gesto più normale che segna l'inizio della giornata di lavoro: raggiungere la sua automobile pochi istanti dopo essere uscito di casa.
Papà vive lontano, lavora lontano. Barbara è a Brindisi con la mamma. Papà Sergio è a Mestre, dove fa il manager alla Montedison. Un rapporto forte, quello tra padre e figlia, nonostante la lontananza, nonostante il fatto che papà viva con un'altra donna. Mille telefonate tra i due, con Sergio che scrive lettere dolcissime alla figlia, con Barbara che corre al Nord appena può, come nelle vacanze di Natale appena passate.
Poi d'improvviso le pallottole, il sangue, la morte. E la corsa angosciante fino a Mestre, i funerali, i discorsi. E quelle valanghe di parole che ti scaricano addosso, piene di buoni sentimenti, deboli nella loro incapacità di riparare quello che si è rotto.
A un certo punto Barbara torna in Puglia. Per forza, la sua vita è a Brindisi. Li c'è casa, mamma, la scuola. A 18 anni è quasi un'adulta, ma quel «quasi» è alto come una grattacielo. Passa qualche giorno ed eccolo, lo scatolone. Qualcuno, forse la nuova compagna, riunisce una serie di oggetti di Sergio. Ci sono anche le lettere di Barbara. E c'è lo spazzolino da denti. Ma soprattutto c'è quella camicia gialla. Bellissima, a quadri. Quella camicia che ricorda tanto papà: gli stava benissimo e poi a lui piaceva tanto, se la metteva tutto orgoglioso, costretto com'era a vestiti austeri tutta la settimana per ragioni di lavoro.
Ecco Barbara che apre lo scatolone e trova la camicia. La guarda, la tocca, la sente, si accorge che papà l'ha messa da poco, che non c'è nemmeno stato il tempo di lavarla. Allora Barbara la prova: le piace indossarla, le sta bene. È un modo per stare con papà, con quello che resta di papà.
Barbara mette e rimette la camicia senza lavarla, perché ha addosso l'odore di Sergio. Un odore che è un sentimento, un ricordo, un'emozione. A poco a poco però l'odore cambia. Perché a quello del padre subentra quello della figlia. La camicia c'è, l'odore di Sergio svanisce.
E non si può tornare indietro.
I FATTI
Lo aspettano alle 7.30 del mattino. A Mestre, quella mattina del 29 gennaio 1980, non è ancora del tutto giorno, ma i due brigatisti sono già nel cortile dello stabile dove abita Silvio Gori, in viale Garibaldi 94, in pieno centro. Sono in due, hanno il volto coperto da sciarpe bianche e sono armati: una pistola calibro 7,65 con il silenziatore. Un altro complice, una donna, li aspetta in strada, su una 128 rossa.
Gori ha 48 anni, all'anagrafe si chiama Silvio, ma tutti lo chiamano Sergio. Alle spalle ha un matrimonio concluso cinque anni prima, una città, Brindisi, e una moglie, Tatiana. Laureato in chimica a Bologna, entra in Montedison e fa una bella carriera, che lo porta a vari trasferimenti: prima a Ferrara, poi a Ottana, in Sardegna, e infine in Veneto.
Negli ultimi anni si sposta a Mestre, dove lavora allo stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, con la mansione di vicedirettore tecnico alla produzione. Nella nuova città si trova bene, gli piace anche la via dove abita, viale Garibaldi, la strada elegante della cittadina, con quei tigli maestosi sopravvissuti alla speculazione edilizia. È ben visto dai suoi operai, apprezzato per la sua simpatia, la capacità di comprendere le ragioni di chi lavora con lui. Tanti giorni di fatica, qualche progetto, qualche speranza sono tutti nei sorrisi cordiali del vicedirettore.
Tutti lo conoscono anche per la passione per il tennis, che però ha dovuto abbandonare da un anno a causa di un infarto. Una passione che il vicedirettore del Petrolchimico ha trasmesso a sua figlia. In Veneto Silvio - o «Sergio» - ha anche incontrato una donna con cui ha cominciato una nuova vita di coppia, Mariella Scantamburlo. Eppure nel suo attico al quinto piano vive da solo.
Da solo esce dal portone di viale Garibaldi quella mattina del 1980, gira a sinistra, fa sette, otto passi e si ferma davanti alla catenella che sbarra l'accesso al cortile di casa: toglie le chiavi dalla tasca dei pantaloni, apre il lucchetto ed entra nello spiazzo interno. Proprio sul fondo, a non molta distanza dall'unico albero, ha parcheggiato la sua Fiat 500 color crema. Sergio cammina verso l'auto, a destra ha la cancellata che dà sulla strada, oltre la quale c'è la villetta di un medico. A sinistra la facciata laterale del suo palazzo, per una quindicina di metri. Dietro l'angolo, coperta allo sguardo del chimico, un'Alfetta parcheggiata.
