Giorgio Gandola per “la Verità”
alberto asor rosa
Nessuno è uscito dai partiti di sinistra più di lui. Ha sbattuto porte facendo tremare i cardini per tutta la vita, Alberto Asor Rosa, colpevole comunque di averle altrettante volte usate per entrare.
L'intellettuale disorganico più famoso d'Italia è morto ieri a 89 anni in una clinica di Roma dov' era ricoverato per problemi cardiaci e polmonari. Docente di Storia della letteratura all'Università La Sapienza (dove si era laureato nell'immediato Dopoguerra con Natalino Sapegno), totem letterario di ogni configurazione moderna del Pci, ha percorso l'esistenza sulla locomotiva di Francesco Guccini nella speranza che si schiantasse davvero contro la classe dirigente capitalista.
Per finire, come spesso accade ai rivoluzionari dall'anima in tumulto e lo stipendio fisso, a chiedersi il perché dell'esistenza davanti alla parola «identità» e a una cappella degli alpini.
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Comunista palindromo per antonomasia, Asor Rosa si chiamava così perché, spiegò un giorno «un signore bolognese, Giuseppe Rosa appunto, intorno al 1820 aveva voluto riconoscere un figlio naturale. Ma per distinguerlo da quelli legittimi aveva preposto al proprio cognome il suo contrario, rendendoci palindromi per sempre». Polemista fegatoso, ha combattuto con la sciarpa rossa ogni battaglia possibile, da quelle operaiste a quelle studentesche, giustificando in parte anche chi getta le statue dai ponti «perché la cultura occidentale si è imposta nel mondo proprio così. Però spazzare via il passato impedisce di capire il presente». La sua trasformazione in ecologista con il cuore a Capalbio è stata del tutto naturale.
Con una nuvola di capelli bianchi in testa e i baffoni candidi sotto il naso, Asor Rosa non fece fatica «al tempo degli Unni» (anni Settanta) ad accreditarsi come professore ribelle di formazione e identità marxista, capace di trasferire la rabbia dalle piazze in parlamento.
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Usò il Pci come un taxi, uscendone sconvolto dopo l'invasione dell'Ungheria nel '56 e rientrandoci una prima volta per essere eletto a Montecitorio nel '79. Nel suo percorso professionale ha diretto la monumentale Storia della letteratura Einaudi, ha firmato monografie (Nicolò Machiavelli, Thomas Mann, Joseph Conrad), ha tenuto corsi universitari affollati di adepti appassionati. Nel periodo d'oro il suo personaggio di punta era l'Orlando Furioso, che declinava in ogni situazione politica trovandolo un combattente ideale, testimonial nella sua stagione da collaboratore militante delle riviste Mondo operaio» e Mondo nuovo.
Non sopportava la Democrazia cristiana, snobbava il divino e se ne andò per la seconda volta dalla sinistra di lotta e di governo quando prese coscienza con orrore della fusione fra Pds e Margherita, papà e mamma del Pd dalle sette correnti. Per niente prodiano, detestava l'esportazione della libertà nella stagione del Clintonismo&Associati e la spiegava così: «L'idea dei neocon non era quella di creare delle gigantesche scuole di alfabetizzazione occidentale.
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Nella loro visione da leninisti antileninisti loro pensavano a fare dell'esercito americano l'ala marciante della democrazia». Nei suoi ultimi scritti si leggono sprazzi indulgenti nei confronti dell'identità dei popoli, a conferma che i comunisti duri e puri sono più affidabili dei polli d'allevamento global e radical. Asor Rosa aveva due ossessioni: Pier Paolo Pasolini e Silvio Berlusconi. Il primo fu definito da lui «un'icona pop reazionaria e populista» invitando la sinistra «non farne un santino, è un destino che non merita». Per mettere a tacere il secondo teorizzò un golpe in piena regola per «farlo fuori con un intervento dei carabinieri». Non aveva mezze misure e negli ultimi anni aveva sempre meno pazienza. Qualche anno fa fece rumore una sua polemica contro l'arrivo di un McDonald's in Borgo Pio, «a 70 passi da San Pietro» (li aveva contati) ma soprattutto a pochi metri da casa sua. Un intellettuale del suo calibro poteva sopportare tutto, non gli stomaci proletari ansiosi di Big Mac.
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