Antonello Piroso per la Verità
sono tornato
Massimo Popolizio è tornato. Sul grande schermo. Proprio oggi. Con un film in cui è un Benito Mussolini redivivo. Titolo: Sono tornato, remake del film tedesco, tratto dall' omonimo romanzo, Lui è tornato, dove «lui» è Adolf Hitler.
Madre siciliana, padre pugliese di Altamura, nato a Genova ma dopo un mese già romano «perché papà, rappresentante della Mira Lanza (la storica azienda di saponi e detersivi, ndr), fu trasferito nella capitale», Popolizio ha un cognome che si ricorda più della sua faccia.
Conosco bene il suo solido curriculum tra teatro, cinema e tv, tutti «d' autore», e le sue esperienze solo come voce, in sala di doppiaggio e in radio, però ho notato che qualcuno talvolta fa fatica ad abbinare il nome al suo volto. Si offende se glielo dico?
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«No, perché? Anzi, le dirò: in fondo l'"anonimato" ha giocato a mio favore e, credo, a favore del film. Nel senso che Marco Cohen dell' Indiana production (casa produttrice di Sono tornato, insieme con Vision distribution, ndr), che già mi conosceva, l' ha proposto a me - e non, per esempio, a Claudio Bisio, Maurizio Crozza o Luca Zingaretti - perché già solo la loro presenza fisica avrebbe connotato il personaggio, prevalendo su di esso. Occorreva invece, come dire?...»
Una professionale impersonalità che non fagocitasse il ruolo? Non si trattava di interpretare il Duce, ma di diventarlo.
«Ecco. Poi, sa, avendo più volte nella vita ricevuto proposte per progetti poi abortiti, mi sono detto: "Vediamo con questo come va a finire"».
Benissimo, direi: ho visto il film, lei risulta credibile evitando il macchiettismo, l' iperrealismo e il minimalismo «naturalistico». Non rotea gli occhi, non esaspera, ma al tempo stesso s' impone sulla scena. Perfino Alessandra Mussolini si è complimentata: «Non è caricaturale né a tutti i costi somigliante, ma proprio per questo risulta più vero».
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«Beh, i complimenti di uno spettatore fanno sempre piacere a prescindere. Le confesserò che quando mi hanno confermato l' inizio delle riprese, mi sono cagato sotto. Mi sono detto: e mo' come lo faccio? Poi ho studiato: ho letto libri, guardato filmati d' archivio, rivisto Mussolini ultimo atto, film di Carlo Lizzani in cui Rod Steiger era bravissimo».
Grande pellicola. Solo che quello era il Mussolini in fuga, crepuscolare, al capolinea della storia, qui invece è uno Zombi rivitalizzato.
«Certo, ho giocato anche sul registro del necessario spaesamento del Duce nel ritrovarsi nell' Italia di oggi, perfino infantile se volete, nello scoprire, che so, le nuove tecnologie. Il punto è che, viaggiando in divisa per il Belpaese, abbiamo scoperto che nei suoi confronti non scattava automaticamente la ripulsa, ma indulgenza, se non vero e proprio consenso».
Da questo punto di vista il film sembra omaggiare un certo zeitgeist, lo spirito dei tempi, almeno secondo quanto dichiarato dal regista Luca Miniero: «Mussolini oggi vincerebbe le elezioni».
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«È già stato molto detto e scritto, segno evidente che siamo andati a toccare un punto sensibile. Ecco perché sarò tranchant: dopo la visione di questo film - che spero non sia strumentalizzato, in un senso o in un altro, in campagna elettorale - mi auguro che nessuno si sogni più di abolire il reato di apologia di fascismo».
Perché?
«Mentre giravamo, soprattutto nelle parti di candid camera, in cui registravamo le reazioni autentiche delle persone comuni, ho avuto la netta percezione che la gente non sappia o non ricordi più cos' è stato il fascismo, e ne vagheggi in qualche modo il ritorno suggestionata dalla convinzione che l' uomo forte sia la soluzione. Tanto che taluni parlavano non all' attore, ma proprio a lui, a Mussolini, con affermazioni agghiaccianti: "Con lei non ci sarebbe il problema dei migranti, perché lei li bombarderebbe in mezzo al mare". Un clima diverso rispetto alla Germania, dove quando il finto Hitler camminava per strada, i tedeschi erano inorriditi, mica si facevano i selfie con il Führer. Da noi invece, tra ignoranza e rimozione, la censura sociale non scattava. Scattavano i saluti romani».
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Che morale bisogna trarne?
«Che Mussolini non aveva torto quando sosteneva: "Io non ho creato il fascismo.
L' ho tratto dall' inconscio degli italiani"».
Il fascismo come autobiografia della nazione, secondo la lezione di Piero Gobetti.
«Anche se poi lo stesso Mussolini sconsolato ammetteva: "Governare gli italiani non è difficile, è inutile". Che nel film fa il paio con: "Eravate un popolo di analfabeti, torno e vi ritrovo un popolo di analfabeti"».
C' è una sequenza che si regge sul racconto emozionato di una donna malata di Alzheimer, cui lei replica solo con espressivi piani di ascolto.
