VILLAGGIO SVELA FELLINI - "UN GIGANTE DI FEMMINILITA'. TERRIFICANTE COME UOMO. AVARO, BUGIARDO, INCAPACE DI VOLER BENE. MA PREFERISCO 20 SECONDI DI UN SUO FILM ALL'INTERA FILMOGRAFIA DI SPIELBERG."

Leonetta Bentivoglio per La Repubblica


Federico Fellini aveva amici? «Macché», sostiene con torva perfidia Paolo Villaggio. «Diceva troppe bugie. Seduceva regalando menzogne. Però era caldo, fintamente accogliente. Una cuccia di finzioni. Usava vezzeggiativi per tutti. Paolo, Paolino, Paolettino. Diminuiva persino i diminutivi. Esageratamente affettuoso. Un po´ perché si sforzava di mostrarsi umile, visto che era un monumento, il che lo imbarazzava, e simulare affetti eccessivi gli pareva un antidoto al disagio. Un po´ perché era perseguitato dal bisogno di farsi amare. Dunque mentiva. Diceva: costui lo detesto, per poi fargli feste inaudite quando lo incontrava».

La letteratura su Fellini è sconfinata. Come l´agiografia che lo riguarda. Lo hanno esplorato saggi, monografie, documentari, volumi di aneddotica e testimonianze. Ma per Fellini non basta. L´uomo e il suo cinema hanno creato una galassia inesauribile, aperta a prospettive sempre nuove. Quella di Paolo Villaggio ha almeno un pregio: niente sentimentalismi. Ma pur se cattivissimo, Villaggio è un passionale incontrollato: non a caso è un bulimico confesso. È vero che su Fellini, di cui negli ultimi anni fu molto amico (anche se preferisce definirsi «un ascoltatore venerante e solidale»), lancia giudizi terrificanti.

Ma è altrettanto vero che al regista lo unì «un amore bestiale», capace di sprofondarlo in abissi di genuina commozione, descritti con la consueta smodatezza: «Poteva farmi piangere fino allo scioglimento. Quando facemmo La voce della luna mi emozionai più volte in modo devastante. Il film è la storia dell´incontro tra due matti. Uno, Benigni, crede di vivere con la testa all´ingiù; l´altro, il Prefetto, cioè io, è un paranoico convinto che il mondo sia una macchinazione ai suoi danni. Ci sono dialoghi e incontri, tra loro, che quando li rivedevo in proiezione mi sconvolgevano, provocandomi tempeste di singhiozzi».

Che ricordi ha di quel set? Come la dirigeva Fellini?
«Non usava sceneggiatura. Ogni giorno arrivava con certi fogliolini che consegnava a me e a Benigni. Poi, però, si faceva prendere dall´ansia e ci esortava: dite quel che vi pare. Così si finiva per improvvisare, cosa che a me, in quanto comico, si addice. Federico adorava i comici, proprio per la loro facoltà d´improvvisazione naturale. In fondo era un comico anche lui. Non a caso aveva odiato perdutamente Donald Sutherland, protagonista di Casanova: personaggio culturalmente possente, che fece diventare una specie di cavallo scemo».

Vi conosceste grazie a La voce della luna?
«No, l´amicizia era cominciata molto prima, per via di una mia scenetta su Canale 5. Interpretavo un presentatore anziano, goffo, inabile, con la bocca impastata dall´emozione, le mani come spugne. Il disgraziato chiede al pubblico: voglio una risata, un grande applauso. Ma la platea è di marmo. Spettatori rigidi e muti. Roba da nodo alla gola. A me piaceva. Eppure i funzionari di Canale 5 dicevano che era tristissima. Quando la cosa va in onda trilla il telefono ed è Federico che mi dice: Paolino, quella scena mi ha profondamente commosso. Era bravissimo a persuaderti che condividevi le sue emozioni, e quindi la sua grandezza, lusingandoti fino a farti venire voglia di frequentarlo».

A lei questa voglia venne subito?
«Certo. Fu un innamoramento. Mia moglie era gelosa delle nostre telefonate. Intime, prolungate. Lui era catturante. Una donna irresistibile. Una seduttrice».

Una donna?
«Federico era un gigante della femminilità. Il contrario del macho. E in quanto profondamente femminile, capiva meglio di chiunque l´erotismo, prerogativa delle donne, come dimostra la tragedia delle mogli, che sul versante erotico si sentono sole e incomprese, mentre i mariti credono ancora nel mito del buttare la femmina come un polpo contro il muro e aprirla in due. Fellini non lo avrebbe mai fatto. Era soffice, avvolgente. E a renderlo attraente c´era quella certa fragilità da baro».



In che cosa barava?
«Aveva il sospetto di giocare una partita truccata. Sai il mio timore?, mi diceva. Che si accorgano della mia mediocrità. Cosa che può accadere solo alle persone straordinarie. Quelle davvero mediocri non hanno mai coscienza del loro livello. Pippo Baudo e la Carrà credono veramente di essere Pippo Baudo e la Carrà. Lui invece non aveva mai la sensazione di essere quello che era. A momenti lo intuiva, ma questa consapevolezza lo faceva sentire isolato. E reagiva attaccandosi a persone con tre requisiti: bisognava somigliargli un po´, non essere troppo prevedibili e schematici e saper ascoltare le sue balle. Come tutti i grandi raccontatori, era un immenso ballista».