I terroristi lo aspettano lì. Non dicono una parola quando lo vedono avvicinarsi alla sua auto. Entrano in azione. Sparano uno, due colpi al petto, il rumore è di due schiocchi di frusta. Un terzo proiettile va a vuoto, mentre Gori, ferito si accascia. Poi qualcosa non funziona, l'arma si inceppa. Ma il killer, come in uno stato di trance, non desiste. La sua mano tira indietro il carrello, fa cadere un proiettile che rotola giù per terra, inesploso. Ora l'arma può sparare di nuovo e così parte un colpo, che sfiora appena l'uomo ormai a terra, bocconi, il sangue che si spande sull'asfalto.
Una donna sta vedendo tutto dalla finestra di casa sua. Sente un urlo disumano. Un «no» lungo, disperato. Vede gli occhi sbarrati di paura di Silvio Gori e, con tutta la forza che ha, grida: «Cosa fate? Siete matti?» L'assassino però continua la sua missione di morte, con freddezza. Mette un piede sotto il corpo del ferito e lo gira a faccia in su. Questa volta non vuole sbagliare, si avvicina. È a pochi centimetri dal volto di Silvio Gori quando spara il sesto colpo. Quello di grazia, esploso in piena faccia, a devastare il viso di un uomo che probabilmente sarebbe morto lo stesso in pochi minuti.
I due killer si allontanano senza fretta, attraversano viale Garibaldi e si infilano nell'auto dove la complice li sta aspettando.
Poi un telo bianco sul corpo di Gori, con sopra una rosa. E le parole di Mariella, ripetute all'infinito: «Silvio mio no, no, no...»
Dagospia 07 Dicembre 2007
Alla presenza di Gigi Marzullo, Jas Gawronski, Clemente Mastella, Claudio Scajola, Valeria Licastro e altri ospiti, il fedelissimo collaboratore di Bru-neo Vespa, Roberto Arditti ha presentato nella Sala del Consiglio della Camera di Commercio di Roma, il suo "Obiettivi quasi sbagliati. Storie di vittime degli anni di piombo raccontate dalle loro famiglie" (Sperling & Kupfer).
A seguire un estratto del libro; la storia di Barbara Gori, figlia di Sergio, il manager di Montedison ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980.
Tratto da "Obiettivi quasi sbagliati. Storie di vittime degli anni di piombo raccontate dalle loro famiglie" di Roberto Arditti, (Sperling & Kupfer)
LA CAMICIA GIALLA DI PAPÀ
A un certo punto arriva lo scatolone. Dopo qualche giorno, quando le sensazioni e il dolore cominciano a trovare un posto più definito. Lo scatolone contiene gli oggetti di papà, che qualche giorno prima è stato ammazzato mentre compiva il gesto più normale che segna l'inizio della giornata di lavoro: raggiungere la sua automobile pochi istanti dopo essere uscito di casa.
Papà vive lontano, lavora lontano. Barbara è a Brindisi con la mamma. Papà Sergio è a Mestre, dove fa il manager alla Montedison. Un rapporto forte, quello tra padre e figlia, nonostante la lontananza, nonostante il fatto che papà viva con un'altra donna. Mille telefonate tra i due, con Sergio che scrive lettere dolcissime alla figlia, con Barbara che corre al Nord appena può, come nelle vacanze di Natale appena passate.
Poi d'improvviso le pallottole, il sangue, la morte. E la corsa angosciante fino a Mestre, i funerali, i discorsi. E quelle valanghe di parole che ti scaricano addosso, piene di buoni sentimenti, deboli nella loro incapacità di riparare quello che si è rotto.
A un certo punto Barbara torna in Puglia. Per forza, la sua vita è a Brindisi. Li c'è casa, mamma, la scuola. A 18 anni è quasi un'adulta, ma quel «quasi» è alto come una grattacielo. Passa qualche giorno ed eccolo, lo scatolone. Qualcuno, forse la nuova compagna, riunisce una serie di oggetti di Sergio. Ci sono anche le lettere di Barbara. E c'è lo spazzolino da denti. Ma soprattutto c'è quella camicia gialla. Bellissima, a quadri. Quella camicia che ricorda tanto papà: gli stava benissimo e poi a lui piaceva tanto, se la metteva tutto orgoglioso, costretto com'era a vestiti austeri tutta la settimana per ragioni di lavoro.
Ecco Barbara che apre lo scatolone e trova la camicia. La guarda, la tocca, la sente, si accorge che papà l'ha messa da poco, che non c'è nemmeno stato il tempo di lavarla. Allora Barbara la prova: le piace indossarla, le sta bene. È un modo per stare con papà, con quello che resta di papà.
