VIVERE, E BENE, IN UN MONDO VIRTUALE - A ROMA WILLIAM GIBSON, IL SIMBOLO DEL CIBERSPAZIO - L'11 SETTEMBRE? PUR SCRIVENDO DI FANTASCIENZA, NON AVREI MAI CREDUTO POSSIBILE UN EVENTO DEL GENERE.

Antonio Caronia per "l'Unità"

William Gibson non è stato l'inventore del cyberpunk (che negli anni Ottanta dovette il suo nome allo scrittore Bruce Bethke e al critico Gardner Dozois, e la sua strategia di penetrazione mediatica a Bruce Sterling), ma ne è stato indubbiamente il simbolo e lo scrittore più rappresentativo.

Sessant'anni, statunitense di origine ma da quarant'anni in Canada - dove si trasferì per sfuggire all'arruolamento che l'avrebbe sicuramente portato in Vietnam - quest'uomo riservato e gentile, incredibilmente alto e dallo sguardo incredibilmente penetrante, ha saputo forse più di ogni altro scrittore di quel campo rinnovare la fantascienza e portarla ai suoi confini più estremi, descrivendo un mondo che in meno di trent'anni è diventato, da un futuro stravagante e inquietante, un presente forse non così stravagante ma altrettanto inquietante.

La cosiddetta «trilogia dello Sprawl» ("Negromante", del 1984, "Giù nel ciberspazio", del 1986, "Monna Lisa cyberpunk", del 1988) parlava di un mondo in cui la tecnologia digitale era diventata pervasiva e invasiva, il potere politico si era ritirato sullo sfondo per fare posto a quello economico (il potere delle multinazionali, le zaibatsu, e già il nome diceva quanto quel mondo si fosse «giapponesizzato»), e nell'esperienza degli esseri umani la dimensione fisica e quella virtuale erano sempre più sovrapposte e intercambiabili.

Un mondo di cyborg e di Intelligenze Artificiali, di trafficanti di software illegale e di «cowboy del ciberspazio», che sembrava la versione aggiornata della San Francisco e della Los Angeles maledette cantate negli anni Quaranta da Raymond Chandler e Ross McDonald. Poi, nel 1990, venne "La macchina della differenza", scritto a quattro mani con Sterling, racconto di una bizzarra Gran Bretagna ottocentesca «steampunk» (cyberpunk a vapore) in cui Disraeli era uno scrittore di fantascienza, Byron primo ministro e Babbage aveva davvero costruito la sua «macchina analitica», cioè un computer meccanico.

Quel romanzo chiudeva definitivamente l'epoca e il movimento cyberpunk, e per Gibson cominciava una lunga via verso una scrittura che, senza rinunciare al suo sguardo penetrante sugli effetti della tecnologia, abbandonasse anche le ultime trasparenti proiezioni futuristiche per descrivere l'avvicinamento del futuro al presente, il collasso, per dirla con Baudrillard, dell'immaginario sul reale.

Negli anni Novanta "Luce virtuale", "Idoru", "American Akropolis", furono altrettante tappe, più o meno convincenti, di quella marcia, finché, nel 2003, arrivò un nuovo Gibson con "Pattern Recognition" (pubblicato in Italia con il fuorviante titolo "L'accademia del sogni") e, quattro anni dopo, con "Spook Country", appena uscito in Italia col titolo altrettanto improbabile di "Guerrero".

In questi due romanzi (collegati tra loro dalla presenza di un personaggio comune), Gibson non ci parla solo di mafie internazionali alla ricerca di segreti, dell'uso «politico» ed economico dell'arte e del design, di un mondo dominato (come quello di Breat Easton Ellis) dalla presenza avvolgente dei brand e delle griffes, ma anche della coscienza inquieta e ferita dell'America e del mondo occidentale dopo l'11 settembre. Oggi William Gibson è a Roma per presentare il suo libro, ed è da questa questione che abbiamo voluto cominciare la nostra conversazione con lui.

Lei vive ormai da molti anni a Vancouver. Come le appaiono gli Stati Uniti del dopo 11 settembre visti dal Canada?
«Vivere a Vancouver significa aver fatto un'esperienza molto soft di emigrazione dagli Usa, visto che vivo, per così dire, a due passi da lì. Eppure devo dire che il cambiamento, dopo l'11 settembre, c'è stato ed è molto visibile anche da qui. Mi sono trovato preso in contropiede: pur scrivendo di fantascienza e di tendenze del futuro, in genere, non avrei mai creduto possibile un evento del genere. L'Occidente si trova oggi a dover riflettere in modo traumatico e accelerato su tendenze e modificazioni del presente, sugli effetti della sua storia e della sua presenza nel mondo».



