POESIE DA MATTI - UNA STRUGGENTE LETTERA DI ALDA MERINI AL PROPRIO MEDICO, QUANDO LA POETESSA ERA RICOVERATA IN MANICOMIO - "IL MIO EQUILIBRIO È SANO, MA OCCORRE CHE LASCI LIBERO SFOGO ALLE LACRIME".

1 - LA POESIA IN MANICOMIO.
Antonio Gnoli per "la Repubblica"

Per Alda Merini fu il tempo della segregazione e della morte civile, quello che non lascia spazio al futuro e ti trascina in un luogo indicibile. Gli anni Sessanta e Settanta furono per la poetessa che tutti ammiriamo il tempo senza pace e della confusione mentale. Alda aveva trentaquattro anni quando entrò la prima volta in manicomio. Giunse all´Istituto Paolo Pini di Affori con una depressione acuta da postparto e il caos nella testa. Vi arrivò furiosa come una erinni. La donna che aveva incantato Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo varcò la linea che separa i vivi dai morti.

Quel passaggio ha lasciato delle tracce importanti e ora viene riportato alla luce grazie alla lettere e ad alcune poesie che furono scritte dalla Merini e indirizzate al dottor Enzo Gabrici, lo psichiatra che la ebbe in cura. Nelle lettere Gabrici è il dottor G, al quale la paziente Merini si rivolge a volte con lucidità, altre ancora con passione. Al centro della scena non c´è solo il poeta, ma anche l´ammalata che racconta i propri sogni, che si interroga sugli psicofarmaci, che implora attenzione al proprio dolore. Più che reclusa, Alda sembra una donna invisibile che chiede al dottor G. di restituirle un corpo e un´anima.

Gabrici ha oggi novantanove anni, al libro della Merini ha accompagnato una breve e affettuosa testimonianza. A un certo punto si legge questa frase: «Nei periodi acuti Alda Merini sognava di essere un uomo, perché in questo vedeva la grandezza del potere contro la fragilità della sua femminilità».

Chiedo alla Merini se si riconosce in quella frase: «Sognare di essere un uomo non è sognare di cambiare sesso, non avrei mai rinunciato alla maternità, per quanti problemi mi abbia provocato il parto. Il mio analista sosteneva che avevo identificato il fallo con la potenza. Ho sempre pensato che sognare di essere un uomo fosse per me più un fatto mentale che fisico. Le donne che nutrono questo tipo di desideri sono anche quelle che più delle altre si rendono conto della sofferenza del dolore, della esposizione alla fragilità del mondo femminile».

Quando parla, la Merini sembra rievocare nella voce l´implorazione di quelle lettere, molto private e al tempo stesso attraversate da un tormento feroce. Perché ha sentito il bisogno di scrivere al dottore che l´aveva in cura? «Perché con quell´uomo ho realizzato un transfert meraviglioso. Lui mi curava con il pentotal ma sapeva anche guardare nel profondo della mia anima. In principio ero molto aggressiva, sospettosa, amareggiata. Mio marito aveva voluto, o meglio preteso, che mi ricoverassi. Per questo l´ho odiato, respinto e poi perdonato. Come si perdona una persona che ha sbagliato ma che hai amato. Tutta la mia letteratura è nata dall´amore per quest´uomo che ho visto in seguito morire».

Alda Merini: dell´amore, della morte. Sono i due poli dentro cui oscilla la sua poesia. Dice: «Il manicomio, il luogo più esterno alla vita, non era fatto solo di pastiglie ed elettroshock, ma di amore. Un sentimento che indirizzavo sulle cose più semplici, sui gesti più elementari. Se uscivo, come a volte accadeva, gli altri matti mi chiedevano di comprargli le sigarette, il vino, la cioccolata. E se mi riusciva di farlo, sentivo che il legame affettivo che la follia a volte crea tra le persone è più forte di quello che ci procura la normalità. Quanto alla morte, a lungo mi ha sfiorata, ho convissuto con la sua assenza, con il timore che si affacciasse e dovessi affrontarla. La morte è stata per me uno strano corpo a corpo, vicina e remota al tempo stesso».

