MEA CULPA, MEA MAXIMA CULPA. NON TI VOTANO NEMMENO LE SUORE
L'ABORTO, GUAI A CHI LO TOCCA: ORMAI È UN DIRITTO SOCIALE COME LA PENSIONE
NON ERA IL MOMENTO: AVEVA RAGIONE BERLUSCONI, SONO UN SIGNOR TESTONE
L'ABORTO, GUAI A CHI LO TOCCA: ORMAI È UN DIRITTO SOCIALE COME LA PENSIONE
NON ERA IL MOMENTO: AVEVA RAGIONE BERLUSCONI, SONO UN SIGNOR TESTONE
Giuliano Ferrara per "Panorama"
In campagna elettorale mi sono tenuto fuori dalla vanità, per rispetto dei lettori, e ho parlato d'altro in questa rubrica. Ma adesso che la mia lista per la vita e contro l'aborto ha rimediato un risultato disastroso mi concedo qualche riga «per fatto personale». Le elezioni sono un giudice severo, anzi impietoso, per chi sbaglia.
Sono stato, come mi aveva detto Silvio Berlusconi rifiutando ogni apparentamento con un'iniziativa impopolare, un Signor Testone. Non era il momento, non era il modo per buttare in politica, nella forma solitaria di una lista, la questione del maltrattamento della vita umana, che è la frontiera principale nella vita civile dell'Occidente in questo secolo.
Tutto lo spazio di interesse, di allarme etico, di simpatia per la vita e di sospetto per l'uso manipolativo che ne facciamo, uno spazio che c'è a parole, o che si può esprimere nella rinuncia a votare un referendum come quello sulla legge per la fecondazione artificiale, scompare di fronte al voto politico, di fronte a un'iniziativa solitaria, inventata da una personalità controversa e divisiva come la mia, perseguita con un tentativo di rigore logico e culturale che è del tutto estraneo alle passioni della lotta per il potere.
Non ti votano nemmeno le suore, altro che «dichiarazione di guerra della Conferenza episcopale allo stato laico», come scrisse Eugenio Scalfari all'atto di presentazione della lista. Aborto? No, grazie. Per non averlo capito, per aver voluto forzare le cose, che è un tratto costante del mio carattere, mea culpa, mea maxima culpa.
Trovare spiegazioni a una sconfitta di queste proporzioni equivale, per chi la subisca in prima persona e per sua responsabilità, a correre il rischio mortale e grottesco dell'autoindulgenza. Dunque non lo farò. Però dirò quel che mi sembra di aver capito, troppo tardi e quando tutto era diventato irrimediabile, anche nelle riunioni elettorali migliori, più affollate, più allegre e combattive.
Non è questione di cattolici o laici, di Nord o di Sud, di sociologia del voto, la realtà è che l'aborto è davvero diventato un diritto sociale diffuso, come le pensioni o il servizio sanitario nazionale, e metterlo in discussione, con tutte le inutili precisazioni sul fatto che non vuoi cancellare la libertà di scelta, ma realizzarla con politiche pubbliche e scelte private a favore della vita umana, è come violare un tabù.
Ero scioccamente convinto del contrario. Pensavo che ci fosse stanchezza e che i fatti, cioè la diffusione dell'aborto come contraccettivo di massa moralmente indifferente e la sua deriva eugenetica parlassero da soli. Pensavo che bastasse esporli e interpretarli, traendo vantaggio da una democrazia che in fondo ti consente, non senza fatica, di presentarti alle elezioni e di accedere ai mezzi di comunicazione e di fare, fronteggiando qualche aggressività di troppo ma ben protetto dalle forze dell'ordine, una campagna di persuasione democratica, in competizione con passioni che a me sembravano vecchie e senza idee.
Invece, dopo tanti anni dalla sua diffusione come pratica legale e gratuita, come soluzione possibile alla gravidanza intesa come dramma sociale e individuale, l'aborto è diventato una trincea di libertà personale alla quale uomini e donne, a pari merito, non intendono assolutamente rinunciare.