Molti anni fa lei ha inventato non solo una nuova parola, «ciberspazio», ma forse anche un nuovo tipo di spazio, visto che quella parola corrispondeva a nuove esperienze. Lei pensa che il ciberspazio sia oggi scomparso dalla sua narrativa, e, se sì, perché?
«Il ciberspazio è oggi la cosa più pervasiva della nostra vita, quella che occupa più tempo, e non lo dico in senso metaforico, ma letterale. Nel mio nuovo romanzo lo dico molto chiaramente: il più grande cambiamento intervenuto negli ultimi venti, venticinque anni è proprio questo, che ogni cosa che noi facciamo la facciamo in relazione a una dimensione virtuale, con strumenti virtuali. Quando vent'anni fa qualcuno mi chiedeva "cos'è il ciberspazio", io rispondevo "è il posto dove le banche tengono i propri soldi".

Oggi invece tutti tendono a dare per scontata questa dimensione, tutti sappiamo perfettamente che viviamo una parte crescente della nostra esperienza in uno spazio virtuale. Direi quindi che il prefisso "ciber-" è destinato a scomparire molto rapidamente, così come è già quasi sparito il prefisso "elettro-", che pure alla metà del secolo scorso era ancora di uso così comune. Oggi qualsiasi tipo di dispositivo, per definizione, è elettrico, e tutti lo sappiamo. Ma sempre di più gli stessi dispositivi sono oggi anche digitali, e quindi anche questo prefisso scomparirà dal linguaggio».

Come mai i personaggi più memorabili delle sue opere sono donne? Da Molly di «Neuromante» a MonaLisa, da Chevrette Washington di «Luce virtuale» fino alla straordinaria Cayce Pollard di «L'accademia dei sogni», lei crea sempre personaggi femminili molto vivi e presenti. Anche in quest'ultimo, «Guerrero», abbiamo ancora una donna, Hollis Henry, al centro dell'azione. Perché questa scelta?
«Be', grazie per la domanda. La prima cosa che posso rispondere è che quando scrivo mi piace essere in compagnia, ma in buona compagnia. Quindi, per non restare solo, faccio in modo di intrattenere non soltanto il lettore, ma in primo luogo me stesso. E il fatto che i miei personaggi femminili siano interessanti, come lei dice, è qualcosa che serve a farmi divertire e a farmi star bene. Ma c'è un'altra ragione, credo, ed è che, quando ho cominciato a scrivere fantascienza, le cose migliori, a mio parere, le scrivevano delle donne, molto spesso delle femministe radicali, da Joanna Russ a Wonda McIntyre.

Questo ha creato nella mia mente l'idea che fosse positivo descrivere le donne in modo, come ho detto una volta, un po' "illuminista": ho cercato di liberarmi della retorica più consumata del femminismo radicale, ma al tempo di creare dei personaggi femminili forti e consapevoli, che riuscivano a sopravvivere. E ho avuto un riscontro dalle stesse femministe, oltre che dalle lettrici in genere, che spesso hanno mostrato di apprezzare quei personaggi.

Poi, mi ha sempre interessato attrarre un pubblico femminile. C'è voluto del tempo, ma alla fine mi pare di esserci riuscito: forse solo con gli ultimi due romanzi, se è vero, come ha scritto un recensore, che più della metà dei lettori di questi libri sono donne. Sino a quel momento la fila dei lettori che mi chiedevano di firmare le copie dei miei libri era quasi tutta formata da uomini, e le pochissime donne che c'erano mi chiedevano: "Può firmare, per favore? Sa, è un regalo per mio marito.»

Ma forse questo dipende dal fatto che lei è stato a lungo uno scrittore di fantascienza, e la fantascienza, si sa, ha un pubblico prevalentemente maschile.
«Non posso negare di essere uno scrittore di fantascienza, per nascita, direi. Ma non sono un nazionalista, e neanche un esclusivista. Quindi non sono affezionato per forza a tutte le convenzioni del genere».

In tutti i suoi romanzi, ma più specificamente negli ultimi, trovo tre questioni fondamentali: il linguaggio, la libertà, il controllo. Lei, come tutti i romanzieri, usa il linguaggio come uno strumento di libertà, ma il linguaggio oggi, soprattutto quello informatico, sembra più uno strumento di controllo. Qual è l'equilibrio fra libertà e controllo nella società contemporanea? E come può una persona, anche uno che non sia scrittore, usare il linguaggio come strumento di libertà e non di controllo?
«È vero che le tecniche digitali producono una situazione in cui ognuno di noi lascia tracce in ogni serie di operazioni, ogni acquisto, ogni relazione, ogni contatto sulla rete. Per lo stato sarà sempre più facile controllare i cittadini. Ma è anche vero che neppure il potere può sfuggire a questa situazione, e per la stessa ragione anche lo stato avrà sempre più difficoltà a mantenere i segreti. Anche per i potenti, se oggi ti comporti male, la storia lo saprà, e non fra vent'anni, ma fra due giorni. E quanto 15 o 20 anni fa era impensabile. Quindi, più trasparenza, che per certi versi significa più onestà. E nessuno potrà dire "non lo sapevamo"».



Dagospia 27 Maggio 2008