ITALIA TRA DUE ROSSORI - QUELLI CHE CI PROCURA BERLUSCONI, E QUELLI CHE CI PROCURARONO I SUOI PREDECESSORI (VIVA SANDRO VIOLA CHE FA NERI TUTTI I BLA-BLA.)
Sandro Viola per La Repubblica
La ragione principale che mi porta a desiderare la fine del gran caldo di quest´estate, non è il caldo in sé: è l´ossessionante ripetitività dei discorsi sul caldo. Gli scambi di battute con familiari, famigli e conoscenti, i titoli dei giornali, i servizi dei giornali radio. L´avvio obbligato d´ogni conversazione telefonica urbana o interurbana. Quella decina di vocaboli (un sostantivo, il caldo, e poi la serie degli aggettivi di grandezza e intensità), che andiamo pronunciando, ascoltando e leggendo ormai da due mesi.
Una coazione che si riproduce identica un giorno dopo l´altro, quasi senza varianti di lessico o tonalità, così ineluttabile che anche a essere totalmente sordi potremmo rispondere senza sbagliare, quando vediamo muoversi le labbra dell´interlocutore, «Sì, è vero, un caldo terribile».
A fine giornata, il pensiero d´aver ripetuto, riascoltato e riletto per l´ennesima volta quelle frasi grossolane, procura un sussulto. Affiora l´immagine delle beghine che biascicano meccanicamente nelle chiese, alle funzioni della sera, le loro vacue avemaria, si fanno strada oscuri timori: un´atrofia cerebrale, un degrado del linguaggio, i primi assalti della demenza.
Calcolando il tempo sprecato nella puerile lamentazione di queste settimane, quanto a lungo si sarebbe potuto giocare coi nostri animali, ascoltare Scriabin, mettere in ordine un po´ di vecchie carte?
Purtroppo, i discorsi sul caldo non sono il solo copione alla Ionesco che insistiamo imperterriti a recitare. Proprio a fine giornata, quando già ci opprime il peso d´aver così vanamente blaterato sulla canicola, un´altra coazione a ripetere si produce irresistibile. I discorsi su Berlusconi.
Incontriamo gli amici, uomini e donne che amiamo, stimiamo, con cui un tempo trascorrevamo serate piacevolissime, e gli amici, così come fanno ormai da dieci anni (dieci anni, un decennio intero, il decimo d´un secolo) intonano l´antifona antiberlusconiana.
Non c´è una, una sola sera in cui non s´abbandonino a quest´incomprensibile deriva. Il tempo passa, le nostre teste sono sempre più calve o più canute, e il grosso della conversazione d´una serata si svolge ancora attorno a Berlusconi. Sdegni, accenti amari, collere. E quasi senza variazioni, come i discorsi sul caldo o le litanie.
È una smania che osservo da tempo, su cui cinque o sei anni fa avevo già scritto, ma che ancora mi sconcerta per i suoi tratti frenetici. Non che Berlusconi sia difendibile: come Borges diceva dei peronisti, anche lui è difatti "incorreggibile". Ma che cosa spinge tante persone ammodo, che svolgono con fortuna le loro professioni, comprano libri, fanno bei viaggi, a incaponirsi tutte le sere dell´anno nello stesso discorso, nello stesso "crucifige", senza che le sfiori il pensiero d´aver detto le identiche cose, con gli stessi toni indignati, già due o tremila volte? Chi c´è da convincere, visto che a quei loro tavoli non seggono berlusconiani?
Tutto si può capire: la legittima aspirazione a un governo meno vociante e più capace, lo scandalo per l´uso a fini personali che Berlusconi fa della sua maggioranza in Parlamento, la riprovazione per la rissa tra il capo del governo e la magistratura della Repubblica. Cose serie, anzi gravi. Ma il fatto che se ne parli ogni santa sera dipende soltanto dalle magagne del Cavaliere, o anche da una specie di fissazione, un misterioso impedimento a parlar d´altro?
In ogni caso, su un punto almeno i critici di Berlusconi non hanno ragione. È quando si lamentano dell´immagine mediocre e un po´ ridicola - tra il guitto e il viaggiatore di commercio - che il presidente del Consiglio porta in giro nel mondo. Anche a me quell´immagine non piace. Ma sbaglia chi pensa che con Berlusconi siamo precipitati, in fatto di missioni dei governanti italiani in terra estera, dalle stelle alle stalle. Perché alle stelle non siamo mai stati: di regola ci siamo tenuti sempre più vicini alle stalle.