È il compagno segreto, che magari non si ospita volentieri, che non si rivendica altro che come tragedia o dramma, e che però teniamo nella stiva della nostra conradiana navigazione morale. Per me la vita maltrattata, e l'aborto con le sue cifre spaventose ne è il centro, resta uno scandalo intollerabile. Ma è il clandestino a bordo del nostro tempo secolare, e guai a chi lo tocca.
Dagospia 17 Aprile 2008
In campagna elettorale mi sono tenuto fuori dalla vanità, per rispetto dei lettori, e ho parlato d'altro in questa rubrica. Ma adesso che la mia lista per la vita e contro l'aborto ha rimediato un risultato disastroso mi concedo qualche riga «per fatto personale». Le elezioni sono un giudice severo, anzi impietoso, per chi sbaglia.
Sono stato, come mi aveva detto Silvio Berlusconi rifiutando ogni apparentamento con un'iniziativa impopolare, un Signor Testone. Non era il momento, non era il modo per buttare in politica, nella forma solitaria di una lista, la questione del maltrattamento della vita umana, che è la frontiera principale nella vita civile dell'Occidente in questo secolo.
Tutto lo spazio di interesse, di allarme etico, di simpatia per la vita e di sospetto per l'uso manipolativo che ne facciamo, uno spazio che c'è a parole, o che si può esprimere nella rinuncia a votare un referendum come quello sulla legge per la fecondazione artificiale, scompare di fronte al voto politico, di fronte a un'iniziativa solitaria, inventata da una personalità controversa e divisiva come la mia, perseguita con un tentativo di rigore logico e culturale che è del tutto estraneo alle passioni della lotta per il potere.
Non ti votano nemmeno le suore, altro che «dichiarazione di guerra della Conferenza episcopale allo stato laico», come scrisse Eugenio Scalfari all'atto di presentazione della lista. Aborto? No, grazie. Per non averlo capito, per aver voluto forzare le cose, che è un tratto costante del mio carattere, mea culpa, mea maxima culpa.
Trovare spiegazioni a una sconfitta di queste proporzioni equivale, per chi la subisca in prima persona e per sua responsabilità, a correre il rischio mortale e grottesco dell'autoindulgenza. Dunque non lo farò. Però dirò quel che mi sembra di aver capito, troppo tardi e quando tutto era diventato irrimediabile, anche nelle riunioni elettorali migliori, più affollate, più allegre e combattive.
Non è questione di cattolici o laici, di Nord o di Sud, di sociologia del voto, la realtà è che l'aborto è davvero diventato un diritto sociale diffuso, come le pensioni o il servizio sanitario nazionale, e metterlo in discussione, con tutte le inutili precisazioni sul fatto che non vuoi cancellare la libertà di scelta, ma realizzarla con politiche pubbliche e scelte private a favore della vita umana, è come violare un tabù.
Ero scioccamente convinto del contrario. Pensavo che ci fosse stanchezza e che i fatti, cioè la diffusione dell'aborto come contraccettivo di massa moralmente indifferente e la sua deriva eugenetica parlassero da soli. Pensavo che bastasse esporli e interpretarli, traendo vantaggio da una democrazia che in fondo ti consente, non senza fatica, di presentarti alle elezioni e di accedere ai mezzi di comunicazione e di fare, fronteggiando qualche aggressività di troppo ma ben protetto dalle forze dell'ordine, una campagna di persuasione democratica, in competizione con passioni che a me sembravano vecchie e senza idee.
Invece, dopo tanti anni dalla sua diffusione come pratica legale e gratuita, come soluzione possibile alla gravidanza intesa come dramma sociale e individuale, l'aborto è diventato una trincea di libertà personale alla quale uomini e donne, a pari merito, non intendono assolutamente rinunciare.
È il compagno segreto, che magari non si ospita volentieri, che non si rivendica altro che come tragedia o dramma, e che però teniamo nella stiva della nostra conradiana navigazione morale. Per me la vita maltrattata, e l'aborto con le sue cifre spaventose ne è il centro, resta uno scandalo intollerabile. Ma è il clandestino a bordo del nostro tempo secolare, e guai a chi lo tocca.
Dagospia 17 Aprile 2008