«Sequenza indispensabile in chiave, come vogliamo definirla?, strumentale? anche un po' ruffiana, per riequilibrare i brillanti toni da commedia che avrebbero potuto apparire assolutorii. Scena difficile da recitare, perché a fronte della drammaticità della testimonianza, volevo riuscire a restituire l' imperturbabilità del Duce, mischiata all' essere anche un po' angosciato essendo stato riconosciuto per quello che aveva fatto, con negli occhi anche il lampo della possibilità di tornare a rifarlo».
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A un certo punto appare una comparsa «a sua insaputa»: l' ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
«Stavamo facendo riprese frontali con me nella macchina scoperta, quindi l' operatore non poteva vedere cosa capitava alle sue spalle. Mentre eravamo in via del Corso, ho riconosciuto Alemanno e, mentre avvisavo l' operatore, l' ho salutato e lui ha risposto».
Immagino non con il braccio teso.
(Ride). «No, ha detto "ciao". Ma nel film non c' è perché in quel momento la macchina da presa non si era ancora girata arrivando a inquadrarlo».
Lei ha alle spalle anni di teatro ad altissimi livelli, spesso sotto la direzione di Luca Ronconi, che lei ha considerato come un secondo padre.
mussolini sono tornato popolizio
«Sbagliando, perché non poteva essere un padre, ma è stato sicuramente un maestro, da cui ho imparato tantissimo, guadagnandomi la sua fiducia con dedizione, impegno e sacrifici. Era un quid pro quo, non mi ha regalato nulla. Ma non bisogna scambiare un maestro per un padre, sono figure necessariamente diverse».
Sul tema la scorsa estate ha portato in scena al Meeting di Rimini un lavoro di Fabrizio Sinisi, Padre e figlio, con la regia di Otello Cenci. Cosa ha ritrovato di sé passando da Caino e Abele, a Abramo e Isacco, o Giacobbe ed Esaù?
«Il figlio che sono stato ma anche il figlio che non ho avuto, il padre che non sono mai diventato. Per paura. Tutto rimanda al rapporto con il mio, di padre, che soffriva di depressione, e io sono cresciuto con il terrore di finire anch' io così, come poi peraltro è successo. Ma alla fine tutto torna, e adesso ritrovo mio padre quando recito, cioè nel costruire un personaggio mi rendo conto che in realtà sto replicando una certa gestualità, una certa postura che è la sua. E la circostanza è per me di grande conforto».
Com' è stato il passaggio dal teatro al cinema?
«All' inizio faticoso, perché per me lo sguardo della macchina da presa era paradossalmente più invasivo di migliaia di occhi che ti scrutano nel buio di un teatro. Poi ho preso dimestichezza, ma se sono arrivato al cinema è sempre stato grazie al teatro. Recitavo al teatro Quirino di Roma, e Michele Placido, che mi vide, mi convocò una sera al ristorante: "Senti, domani vieni sul set che c' è una parte per te". E io: «Ma dove? Ma quale?».
SONO TORNATO
E lui: «Sei perfetto per fare Il Terribile in Romanzo criminale». Quanto a Paolo Sorrentino, nel 2007 recitavo al teatro Grassi di Milano con Anna Bonaiuto in Inventato di sana pianta, gli affari del barone Laborde di Hermann Broch, con la regia di Luca Ronconi, e in scena avevo barba e baffi. Anna mi disse che alla fine dello spettacolo Sorrentino mi voleva incontrare, io uscii ma aspettai invano. Sorrentino non mi aveva riconosciuto struccato, e se n' era andato».
Poi però la scelse per fare Vittorio Sbardella, il feroce ras andreottiano del Lazio, ribattezzato «lo Squalo», nel film Il Divo.
«Sbardella era un politico arrogante e volgare, e io che da giovane ho abitato in una dependance della villa sull' Appia Antica affittata da Paolo Cirino Pomicino, vedendo da lontano quello che arrivava alle sue feste sfacciate, posso ben dirlo: l' ambiente intorno a Giulio Andreotti era proprio quello rappresentato da Sorrentino. Che ha la magistrale bravura di fare un cinema simbolico, allegorico, ma senza trascendere la realtà».
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Sorrentino le offrì poi di partecipare a La grande bellezza, quando ancora si chiamava L' apparato umano, nei panni di un chirurgo plastico che si fa strapagare le iniezioni di botulino. Ma c' è stata anche tanta fiction: la ricordo in Era d' estate, sulla permanenza in isolamento all' Asinara di Giovanni Falcone (interpretato da lei) e Paolo Borsellino (Beppe Fiorello) che si preparavano per il primo grande maxiprocesso a Cosa Nostra nel 1986.
«Ricordo quando appresi dell' attentato a Falcone. Ero a Torino, al Teatro Carignano, stavo provando Misura per misura di William Shakespeare. A un tratto venne ad abbracciarmi Anna Maria Guarnieri, dicendomi: "E adesso cosa succede?". Fu una botta emotiva tremenda. Ma voglio anche ricordare che quando Falcone e Borsellino lasciarono l' isola, in cui erano stati segregati perché minacciati da Cosa Nostra, per tornare a Palermo, lo Stato presentò loro il conto del soggiorno, comprese le bibite che avevano consumato. C' è bisogno di aggiungere altro?».
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Massimo Popolizio