In una lettera del 1970 la Merini accenna a una crisi profonda e al tentativo di suicidio con del chinino. «Quel gesto», dice la poetessa, «nacque dallo sconforto di non sentirsi ricambiata nella passione. Ero innamorata di un giovane medico. E fu un gran tormento per entrambi. Eravamo sposati e nessuno di noi due voleva tradire la propria famiglia. Mettemmo a dura prova i nostri codici morali. Ricordo che immediatamente dopo quel tentativo di suicidio, vidi letteralmente davanti a me l´immagine della morte. Era qualcosa di terrificante. Mi bastò quella visione a darmi la forza di sopravvivere, anche se era una vita appesa al dolore».

Cos´è il dolore per una persona con la sensibilità di un poeta? «La poesia è la forma di intelligenza più prossima al dolore. Ma da dove scaturisce? Se perdi un figlio il dolore è una voragine, ma alla fine anche alle voragini ci si può abituare. Mentre il dolore della malattia mentale è qualcosa che ti urla dentro e non riesce a uscire. Il dolore che ti avvolge in manicomio a volte è solo un pretesto per una condanna più grande, una calunnia del destino, o forse un castigo di Dio. Sono convinta che dal dolore possa nascere una grande passione per l´Aldilà. Si vorrebbe morire, però al tempo stesso si ha la speranza di vivere».

Alda dice di essere stata in manicomio dodici anni in tutto: «A me è accaduto come per quelli che vanno in galera, alla fine non volevo più uscire. Ricordo che a volte, dopo che ero stata dimessa, venivo presa da una disperazione profonda. E non appena avvertivo i primi sintomi di un decadimento mi ripresentavo davanti al portone del Pini e mi riprendevano».

Dice «riprendevano» con un tono di singolare gratitudine. «Del manicomio ho una sensazione ambivalente. La legge Basaglia, che è stata una legge di civiltà, alla fine si è rovesciata nel suo contrario. Vedo in giro molti matti confusi tra i barboni, gli emarginati, i disperati. Non hanno un luogo dove andare. E mi chiedo se quell´antica e terribile istituzione non offrisse a suo modo non dico una risposta ma un riparo agli effetti della follia. Mi hanno raccontato cose orrende accadute nei manicomi: dell´abbrutimento di certe anime, delle torture dei malati, della gente che vi moriva dentro. Ma perché compiacersi del male?».



Forse è solo raccontandolo che lo si può vincere, obietto. «Il male non si può vincere. È una parte cospicua del nostro mondo, attraversa i nostri sguardi, brutalizza la nostra mente e a volte occupa le nostre anime. Ma io dico anche: caro Abele, guai a chi mi tocca Caino. E non si tratta dell´elogio dell´assassinio, della prevaricazione del più forte sul più debole. È che il male ci mette alla prova e insieme ci dà l´occasione di guarire».

Oggi Alda Merini guarda alla guarigione come a un accantonamento del male. Dice proprio così, «accantonamento», come di qualcosa che è stata messa da parte e che un giorno potrà tornare minacciosa e utile. «Per me guarire è stato un modo di liberarmi del passato. Tutto è accaduto in fretta. L´ultima volta che sono stata al Pini mi è accaduta una cosa che non avevo mai provato. Una mattina mi sono svegliata e ho detto: che ci faccio io qui? Così è davvero ricominciata la mia vita. Ho ripreso a scrivere e ho perfino trovato quel successo che non avrei mai pensato di ottenere».

Sul successo Alda ride con voce roca e lenta e poi aggiunge: «Il successo è come l´acqua di Lourdes, un miracolo. La gente applaude, osanna e ti chiedi: ma cosa ho fatto per meritare tutto questo? Penso che la folla, anche piccola, che ti ama ti aiuta a vivere. In fondo un poeta ha anche qualcosa di istrionico e di folle. Per questo il manicomio è stato per me il grande poema di amore e di morte. Ma anche questo luogo oggi è distante. Mi capita a volte di rivederlo in sogno. Io sogno tantissimo. E tra i sogni ne ricorre uno: sono dentro a un luogo chiuso, e io che cerco le chiavi per uscire. Forse sono mentalmente ancora in quel luogo che mi ha ucciso e mi ha fatto rinascere. Mi sento una donna che desidera ancora. Oggi per esempio vorrei che qualcuno mi andasse a comprare le sigarette. Non ho mai smesso di fumare, né di sperare».

