MORO PER SEMPRE - IL MINISTRO PISANU BOCCIA BELLOCCHIO E RIVELA CHE "QUELLA VICENDA NON E' CHIUSA A CAUSA DEL SILENZIO DEI BRIGATISTI IN LIBERTA' E DI QUELLI RIFUGIATI ALL'ESTERO."

Bruno Vespa per Panorama


Una bella sofferenza, vero? Beppe Pisanu annuisce senza voltarsi. Il televisore del suo studio è ormai spento. La cassetta di Buongiorno, notte, il film di Marco Bellocchio su Aldo Moro, ha smesso di girare. Nella penombra della stanza, la stessa da dove per 55 giorni Francesco Cossiga tentò di salvare Moro senza riuscirvi, vedo che il ministro dell'Interno ha gli occhi lucidi. Gli si sono inumiditi una prima volta alle inquadrature iniziali del prigioniero mite e impotente, poi ancora quando Moro legge ai brigatisti la lettera alla moglie Noretta.

Pisanu era uno della «banda dei quattro», i quattro pretoriani del segretario della Dc Benigno Zaccagnini. Gli altri erano Corrado Belci, Guido Bodrato, Giovanni Galloni. Tutti morotei, tutti crocifissi dall'angoscia impotente di quel calvario sfociato nell'omicidio che segnò l'inizio della fine delle vecchie Br.
«Ricordo quei 55 giorni come un unico, interminabile giorno» mormora Pisanu. Al ministro il film non è piaciuto («Non ne condivido quasi niente»), ma la figura di Moro gli sembra «plausibile»: «C'è qualcosa della sua umanità, della sua mitezza, della sua straordinaria intelligenza che arrivava sempre al cuore e alla mente dell'interlocutore non prevenuto».

C'è una scena in cui i quattro brigatisti che tengono prigioniero Moro (Mario Moretti e Prospero Gallinari, innanzitutto) guardando una manifestazione in tv mormorano tutti insieme ritmicamente: «La classe operaia/ deve decidere tutto. La classe operaia/ deve decidere tutto». Erano davvero così, come dire?, scemi?
«No. Ciò che mi sembra di condividere della ricostruzione del film è la loro feroce ottusità rivoluzionaria. Ma si tratta comunque di personaggi trasfigurati dalla fantasia e dalla cultura di Bellocchio».

L'elemento che forse angosciò più di tutti gli amici di Moro furono le lettere. A nessuno di loro sembrarono autentiche. Ricordo che anche noi del telegiornale, che seguimmo quei 55 giorni senza un momento di respiro, ce le scambiavamo scuotendo la testa. Per quanto tempo, chiedo a Pisanu, voi pensaste che quegli appelli fossero imposti?
«Per un bel po'. Fummo influenzati certamente dalle analisi degli specialisti che ne facevano una lettura, diciamo così, scientifica. Ma alcuni di noi, e io tra questi, eravamo convinti che attraverso le lettere Moro parlasse ai brigatisti, che fossero i brigatisti i primi destinatari dei suoi pensieri e delle sue considerazioni. Il film mostra di credere a questa ipotesi quando fa dialogare Moro con i terroristi sulla lettera al Papa».

Eppure Moro parlava anche a voi, ai suoi amici.
«Non era facile essere lucidi in quei momenti in cui l'angoscia prodotta dal timore di non capire i fatti si mescolava alla paura di cedere alla violenza, umiliando lo Stato. E forse ancor di più al pensiero delle mortificazioni alle quali chissà come Moro, così sensibile, così delicato, poteva reagire in quei momenti».

Quando vi accorgeste che in quelle lettere c'era Moro per davvero?
«Non mi sento di parlare per gli altri amici di partito. Io ho sempre percepito in quelle lettere le vibrazioni del suo animo e della sua intelligenza, ma ho anche creduto ai condizionamenti che egli subiva e ho condiviso consapevolmente tutte le valutazioni che furono fatte in quei 55 giorni». Una pausa: «Non voglio ragionare col senno di poi».
Fui incaricato subito dopo il sequestro di fare la telecronaca dei funerali degli uomini della scorta. Ricordo che la voce mi si ruppe in diretta per la commozione, dinanzi a quelle bare coperte dal tricolore e abbracciate da vedove, fidanzate, figli.