Barbara mette e rimette la camicia senza lavarla, perché ha addosso l'odore di Sergio. Un odore che è un sentimento, un ricordo, un'emozione. A poco a poco però l'odore cambia. Perché a quello del padre subentra quello della figlia. La camicia c'è, l'odore di Sergio svanisce.
E non si può tornare indietro.
I FATTI
Lo aspettano alle 7.30 del mattino. A Mestre, quella mattina del 29 gennaio 1980, non è ancora del tutto giorno, ma i due brigatisti sono già nel cortile dello stabile dove abita Silvio Gori, in viale Garibaldi 94, in pieno centro. Sono in due, hanno il volto coperto da sciarpe bianche e sono armati: una pistola calibro 7,65 con il silenziatore. Un altro complice, una donna, li aspetta in strada, su una 128 rossa.
Gori ha 48 anni, all'anagrafe si chiama Silvio, ma tutti lo chiamano Sergio. Alle spalle ha un matrimonio concluso cinque anni prima, una città, Brindisi, e una moglie, Tatiana. Laureato in chimica a Bologna, entra in Montedison e fa una bella carriera, che lo porta a vari trasferimenti: prima a Ferrara, poi a Ottana, in Sardegna, e infine in Veneto.
Negli ultimi anni si sposta a Mestre, dove lavora allo stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, con la mansione di vicedirettore tecnico alla produzione. Nella nuova città si trova bene, gli piace anche la via dove abita, viale Garibaldi, la strada elegante della cittadina, con quei tigli maestosi sopravvissuti alla speculazione edilizia. È ben visto dai suoi operai, apprezzato per la sua simpatia, la capacità di comprendere le ragioni di chi lavora con lui. Tanti giorni di fatica, qualche progetto, qualche speranza sono tutti nei sorrisi cordiali del vicedirettore.
Tutti lo conoscono anche per la passione per il tennis, che però ha dovuto abbandonare da un anno a causa di un infarto. Una passione che il vicedirettore del Petrolchimico ha trasmesso a sua figlia. In Veneto Silvio - o «Sergio» - ha anche incontrato una donna con cui ha cominciato una nuova vita di coppia, Mariella Scantamburlo. Eppure nel suo attico al quinto piano vive da solo.
Da solo esce dal portone di viale Garibaldi quella mattina del 1980, gira a sinistra, fa sette, otto passi e si ferma davanti alla catenella che sbarra l'accesso al cortile di casa: toglie le chiavi dalla tasca dei pantaloni, apre il lucchetto ed entra nello spiazzo interno. Proprio sul fondo, a non molta distanza dall'unico albero, ha parcheggiato la sua Fiat 500 color crema. Sergio cammina verso l'auto, a destra ha la cancellata che dà sulla strada, oltre la quale c'è la villetta di un medico. A sinistra la facciata laterale del suo palazzo, per una quindicina di metri. Dietro l'angolo, coperta allo sguardo del chimico, un'Alfetta parcheggiata.
I terroristi lo aspettano lì. Non dicono una parola quando lo vedono avvicinarsi alla sua auto. Entrano in azione. Sparano uno, due colpi al petto, il rumore è di due schiocchi di frusta. Un terzo proiettile va a vuoto, mentre Gori, ferito si accascia. Poi qualcosa non funziona, l'arma si inceppa. Ma il killer, come in uno stato di trance, non desiste. La sua mano tira indietro il carrello, fa cadere un proiettile che rotola giù per terra, inesploso. Ora l'arma può sparare di nuovo e così parte un colpo, che sfiora appena l'uomo ormai a terra, bocconi, il sangue che si spande sull'asfalto.
Una donna sta vedendo tutto dalla finestra di casa sua. Sente un urlo disumano. Un «no» lungo, disperato. Vede gli occhi sbarrati di paura di Silvio Gori e, con tutta la forza che ha, grida: «Cosa fate? Siete matti?» L'assassino però continua la sua missione di morte, con freddezza. Mette un piede sotto il corpo del ferito e lo gira a faccia in su. Questa volta non vuole sbagliare, si avvicina. È a pochi centimetri dal volto di Silvio Gori quando spara il sesto colpo. Quello di grazia, esploso in piena faccia, a devastare il viso di un uomo che probabilmente sarebbe morto lo stesso in pochi minuti.
I due killer si allontanano senza fretta, attraversano viale Garibaldi e si infilano nell'auto dove la complice li sta aspettando.
Poi un telo bianco sul corpo di Gori, con sopra una rosa. E le parole di Mariella, ripetute all'infinito: «Silvio mio no, no, no...»
Dagospia 07 Dicembre 2007