IL 2007 SE N'E' ANDATO PORTANDOSI VIA IL GENIO DI ETTORE SOTTSASS
MAESTRO DI ARCHI-DESIGN, MAESTRO DI VITA ("NON C'E' DA CAPIRE C'E' DA AMARE")
UN FIORE PER MUOVERE L'ARIA, UN SOTTSASS PER METTERE TUTTO SOTTOSOPRA
MAESTRO DI ARCHI-DESIGN, MAESTRO DI VITA ("NON C'E' DA CAPIRE C'E' DA AMARE")
UN FIORE PER MUOVERE L'ARIA, UN SOTTSASS PER METTERE TUTTO SOTTOSOPRA
Da "La Stampa"
È morto ieri nella sua casa di Milano Ettore Sottsass, uno dei più importanti architetti e designer contemporanei. Nato a Innsbruck nel 1917, Sottsass, che è stato anche urbanista, pittore e fotografo, si è spento all'età di novanta anni, che aveva compiuto il 14 settembre scorso, per uno scompenso cardiaco durante un'influenza. Per volontà dello stesso Sottsass non ci saranno funerali religiosi; il designer sarà cremato mercoledì prossimo.
Laureato in architettura al Politecnico di Torino nel 1939, inizia la sua attività a Milano, dove nel 1947 apre un proprio studio di design. Dalla fine degli anni Cinquanta inizia la sua collaborazione con la Olivetti, per cui progetta, tra l'altro, la calcolatrice Logos 27 (1963), le macchine da scrivere Praxis 48 (1964), la Valentina (con Perry King) e il sistema per ufficio Synthesis (1973), il mainframe Elea 9003, per cui vincerà il Compasso d'oro. La sua ricerca artistica, etica ed esistenziale l`ha portato a contatto col Razionalismo, il Movimento Arte Concreta, lo Spazialismo, la cultura Pop. Ed è attorno agli anni Ottanta che fonda con architetti di livello internazionale il gruppo Memphis assieme a Michele de Lucchi, Hans Hollein, Arata Isozaki, Andrea Branzi.
Sottsass è considerato una figura centrale del design internazionale che ha espresso la sua capacità innovativa soprattutto nella progettazione di mobili. «Per me - ha scritto il grande architetto - il design è un modo di discutere la vita. È un modo di discutere la società, la politica, l`erotismo, il cibo e persino il design. Infine, è un modo di costruire, una possibile utopia figurativa o di costruire una metafora della vita. Certo, per me il design non è limitato dalla necessità di dare più o meno forma a uno stupido prodotto destinato a un`industria più o meno sofisticata; per cui, se devi insegnare qualcosa sul design, devi insegnare prima di tutto qualcosa sulla vita e devi insistere anche spiegando che la tecnologia è una delle metafore della vita».
ETTORE TI VOGLIO BENE - IL GENIO DI SOTTSASS FA 90 CON UNA MOSTRA A TRIESTE...
Enrico Regazzoni per "la Repubblica"
Intervista del 05 Dicembre 2007
Ettore Sottsass, o della facilità. A incontrarlo nella sua casa milanese, a sentirlo parlare con la calma e la semplicità che lo hanno fatto amare non meno delle sue opere, a vedere con quale garbo respinge gli acciacchi dei suoi novant´anni (è nato a Innsbruck nel 1917), sembra che sia facilissimo diventare un architetto di riferimento per tante generazioni, riempire il mondo di oggetti colorati, attraversare la lunga vita restituendo felicità. Ora una grande mostra lo festeggia a Trieste (ideata e curata da Alessio Bozzer, Beatrice Mascellani e Marco Minuz, apre oggi al Salone degli Incanti dell´ex Pescheria, catalogo Electa).
Centotrenta opere organizzate in sette aree tematiche, dall´architettura al design, alla fotografia, al gioiello, al disegno, e un titolo che fa da stemma all´appassionata curiosità che ha sempre spinto il lavoro di Sottsass: "Vorrei sapere perché". Lui minimizza, quasi si parlasse di un altro. E se lo si interroga sul segreto di tanta facilità, taglia corto: «Ho un buon carattere. E, senza presunzione, sono coraggioso».