Ho sentito un presidente della Repubblica e un ministro degli Esteri tra le rovine di Persepoli, un pomeriggio di luci magnifiche, lamentarsi irritati che nel programma fosse stata inclusa la visita alla città di Serse. Il disinteresse dei due era totale, gli sguardi che rivolgevano all´archeologo iraniano incaricato d´illustrare la maestà di Persepoli erano così annoiati da risultare villani, uno dei due accusava ad alta voce un mal di piedi. Un guizzo d´attenzione lo ebbero per un bassorilievo che mostra una fila di dignitari avanzarsi, una mano sulla bocca in segno di sottomissione, verso Serse in trono. Lì ridacchiarono un po´. Il presidente della Repubblica disse: «Così dovreste venire anche voi al Quirinale...», il ministro degli Esteri si piegò in due dal ridere, e così finse di fare il seguito degli italiani. Tramontava, e Persepoli echeggiò di quello sconcio sghignazzo.
Ricordo anche un ministro degli Esteri in missione nella Cina dell´immediato dopo-Mao. Era uno dei momenti politici che avrebbero cambiato la storia dell´Asia e del mondo, perché Deng Xiaoping aveva già messo mano alle sue grandi riforme. Ma il nostro ministro degli Esteri restava insonnolito, accidioso, indifferente a tutto quel che riguardasse la Cina en mouvement. Solo un lunedì mattina sembrò ridestarsi. Latrava ordini ai tecnici delle trasmissioni, strapazzava i suoi portaborse, si muoveva come un leone in gabbia. Finalmente una linea telefonica con Roma venne stabilita, e il ministro corse fremente all´apparecchio. Urlava: «Che ha fatto la Juventus? E la Roma?...».
Per non parlare di quel ministro degli Esteri e varie volte presidente del Consiglio che un giorno, a San Francisco, andò a colloquio con Reagan e il suo segretario di Stato, Shultz. Lì cominciò a dire che il governo americano aveva preso un abbaglio, che Gheddafi era un galantuomo, che lui lo conosceva bene e ne garantiva la correttezza. Reagan e Shultz misero rapidamente fine all´incontro, uscirono con le facce scure. Un paio di mesi dopo ci fu l´attentato di Lockerbie: 210 morti per mano di due terroristi pagati con danaro libico.
Non lo sconsigliasse la carità di patria, quanti di questi episodi si potrebbero raccontare. E allora la scelta sarebbe tra due imbarazzi. Tra due rossori. Quelli che ci procura Berlusconi, e quelli che ci procurarono i suoi predecessori.
Dagospia.com 19 Agosto 2003
La ragione principale che mi porta a desiderare la fine del gran caldo di quest´estate, non è il caldo in sé: è l´ossessionante ripetitività dei discorsi sul caldo. Gli scambi di battute con familiari, famigli e conoscenti, i titoli dei giornali, i servizi dei giornali radio. L´avvio obbligato d´ogni conversazione telefonica urbana o interurbana. Quella decina di vocaboli (un sostantivo, il caldo, e poi la serie degli aggettivi di grandezza e intensità), che andiamo pronunciando, ascoltando e leggendo ormai da due mesi.
Una coazione che si riproduce identica un giorno dopo l´altro, quasi senza varianti di lessico o tonalità, così ineluttabile che anche a essere totalmente sordi potremmo rispondere senza sbagliare, quando vediamo muoversi le labbra dell´interlocutore, «Sì, è vero, un caldo terribile».
A fine giornata, il pensiero d´aver ripetuto, riascoltato e riletto per l´ennesima volta quelle frasi grossolane, procura un sussulto. Affiora l´immagine delle beghine che biascicano meccanicamente nelle chiese, alle funzioni della sera, le loro vacue avemaria, si fanno strada oscuri timori: un´atrofia cerebrale, un degrado del linguaggio, i primi assalti della demenza.
Calcolando il tempo sprecato nella puerile lamentazione di queste settimane, quanto a lungo si sarebbe potuto giocare coi nostri animali, ascoltare Scriabin, mettere in ordine un po´ di vecchie carte?
Purtroppo, i discorsi sul caldo non sono il solo copione alla Ionesco che insistiamo imperterriti a recitare. Proprio a fine giornata, quando già ci opprime il peso d´aver così vanamente blaterato sulla canicola, un´altra coazione a ripetere si produce irresistibile. I discorsi su Berlusconi.
Incontriamo gli amici, uomini e donne che amiamo, stimiamo, con cui un tempo trascorrevamo serate piacevolissime, e gli amici, così come fanno ormai da dieci anni (dieci anni, un decennio intero, il decimo d´un secolo) intonano l´antifona antiberlusconiana.