Vi vedevate spesso?
«Ogni giorno. Mi telefonava la mattina all´alba, e aveva già letto i giornali. S´incazzava sulle notizie, parlava male di altri registi (tutti, meno Bergman), mi citava i libri letti di notte, nelle sue crisi d´insonnia, mi regalava graziose frasi di Dostoevskij e di Kafka. Verso mezzogiorno (non più tardi, perché poi vengo attanagliato dalla fame), andavamo a mangiare da Cesarina, vicino a Via Veneto. E lì faceva il guardone».

Il guardone al ristorante?
«Certo. Invecchiando, per via della salute, era diventato controllatissimo sul cibo: impotente. Però faceva mangiare gli altri. Ordinava: prendi questo; assaggia questa scheggia di parmigiano con aceto balsamico. Gli dicevo: ma tu non la vuoi? E lui: macché! Magari! Poi, mentre mangiavo, mi contemplava con occhio avido. Era un voyeur del godimento altrui col cibo. Solo che a me mangiare troppo fa malissimo. Come vede sto esplodendo».

Cosa faceva con lui, oltre a mostrarsi mentre mangiava?
«Anche piccoli viaggi. Un giorno andammo a Rimini. Era d´autunno, e decidemmo all´improvviso di lasciare Roma per passeggiare sulla spiaggia di Otto e mezzo. Partimmo in macchina, con un autista fortunatamente muto. Federico voleva cercare i suoi posti. Mi diceva: andiamo a mangiare da "Ro e Bunina", dove una signora fa a mano le tagliatelle fresche, e mi descriveva nei minimi dettagli la preparazione. Si andava in quel posto ma la signora non c´era più. Si cambiava rotta: c´è un ristorante, raccontava, in cui si cala in acqua la bilancia, si tirano su i pescetti saltellanti e li si rovesciano subito in una padella d´olio bollente. Ci andavamo ed era spuntato un MacDonald».

Di cosa gli piaceva parlare?
«Di tutto. Era lampeggiante. Con lui non c´era un attimo di noia. Adorava le storie di magia. Era attratto da agopunturisti, stregoni, linfodrenaggi... Era fissato col mago Gustavo Rol, e quando ne raccontava i prodigi si capiva che li stava inventando. Un altro tema che lo affascinava era il futuro. Diceva che gli sarebbe piaciuto vivere non nel 3.000, ma nel 35.000, quando l´umanità avrebbe avuto una conoscenza talmente assoluta dell´universo da avere anche, forse, un´idea di Dio».

Credeva in Dio?

«Naturalmente no. Chi mai potrebbe? Però era ossessionato dall´aldilà. Si sa che la religione cattolica è spaventosamente vaga sull´argomento. A parte Dante, nessuno che si sia preso la briga di spiegarci il paradiso. E per di più il cattolicesimo ti prende in giro: adesso sei infelice, ma dopo la morte vedrai che goduria! Il buddismo e l´induismo, col nirvana e le reincarnazioni, hanno risolto il problema. Per non parlare di quelli della striscia di Gaza con la cintura piena di esplosivo: nell´oltretomba li attendono fontane di vino e ragazze stupende».

È vero che Fellini pensava di affidarle il ruolo di protagonista nel mai realizzato Viaggio di G. Mastorna?
«Verissimo. Non se ne fece niente perché Rol gli aveva predetto: se fai Mastorna muori. Superstizioso com´era, Federico aveva sempre rimandato. La storia, strana e confusa, era quella di un uomo morto che si trova a tornare nell´al di qua. Parlammo a lungo del film, e facemmo provini per studiare la faccia del protagonista, una specie di trucco clownesco. Ma non riuscì mai a trovare un produttore, che era il problema di tutti i suoi ultimi progetti. Poi fece i testi di un fumetto su Mastorna con i disegni di Milo Manara. Mi disse: Paolino, ho trovato un escamotage, non ho girato Mastorna, però l´ho fatto lo stesso. A dire il vero morì poco dopo la pubblicazione del fumetto. Il mago Rol aveva visto giusto».

Quando vi parlaste per l´ultima volta?
«Era ricoverato in ospedale, a Ferrara. Stava facendo la riabilitazione dopo l´ictus. Mi raccontò che quando si toccava le dita della mano destra era come sentire un mazzo di asparagi freddi. Lui aveva di queste immagini insuperabili. Perché era un genio. Terrificante come uomo. Avaro, crudele, incapace di volere bene. Ma in cinema non lo batteva nessuno. Preferisco venti secondi di un suo film all´intera filmografia di Spielberg».

Quali venti secondi, per esempio?
«Quelli del Rex in Amarcord. Io, nel '38 a Genova, il Rex l´ho visto davvero. Una mostruosità sconfinata, che bucava il nero denso del mare: una muraglia incombente e paurosa, un gigante come disabitato, una straordinaria apparizione extraterrestre. Quella montagna scura emerse per un attimo dall´inchiostro del buio e poi scomparve. Molti anni dopo Fellini, in Amarcord, seppe restituirmi in pieno il ricordo puntuale, intatto e deformato dell´infanzia. Pura emozione».


Dagospia.com 5 Agosto 2003