Ragionando d´architettura, lei chiama spesso in causa i sentimenti. E´ sempre stato così forte il carico emotivo del suo lavoro o è cresciuto con gli anni?
«Tutto è iniziato dopo la guerra, è allora che ho cominciato a reagire alla razionalità del moderno. La speranza chi ci fosse una verità da qualche parte ha fatto crescere il valore dei sensi, anche perché da giovane ho vissuto una vita molto sensoriale nei boschi, qualcosa di diverso da ciò che insegnavano i grandi maestri, Le Corbusier e compagni. Amavo moltissimo questi maestri, ma ciò che dicevano non mi bastava».
Quando accenna a questa sensorialità, emerge sempre la figura di suo padre.
«Mio padre era un architetto del genio civile, in Trentino, e si occupava della ricostruzione dei paesi distrutti dalla Prima guerra mondiale. Così da bambino avevo a che fare con mattoni e pietre, con le cose più che con la geometria e le misure. La mia vita correva parallela a quella dei maestri del razionalismo, ma su un altro binario. Leggevo tantissimo, inseguivo la commozione, cercavo un rapporto fra l´architettura e la vita, perché penso che l´architettura sia il disegno di un luogo da abitare, e non da guardare, come la gran parte delle architetture che si fanno adesso».
Ecco, a lei che ha professato una specie di intimismo, e che ha spezzato ogni grande progetto in cento piccoli progetti, che effetto fa l´attuale architettura d´immagine, carica di tecnologia e ansiosa di stupire?
«Nessun effetto. Vedo le cose di Fuksas per la Fiera di Milano ed è come se guardassi un turacciolo. Sono abituato diversamente».
Accennava alla lettura. Cosa leggeva?
«I russi, da Puskin a Turgenev. Romanzieri della vita, non del romanzo. In seguito mi hanno molto influenzato gli scrittori della beat generation: Corso, Kerouac e soprattutto Ginsberg. Quando mi sono imbattuto in Howl, di Ginsberg, ho sentito che quella non era poesia della poesia, ma poesia della vita. Non so dirlo meglio di così».
Oggi il razionalismo le appare come un dio che ha fallito?
«Fallito no di certo, perché ci ha lasciato tracce profonde di idee. Quello che penso è che non basta. Il razionalismo sperava di andare avanti a misure. Ora, questo tavolo che sto toccando ha senz´altro una misura. Ma soprattutto ha un materiale, una temperatura, un peso: è una cosa, insomma, non una misura. Lo stesso Mies, nel suo padiglione per l´Expo di Barcellona, ha fatto una meravigliosa architettura di linee, superfici, distanze. Ma poi ci ha messo una vasca di acqua ferma. E ci sono poche cose più sensoriali dell´acqua ferma, piena di vermicelli. Al fondo della vasca, poi, c´è la scultura di una donna nuda. E il razionalismo che fine fa? L´acqua è imprendibile, mentre il razionalismo voleva essere prendibile. E la donna nuda non è misurabile».
Che effetto le fa la parola postmoderno?
«Non è quello che si pensa. E´ un tentativo americano di trovare una zona autoctona nella loro architettura. Di darsi una storia. Loro erano molto interessati alle farm, tipo Shaker, e il libro che lanciò questo termine si intitolava Learning from Las Vegas, come dire: abbiamo anche noi qualcosa da insegnare. E riguardava tutta questa parte dell´architettura, fino alla presenza dei modelli palladiani nell´architettura governativa americana».
Perché i suoi oggetti hanno sempre una base?
«Per mettere gli oggetti in un loro spazio, che non avrebbero se fossero appoggiati per terra. Se li alzi, si separano dallo spazio, si affermano. Ma la base non l´ho inventata io, basta pensare alle sculture greche, o a quelle romane».
E la funzione dell´oggetto? Lei ha sempre sostenuto che il suo funzionalismo è nella speranza, affidata all´oggetto, che trovi una sua funzione.