2 - "DOTTORE, MI LASCI PIANGERE".
Da "la Repubblica", una lettera di Alda Merini (© 2008 Edizioni Frassinelli)

Egregio professore, so che le è stato riferito che io non prendo «regolarmente» le sue medicine. Naturalmente si tratta dei soliti pettegolezzi di ospedale che purtroppo alle volte rovinano con la loro cattiveria la buona fede di chi crede nella lealtà del prossimo. È vero, qualche volta ho omesso il Nobrium perché non volevo cadere nel solito stato di incoscienza e volevo tenermi un po´ desta, un po´ attiva, ma se mai un ammalato non prendesse i medicamenti prescritti la cosa più grave non è nella omissione degli stessi ma nel proposito, assurdo e malato, di non volere guarire. Chi viene a riferirle queste cose dimostra un animo molto meschino ed io nella mia semplicità ed anche nella mia malattia mi rallegro di non essere tra le file di quelli che si chiamano «spie». [...]

Vede che in questo momento il mio equilibrio è sano, però prima che io possa accedere ad una certa chiarezza occorre che lasci libero sfogo alle lacrime che comprendono tanti e tanti dispiaceri. Ad esempio proprio ieri ho visto un uccellino che giocava nella sabbia, era così tenero, così patetico, che vi ho visto raffigurata la mia creatura. Le parrà assurdo ma lei non può sapere da uomo cosa significa sentirsi palpitare dentro un altro cuore, sentirselo proprio per dei mesi, donarsi ed essere continuamente gratificata da questo amore nuovo che sorge. Come vorrei farglielo intendere e come vorrei pure che ella capisse che tutta la mia confusione altro non è che un grande contenuto dolore, tanto grande, quanto grande può essere la misura di un sacrificio umano.

L´ho stancata per dei mesi e forse lo farò ancora, stamattina mi aveva promesso delle medicine che poi non mi ha prescritte facendomi così intendere che mi trattava da povera esaltata. Ma se il dolore è esaltazione allora posso dire che tutto il genere umano è in questo stato e il mio dolore, il mio lutto per la morte della mia coscienza è il dolore di tutta la nostra povera comunità umana. Non ho fiducia nei medicamenti, no, glielo dico con franchezza, perché in questi mesi non mi sono più rallegrata di nulla e quando una cosa non si prende con quella fiducia che occorre non ha nessun risultato, perché solo la fede è la molla di tutto, guarigioni comprese.

Io per avere questa fede dovrei sentirmi amata e invece anche questa mattina mio marito non è venuto da me; adesso posso dirle sinceramente che malgrado la sua ignoranza, il suo poco sapere, lo amo profondamente e tutto questo amore l´ho gettato sopra di lei perché per anni sono stata frustrata, maltrattata, vilipesa. Caro dottore, da lei non mi aspetto proprio nulla, solo mio marito, con un cenno, un assenso, un atto di comprensione potrà guarirmi ed è proprio in questa direzione che io vorrei dirigerla.

Solo lui potrà, se vorrà, essere il mio medico, altrimenti la mia fine è già segnata. Se vuole aiutarmi è in questo senso che deve muovere la sua abilità. Adesso la lascio, ma ho passato con lei tante ore di calda fiducia, ho conversato, sono penetrata nel suo animo ed ella è penetrata nel mio come un padre. Quando le chiedo qualche cosa però non mi prenda in non cale perché mi vengono in mente adesso i bei versi di padre Davide Turoldo che dicono: «Io non ho mani che mi accarezzino il volto, duro è l´ufficio di queste mie parole».

E se anche ho tanto amato nella mia vita ciò non significa che la società mi debba condannare se nemmeno il Cristo ha condannato Maddalena ma l´ha ammessa fra i suoi seguaci. Perdoni il tempo che le ho rubato. Quando vengo da lei e le do del tu è come se parlassi con un angelo, qualche cosa che solo a me è dato di vedere e di sentire, qualche cosa di incorporeo che non ammette alcun desiderio. Perciò mi tenga per scusata.


Dagospia 27 Agosto 2008