Non c´è una, una sola sera in cui non s´abbandonino a quest´incomprensibile deriva. Il tempo passa, le nostre teste sono sempre più calve o più canute, e il grosso della conversazione d´una serata si svolge ancora attorno a Berlusconi. Sdegni, accenti amari, collere. E quasi senza variazioni, come i discorsi sul caldo o le litanie.
È una smania che osservo da tempo, su cui cinque o sei anni fa avevo già scritto, ma che ancora mi sconcerta per i suoi tratti frenetici. Non che Berlusconi sia difendibile: come Borges diceva dei peronisti, anche lui è difatti "incorreggibile". Ma che cosa spinge tante persone ammodo, che svolgono con fortuna le loro professioni, comprano libri, fanno bei viaggi, a incaponirsi tutte le sere dell´anno nello stesso discorso, nello stesso "crucifige", senza che le sfiori il pensiero d´aver detto le identiche cose, con gli stessi toni indignati, già due o tremila volte? Chi c´è da convincere, visto che a quei loro tavoli non seggono berlusconiani?
Tutto si può capire: la legittima aspirazione a un governo meno vociante e più capace, lo scandalo per l´uso a fini personali che Berlusconi fa della sua maggioranza in Parlamento, la riprovazione per la rissa tra il capo del governo e la magistratura della Repubblica. Cose serie, anzi gravi. Ma il fatto che se ne parli ogni santa sera dipende soltanto dalle magagne del Cavaliere, o anche da una specie di fissazione, un misterioso impedimento a parlar d´altro?
In ogni caso, su un punto almeno i critici di Berlusconi non hanno ragione. È quando si lamentano dell´immagine mediocre e un po´ ridicola - tra il guitto e il viaggiatore di commercio - che il presidente del Consiglio porta in giro nel mondo. Anche a me quell´immagine non piace. Ma sbaglia chi pensa che con Berlusconi siamo precipitati, in fatto di missioni dei governanti italiani in terra estera, dalle stelle alle stalle. Perché alle stelle non siamo mai stati: di regola ci siamo tenuti sempre più vicini alle stalle.
Ho sentito un presidente della Repubblica e un ministro degli Esteri tra le rovine di Persepoli, un pomeriggio di luci magnifiche, lamentarsi irritati che nel programma fosse stata inclusa la visita alla città di Serse. Il disinteresse dei due era totale, gli sguardi che rivolgevano all´archeologo iraniano incaricato d´illustrare la maestà di Persepoli erano così annoiati da risultare villani, uno dei due accusava ad alta voce un mal di piedi. Un guizzo d´attenzione lo ebbero per un bassorilievo che mostra una fila di dignitari avanzarsi, una mano sulla bocca in segno di sottomissione, verso Serse in trono. Lì ridacchiarono un po´. Il presidente della Repubblica disse: «Così dovreste venire anche voi al Quirinale...», il ministro degli Esteri si piegò in due dal ridere, e così finse di fare il seguito degli italiani. Tramontava, e Persepoli echeggiò di quello sconcio sghignazzo.
Ricordo anche un ministro degli Esteri in missione nella Cina dell´immediato dopo-Mao. Era uno dei momenti politici che avrebbero cambiato la storia dell´Asia e del mondo, perché Deng Xiaoping aveva già messo mano alle sue grandi riforme. Ma il nostro ministro degli Esteri restava insonnolito, accidioso, indifferente a tutto quel che riguardasse la Cina en mouvement. Solo un lunedì mattina sembrò ridestarsi. Latrava ordini ai tecnici delle trasmissioni, strapazzava i suoi portaborse, si muoveva come un leone in gabbia. Finalmente una linea telefonica con Roma venne stabilita, e il ministro corse fremente all´apparecchio. Urlava: «Che ha fatto la Juventus? E la Roma?...».
Per non parlare di quel ministro degli Esteri e varie volte presidente del Consiglio che un giorno, a San Francisco, andò a colloquio con Reagan e il suo segretario di Stato, Shultz. Lì cominciò a dire che il governo americano aveva preso un abbaglio, che Gheddafi era un galantuomo, che lui lo conosceva bene e ne garantiva la correttezza. Reagan e Shultz misero rapidamente fine all´incontro, uscirono con le facce scure. Un paio di mesi dopo ci fu l´attentato di Lockerbie: 210 morti per mano di due terroristi pagati con danaro libico.
Non lo sconsigliasse la carità di patria, quanti di questi episodi si potrebbero raccontare. E allora la scelta sarebbe tra due imbarazzi. Tra due rossori. Quelli che ci procura Berlusconi, e quelli che ci procurarono i suoi predecessori.
Dagospia.com 19 Agosto 2003