Rachele Ferrario per Dagospia
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L’Occidente si sente in colpa. E costruisce musei dedicati alle culture altrui. Intendiamoci: lo fa da più di cent’anni. Ma allora le maschere del Gabon, i bronzi del Benin, le sculture Tiki e le altre esoticherie erano considerate bizzarre curiosità, roba da Wunderkammer, come l’iguana imbalsamato e il coccodrillo impagliato con la bocca aperta. Si racconta che Maurice de Vlaminck sia stato il primo a portare a Picasso rozze statuette etniche, scovate in un caffè dei sobborghi di Parigi e che l’oste gli aveva regalato in cambio di un bicchiere di vino per tutti i clienti del locale.
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Ma poi sarà nelle stanze buie, deserte e impolverate della collezione etnografica del Trocadéro che Picasso troverà ispirazione.
È lui stesso a raccontarlo ad André Malraux: “Quando andai al Trocadéro, lo trovai rivoltante. Il mercato delle pulci. L’odore. Ero solo. Volevo andarmene. Rimanevo. Ho capito che era importante: mi stava succedendo qualcosa, vero?”.
Nascono così Les demoiselles d’Avignon: cinque prostitute catalane – del carrer d’Avignon, una viuzza di Barcellona – i cui volti vengono trasfigurati in maschere primitive; anche se le orecchie sono le stesse delle statuette iberiche che Apollinaire ha rubato al Louvre qualche anno prima.
picasso mudec les demoiselle d'avignon disegni preparatori
È il 1907. Picasso ha già intuito che l’Occidente sta per esaurire la spinta propulsiva e sa che il metro dell’arte all’inizio del nuovo secolo non potrà mai più essere bellezza o armonia, com’era stato per millenni. Proprio lui, spagnolo nato in Andalusia, dove la tradizione dell’arte iberica si fonde con le matrici antiche della civiltà africana, porta in sé il seme della modernità che travolge i canoni dell’arte del passato.
Arrivato a Parigi nello stesso periodo in cui vi giunge con sua madre Apollinaire, uno dei suoi mentori, Picasso non sa il francese ma ha la passione per il vino rosso e le belle donne.
Ambroise Vollard è felice di esporre i suoi dipinti ed è lì che conosce Max Jacob, poeta neurotico di talento, sensibile e molto più anziano di lui, ma pronto a riconoscerne il genio: non lo lascerà più e sarà uno dei suoi sostenitori più grandi insieme a Gertrude Stein e al gallerista Kahnweiler. Ma c’è un aneddoto che più di altri svela il carattere di Picasso. Una sera Max Jacob, già innamorato di lui, lo invita in albergo e gli legge i suoi versi in francese per tutta la notte; Picasso non capisce una parola, lo lascia fare e alla fine gli dice: “Lei è il più grande poeta dei nostri tempi”. All’epoca a Parigi si diceva “l’artiste est méchant”, l’artista è cattivo, disposto a tutto pur di sostenere la sua arte.
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Oggi però gli artisti sono buonisti; è l’Occidente a essere cattivo. Così come forma di espiazione abbiamo eretto nelle zone post-industriali delle nostre città musei come il Mudec di Milano, che in questi anni è diventato un centro d’incontro “democratico” con almeno tre appuntamenti in corso alla volta - da vedere anche Martin Parr appena aperta, Rodin e la danza che invece sta per chiudere – il self service al primo piano e il ristorante a tre stelle all’ultimo; a edificazione dei visitatori offre mostre interdisciplinari e didascaliche ma intelligenti come questa, che è un esempio virtuoso tra collezioni civiche milanesi e musei spagnoli.
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Nella mostra su Picasso c’è un solo capolavoro ed è a chilometro zero: La donna nuda del 1907 dalla collezione del Museo del Novecento. I milanesi che amano l’arte già lo conoscono ma qui lo ritrovano in dialogo con maschere Suruku in legno (della popolazionw Bamana del Mali) e due piccole teste dipinte da Picasso con la forza di un primitivo: raffigurano un indiano e un clown.
Il vero cuore dell’esposizione sono i disegni preparatori realizzati sui taccuini, che lo portano alla realizzazione finale delle Demoiselles; la maschera notturna - forse usata come un elmo dalle popolazioni del Camerun – ha la lingua a punta proprio come quella che Picasso userà in Guernica di cui qui ci sono due disegni molto belli.
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Il successo del Mudec non si spiegherebbe, però, senza considerare il linguaggio nuovo con cui queste mostre si raccontano. Le riproduzioni fotografiche dell’atelier di Picasso ricostruiscono la storia del suo mondo e la videoinstallazione con riviste d’epoca svela come fossimo in un’emeroteca, quanto il mito del primitivismo affascinasse l’arte e la cultura a Parigi e contribuisse a mutare l’immaginario e le forme dell’arte.
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