PELO E CONTROPELO DI FILIPPO FACCI ALL'INTERVISTA DI ANTONIO DI PIETRO: "NON E' ANDATA ASSOLUTAMENTE COSI'."

Filippo Facci per Il Giornale


Lasciatelo dire, lasciate che Antonio Di Pietro parli alla radio e scriva sui giornali e soprattutto arringhi dal centro del girotondo: è giusto, ha ragione, lasciate che dica qualcosa di sinistra, qualcosa di destra, magari qualcosa in italiano, insomma qualsiasi cosa che non ci faccia dimenticare come nel febbraio 1993 avesse la piena fiducia del novanta per cento degli italiani, equamente divisi tra chi gliene attribuiva "abbastanza" o "molta" o "moltissima", proprio così, il novanta per cento: in teoria nove persone sulle dieci che stiano leggendo questo articolo, cittadini pronti a cedergli qualsivoglia scettro che avesse preteso. Dunque lasciate che sia direttamente lui a ricordare, a questo Paese, i paradossi di questo Paese.

Fatelo parlare. Lasciate che su Repubblica di ieri, per esempio, Di Pietro si paragoni ad Annibale, e lasciate che tenti di suscitare mestizia rammentando i propri errori: "Sono solo - dice - e giro come un pazzo". Lui confida sulla particolare propensione degli italiani a perdonare se stessi: e tuttavia lui, l'uomo che ha fondato la propria carriera sulla galera altrui, per qualche strano motivo, è ancora ben lontano dal fare compassione. Lui confida sull'oblio del prossimo: a Repubblica che gli rimprovera di aver dispensato la galera come niente, per esempio, Di Pietro risponde in questo modo: "La cella per qualche ora. Uscivano quasi tutti al mattino seguente".

L'uomo è così, confida appunto che nessuno ricordi i sei mesi e mezzo del presidente del Coreco Saverio Damiani, i sei mesi e mezzo del presidente dell'Atac Mario Bosca, i cinque mesi del socialista Loris Zaffra, i quattro di Salvatore Ligresti, i quattro di Gabriele Cagliari, i quattro del socialista Giovanni Manzi, i quattro di Primo Greganti, i tre del giudice Diego Curtò, i tre del socialista Claudio Dini, e poi ecco, sì, forse ha ragione anche lui: a fronte di circa un migliaio di arresti, in effetti, la memoria comincia a diradarsi. Figurarsi quella dei lettori di Repubblica.

Ma bisogna sforzarsi. A Repubblica che gli rimprovera di aver spedito alcuni inquisiti direttamente al camposanto (i suicidi) Di Pietro ammette un paio di errori, giusto un paio: "Raul Gardini, lì forse ho sbagliato". E perché avrebbe sbagliato? Risposta: "Gardini sa che è venuta la sua ora, i suoi avvocati mi chiamano e concordiamo la presentazione spontanea in procura. C'è il un mandato di cattura sul suo capo e dunque i suoi uomini cominciano a cercarlo. Mi avvertono che è giunto a Milano e chiedono: lo arrestiamo? Dico di no, l¹accordo con i legali fissava all'indomani mattina alle 8 e 30. Se lo avessi fatto arrestare non si sarebbe ucciso. Lì ho sbagliato".



Ecco, bisogna sforzarsi: perché non è andata assolutamente così. Il 17 luglio 1993, nel giorno in cui il pm Fabio De Pasquale partiva per il mare lasciando Gabriele Cagliari in galera, filtrarono delle indiscrezioni su alcuni interrogatori che chiamavano appunto in causa Gardini. Quest'ultimo decise di chiedere un interrogatorio spontaneo come tra altri aveva già fatto Cesare Romiti della Fiat: sicchè mandò il suo avvocato in avanscoperta ma ecco, sorpresa, il legale tornò con le pive nel sacco. Il segnale fu preciso, precisissimo: non volevano interrogarlo, volevano arrestarlo, meglio: volevano interrogarlo da galeotto. Su di lui già pendeva una richiesta d'arresto vergata dal pm Francesco Greco.

La mattina del 20 luglio, poi, Gardini apprese che Gabriele Cagliari si era suicidato nel medesimo luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire. La sera del 22 luglio, poi, le agenzie di stampa diffusero alcune anticipazioni di quanto scritto sul settimanale Il Mondo, carte che appunto chiamavano in causa Gardini: e lui ci riprovò, mandò gli avvocati, ma niente da fare, nessuna presentazione spontanea: lo volevano proprio arrestare. Unica concessione, si fa per dire: rimandarono l'arresto all'indomani mattina perché ormai era pomeriggio e le perquisizioni in tal caso sarebbero proseguite sino a notte fonda. Ma Gardini non attese le manette e il mattino dopo si sparò con una Walther PPK 7.65 (secondo altri con una Browning 7.65) e insomma si suicidò.

Di Pietro, più tardi, incontrò il figlio di un avvocato che gli puntò il dito contro: "Queste sono le conseguenze dei suoi atti". Una giornalista invece ha raccontato che la prima reazione di Di Pietro fu questa: "Nessuno potrà più aprire bocca... In giro non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino". La prima cosa che Di Pietro fece in seguito, a cadavere caldo, fu mandare ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini. Questo è l¹uomo, questo è Di Pietro.

Ma la memoria, appunto, latita. Repubblica gli chiede ancora, affabile: "Chi altri ha mandato al Creatore per sbaglio?". E lui: "Luca Amorese, un dirigente socialista di Lodi, oddio, non era mica uno stinco di santo". Amorese. E chi se ne ricorda? Eppure ci sarebbe, anche qui, moltissimo da dire. Amorese si uccise il 15 giugno 1992 dopo un durissimo interrogatorio con Di Pietro. Quel mattino su era alzato prestissimo e si era presentato spontaneamente in procura, ma nel fare anticamera aveva appreso via cellulare, da sua moglie, che i Carabinieri l'attendevano con una busta gialla. Si sparò in serata.

Venti giorni dopo Enzo Biagi intervistò Di Pietro sul Corriere della Sera. Titolo: "Non amo le manette". Il magistrato disse a Biagi: "Amorese nascondeva in una cassetta quattrocento milioni. Li aveva tenuti per sè... Non ne aveva parlato neppure con la moglie". Ma quei soldi che Amorese "nascondeva" non verranno mai trovati: le cassette citate da Di Pietro si riveleranno vuote. Nessuno ne darà mai notizia: tantomeno il quotidiano dell'intervista necrofila, quel Corriere che aveva sbattuto in faccia a un suicida e a un paese e alla sua famiglia quei quattrocento milioni mai trovati. Circa un anno dopo, in compenso, il primo agosto 1993, Enzo Biagi annoterà su Panorama: "Sono già tredici i morti di Tangentopoli. Brutto numero: ma chi ricorda Roberto Amorese?". Certo non Biagi: Amorese si chiamava Renato. Scherzi della memoria. Ieri, per contro, Antonio Di Pietro parlava di Amorese e lo chiama Luca. Biagi e Di Pietro fanno entrambi, della memoria, un uso alquanto personale. Ma basta starci attenti, in fondo.

Dagospia.com 9 Settembre 2002