Quanto influì la reazione durissima delle famiglie sulla vostra scelta di non aprire vere trattative?
«Influì con tutto il peso della tragedia che le aveva investite. Alcuni familiari degli agenti uccisi minacciarono di bruciarsi in piazza se noi avessimo aperto una trattativa con le Br. Furono momenti tremendi».
Eppure, qualche cauto sondaggio fu fatto.
«Pur senza cedere al ricatto brigatista, non si lasciò nulla di intentato per salvare Moro. Per esempio, fu presa in considerazione la possibilità di pagare come riscatto una cifra enorme per l'epoca, 5 miliardi di lire».
Fu il Vaticano a occuparsene, vero?
«Sapevamo che non ci sarebbero stati problemi per raccogliere una somma così grande e per versarla come riscatto».

Furono le Br a condurvi su quella strada?
«Non so francamente come nacque quella ipotesi. Ricordo che ci fu una ricerca affannosa di tutte le strade percorribili».
Il film di Bellocchio sposa la tesi che soltanto il riconoscimento politico delle Br come esercito combattente avrebbe potuto salvare Moro. Era davvero l'unica soluzione?
«Oggi penso che la richiesta principale dei terroristi fosse proprio il loro riconoscimento politico, nella convinzione che questo avrebbe aperto la strada a una adesione di massa alle Br e a una concreta esperienza rivoluzionaria».
Era quello che temeva soprattutto il Pci. Quanto ha influito la durezza di Enrico Berlinguer sulla decisione del governo di sposare la linea della fermezza?
«Ci fu indubbiamente una rilevante influenza».



Se non foste stati così duri, forse uno spiraglio in più per trattare si sarebbe aperto. «Non posso dirlo perché nel gruppo dirigente democristiano la scelta della fermezza maturò autonomamente. La posizione del Pci servì solo a rafforzarla, non a determinarla».
Venticinque anni dopo si può dire che fu una scelta giusta?
Pisanu tace. E dopo una lunghissima pausa sofferta dice: «Forse si sarebbe potuto fare qualcosa con lo scambio dei "prigionieri". In effetti si stava lavorando anche in quella direzione e il presidente della Repubblica Giovanni Leone era pronto a firmare la grazia per qualche brigatista non coinvolto in atti sanguinosi di terrorismo. Forse si sarebbe potuta esplorare anche una qualche forma di trattativa. Ma sono le mie riflessioni di oggi e, ripeto, ho una qualche riluttanza a parlare col senno di poi». Poi aggiunge deciso: «Non voglio cercare alibi di alcun genere per responsabilità che ho condiviso a carissimo prezzo con altri amici».

Come visse Zaccagnini quei giorni? Chi teneva in mano il timone, chi stabiliva la rotta?
«È difficile indicare una sola persona. Il gruppo dirigente si riunì con molta frequenza. Di certo ci fu una intesa costante tra segreteria del partito, presidenza del Consiglio e ministero dell'Interno».
Una delle immagini più controverse del film è quella che mostra Paolo VI mentre legge un appunto scritto di pugno da Giulio Andreotti su carta intestata della presidenza del Consiglio con la frase chiave della lettera del Papa agli «uomini delle Brigate rosse». Quella frase suggerisce che il rilascio di Moro avvenga «semplicemente, senza condizioni».

Dal momento in cui è entrato al Viminale, Pisanu ha appeso alle spalle della sua scrivania una copia di quella memorabile lettera del Papa che noi cronisti leggemmo con grande, emozionata trepidazione prima di darne notizia in una delle tante edizioni straordinarie del Tg1 di quei giorni.
«Rileggo spesso quella lettera» mi dice Pisanu «la conosco a memoria. Basta conoscerla, e basterebbe conoscere anche vagamente la personalità di Paolo VI per capire che fu scritta in assoluta solitudine e in preghiera».
Senza raccogliere suggerimenti da Andreotti?
«Né da Andreotti né da nessun altro. Nessuno avrebbe osato interferire con l'iniziativa del Santo Padre che godeva di un rispetto incondizionato e profondo da parte di tutti».

Ai funerali celebrati dal Papa non c'era la bara di Moro e non c'erano i familiari. Quando si interruppero i vostri rapporti con la famiglia Moro?
«Non so indicare un momento preciso. Ma non vorrei parlare di questo. Riconosco alla famiglia Moro il diritto di essere dura e severa dopo quello che ha patito e che continua a patire».
Mi è sembrato che Bellocchio abbia individuato nel Pci il difensore dello Stato e della legalità democratica (si veda il comizio di Luciano Lama e il ruolo dei vecchi partigiani), mentre la Dc appare come un partito di fantasmi prodighi di buone parole (Galloni, Flaminio Piccoli), ma esperti di veleni (il suggerimento di Andreotti al Papa).
«Il gruppo di partigiani descritto nel film» osserva Pisanu «mi è sembrato un pochino folcloristico. Ma è servito a sottolineare una sorta di loro paternità rispetto alle Br. Come spiega del resto il brigatista Alberto Franceschini nel suo libro».