«Lo dico ancora adesso. Un´automobile posteggiata è un oggetto spaventoso, ci vuole uno che la faccia andare. Vale per tutti gli oggetti. Ai tempi di Memphis tutti mi dicevano: questo scaffale è obliquo, manca la funzionalità. Ma lo scaffale non ha funzionalità, è chi lo usa che deve trovarla. Con i fiori siamo sempre nei guai, i vasi sono troppo piccoli o troppo corti. Ma non è colpa dei vasi. Tra l´altro, c´è ancora l´abitudine settecentesca di mandare troppi fiori. Basta un fiore per muovere l´aria».
Dice anche di non essere religioso, ma interessato al problema della sacralità. Un progetto può accollarsi il peso del sacro?
«Il concetto di sacro è indecifrabile. La sensazione del sacro l´ho avuta particolarmente in India, con certi templi di pietra nera. Ma il sacro non riguarda tanto gli oggetti, quanto la vita umana. Anzi, le vite. Guardi questa foto del tempio di Keshava a Somnathpur. Intanto è su una base, poi ha diversi momenti, alcuni più pubblici, altri più nascosti. Si resta a bocca aperta».
C´è qualche suo oggetto che le sembra lontano? Che so, molti collegano il suo nome alla portatile Valentina...
«Lo so, ed è un abbinamento del quale sono stufo. Ma non c´è un oggetto che rifiuti. Tutti hanno avuto un loro momento, ogni materiale ha vissuto la sua stagione: il legno, la ceramica, i vetri. Sono anche occasioni. Le ceramiche, per esempio, le ho fatte in un momento in cui non avevo una lira. Ultimamente mi sono divertito a fare dei vetri: materiale strano, trasparente, è uno spettacolo quando esce. Mi è venuta una passione per la fragilità. E non solo fisica, anche progettuale».
E i colori? Anche i suoi colori hanno avuto un loro percorso, negli anni.
«Certamente. Da ragazzo, inevitabilmente mi interessavano i colori puri. Freschi, allegri. Poi ho cominciato a mescolarli, a cercarne di più sofisticati. Come accade con le parole: quando invecchi le cerchi più giuste, anche se meno immediate».
Non si sente in colpa, per non avere mai insegnato?
«Non c´è niente da insegnare. Si possono avere allievi a bottega, e dare grandi sberle. Il mio grande maestro è stato un pittore, Spazzapan. Non mi spiegava mai qualcosa, faceva discorsi circolari: per cui, se avevo voglia e se ero capace, imparavo. I veri maestri ti danno dei perimetri. Poi sei tu che devi muoverti, lì dentro».
Recentemente ha detto che in giro vede molti edifici e poche architetture. Può fare il nome di qualche architetto?
«Io distinguo fra edilizia e architettura. In una città come Milano ci sono moltissime case costruite per edilizia, cioè su basi standard. Qualche nome di architetto? Aldo Rossi, Gardella, Muzio, mio professore e costruttore nel senso più alto del termine».
Radici viennesi e viaggi. Cosa ha contato di più, nella sua storia?
«Hanno contato entrambi, e molto. I viaggi, in particolare, dovrebbero servire a uscire dalla condizione scolastica, qualunque essa sia. Alla fine sommi le esperienze, le visioni, le emozioni, e diventi tu. Con Barbara una volta in Tailandia ci fermammo sulle rive di un grande fiume. Il caldo era atroce, e avevamo fame. Ci portarono un samovar bollente, con pesce lesso e piccante, e una specie di liquore, anch´esso caldo. Sulla riva i bambini giocavano e le donne si lavavano. Allora, forse drogato dal calore, forse ubriaco, dissi alla mia compagna: ora mi ammazzo. Lei fu sorpresa, e mi domandò perché. Perché non sarò mai più felice come adesso, risposi».
Un´ultima cosa: perché sostiene di non avere un´idea di bellezza?
«Perché so soltanto che la bellezza è una convenzione: fra noi due, fra nazioni, fra periodi storici. Ci si mette d´accordo su cosa è bello, di nascosto. Se dipingi una madonna con bambino, bene o male sei nella zona della bellezza. Ma bisogna anche dire che nella prima sala degli Uffizi ti metti a piangere davvero. Non so se sia per la bellezza o per il sacro. So solo che non puoi sottrarti».
In definitiva, si sente capito o solo venduto?
«Mah, io ho molti amici. Voglio dire che non c´è da capire, ma da amare».
Dagospia 01 Gennaio 2008