E la Dc?
«È stata un grande partito democratico e popolare che ha fatto grande la democrazia italiana grazie a uomini come Alcide De Gasperi e Moro».
Non è ricostruita in modo grottesco la seduta spiritica alla quale partecipò anche Romano Prodi per l'individuazione del nome Gradoli?
«Sì, una scena grottesca e fastidiosa».
Ci si chiede spesso se la liberazione di Moro avrebbe disintegrato la Dc. Avreste retto?
«Sono certo che Moro non avrebbe fatto nulla per nuocere alla Dc, depositaria della storia e della sapienza, a lui strettamente legate, del movimento politico dei cattolici italiani. Del resto, durante la prigionia Moro non ha detto una sola parola, non ha fatto una sola rivelazione che potesse danneggiare lo Stato, le relazioni internazionali dell'Italia e lo stesso partito».

In conclusione, che cosa le è piaciuto del film?
«Il tentativo di riconoscere il comportamento di Moro dignitoso fino all'eroismo».
Da che cosa dissente?
«Da quasi tutto il resto. Anche la giovane brigatista che interpreta la Braghetti, se è credibile come personaggio di fantasia, a mio giudizio è del tutto inattendibile come riferimento al personaggio reale. Non dimentichiamo che nell'80, due anni dopo l'assassinio di Moro e quindi con tutto il tempo che aveva avuto per riflettere, quella donna ha partecipato all'assassinio di un altro uomo buono e giusto come Vittorio Bachelet».
Adesso parlo al ministro dell'Interno in carica. Che cosa lega le nuove Brigate rosse alle vecchie?
«Penso che ci siano alcuni elementi di continuità che passano in gran parte attraverso i brigatisti irriducibili ancora in carcere. Naturalmente il contesto storico è completamente mutato. L'antimperialismo delle nuove Br, per esempio, è una bandiera che non sventola più, anche perché è scomparsa l'Urss che rendeva credibile la lotta contro gli americani e l'Alleanza atlantica. Oggi le nuove Br sono concentrate sulla difesa intransigente di quel che resta della classe operaia, nella sua accezione marxista-leninista, come unica forza rivoluzionaria ancora disponibile. Per questo si battono contro tutto ciò che può alterare la fisionomia ideale della classe operaia e prendono di mira i riformisti che sostengono la flessibilità del mercato del lavoro e quindi il suo rinnovamento».

Avete arrestato una brigatista come Nadia Lioce che sembra della scuola dei vecchi irriducibili.
«Ha la stessa ottusa ferocia rivoluzionaria di un Mario Moretti. Crede che l'assassinio politico e l'uso sistematico della violenza possa ancor oggi spingere le masse alla rivoluzione».
Uno stato deve guardare alla storia e al futuro e chiudere certi capitoli del passato. Ma non trova che sia stato un gravissimo errore concedere libertà molto anticipata a brigatisti che custodiscono segreti vitali sul caso Moro e su tante pagine degli anni di piombo?
«Penso che il dovere preminente dello Stato sia accertare tutta la verità e poi stabilire se e in quale misura essere magnanimi».
Non mi pare che questa procedura sia stata seguita.
«Prima la verità, poi eventualmente la magnanimità».

Lei si sente tuttora impegnato a cercare la verità sul caso Moro?
«L'accertamento della verità è compito della magistratura».
Ma è compito degli investigatori metterla in condizioni di farlo.
«Nessuno qui al Viminale ne dubita. Peraltro, il sangue del sovrintendente della Polizia Emanuele Petri, caduto ad Arezzo, è ancora caldo, ma lo è anche quello di Biagi, D'Antona e via via fino a Moro, al maresciallo Leonardi e agli altri agenti della scorta. Le indagini che stiamo conducendo sulle nuove Br potrebbero aiutarci a completare il quadro complessivo di una vicenda storica non conclusa e che deve concludersi secondo verità e giustizia».

Ancora una pausa. Poi la conclusione, ferma e amara.
«Sono persuaso che se ci sono zone d'ombra in quella vicenda, esse dipendono dal comportamento mai lineare e sincero dei brigatisti ora in libertà e dal silenzio impenetrabile di quelli che si sono rifugiati all'estero. Su di essi, clemenza o non clemenza, io non ho mai cambiato opinione».

Sbaglierò, ma Beppe Pisanu «quella» verità non ha mai smesso di cercarla. 


Dagospia.com 3 Ottobre 2003