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    AVETE ROTTO IL CAZZO CON I “BAMBOCCIONI” – RICICCIA LA SOLITA STORIA DEI GIOVANI ITALIANI CHE RIMANGONO A CASA CON I GENITORI FINO AI 30 ANNI MENTRE GLI SVEDESI VANNO VIA A 17. TE CREDO: LÌ C’È UN SISTEMA CHE LI TUTELA E PENSA A LORO E NON ALLE RENDITE DEI PENSIONATI E DEI "BOOMER". E SOPRATTUTTO, GLI SVEDESI LAUREATI NON VENGONO PAGATI 700 EURO AL NERO (QUANDO VA BENE) PER UNO STAGE…


     
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    bamboccione bamboccione

    1 – NON CHIAMATELI BAMBOCCIONI

    Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera”

     

    Per uscire di casa, un giovane italiano ci mette dodici anni più di uno svedese. Leggo il rapporto Eurostat e cliché preconfezionati mi si proiettano in testa: il maturando Sven Larsson, arrotondata la borsa di studio con ingegnosi lavoretti, saluta senza particolare pathos il parentado e raggiunge in bici la nuova abitazione, mentre Luca Bamboccioni - trent' anni, una laurea, un master e zero redditi -- si stropiccia le occhiaie da pennichella e controlla i primi riccioli grigi nello specchio della cameretta in cui ha fatto tana dai giorni dell' asilo, sbuffando al richiamo della madre: «La pasta è in tavola!».

     

    Nella vita vera le cose non stanno così. Sven ha alle spalle uno Stato che aiuta i ragazzi persino più dei vecchi, stendendo una rete di protezione che consente loro di mettere in pratica il verbo della giovinezza: rischiare. Luca B. alle spalle non ha nulla: non uno Stato, non una politica e nemmeno un' economia disposte a credere in lui. Ha solo i genitori.

     

    BAMBOCCIONI BAMBOCCIONI

    I quali a parole lo vorrebbero autonomo, ma nei fatti sono spesso i primi a scoraggiare il suo spirito di iniziativa, che, quando c' è, va a cozzare contro impieghi nebulosi e stipendi insufficienti a garantire il livello di benessere di mamma e papà. In un Paese dove le rendite hanno superato da tempo il lavoro, ci sono ancora famiglie che possono permettersi di tenere di vedetta i propri figli, nell' attesa che arrivino i Tartari del posto fisso e ben remunerato. Ma fino a quando?

     

    2 – I 30ENNI ITALIANI A CASA CON I GENITORI «IN SVEZIA SI VA VIA 13 ANNI PRIMA»

    Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera”

     

    ETA' IN CUI I RAGAZZI LASCIANO IL NUCLEO FAMILIARE D ORIGINE ETA' IN CUI I RAGAZZI LASCIANO IL NUCLEO FAMILIARE D ORIGINE

    Li hanno chiamati sfigati o choosy , che in inglese sta più o meno per schizzinosi. E ancora inoccupabili, sdraiati o addirittura (come dimenticare?) bamboccioni. Etichette indovinate oppure no, il fenomeno che le ha generate è vivo e lotta insieme a noi. Anzi, sta crescendo. A ricordarcelo è un file di Eurostat, l'ufficio statistico dell'Unione europea.

     

    Per ogni Stato membro, il documento dice a quale età i figli vanno via di casa, lasciando il nucleo familiare d'origine, cioè mamma e papà. La media europea è intorno ai 26 anni, 25,9 per la precisione. In Italia siamo un filo sopra quota 30, 30,1 anni. Più tardi di noi, escono di casa solo gli slovacchi e i croati, rispettivamente a 30,9 e 31,8 anni. Non è una sorpresa, certo.

     

    Domenico De Masi Domenico De Masi

    Come non stupisce che in Svezia il momento del distacco arrivi ancora prima di diventare maggiorenni, in media a 17,8 anni. Tutti i Paesi del Sud Europa tendono a ritardare il momento dell'indipendenza, e questo non solo perché è più difficile trovare lavoro o perché il lavoro si cerca per altri canali, ma anche per una diversa visione della vita.

     

    Colpisce però che la forbice si stia allargando. Nel 2011, quando la grande crisi che di fatto non ci ha mai abbandonato era agli inizi, i giovani italiani lasciavano la famiglia d'orgine prima dei 30 anni.

     

    Per carità, appena prima, 29,7. Ma che cosa è successo se nel 2019 abbiamo superato la soglia non solo psicologica di quota 30 anni, mentre la media europea è scesa, seppure di uno zero virgola? «A me non sembra un segnale negativo, ma un aggiustamento per adattarci al mondo senza lavoro che sta arrivando» dice il sociologo Domenico De Masi, serafico come sempre. Lui invita ad alzare la lente di ingrandimento dalle tabelle dell'Eurostat e guardare quella che definisce la «striscia lunga dei dati». In che senso? «Nel 1891, in Italia eravamo 30 milioni e lavoravamo 70 miliardi di ore. Adesso siamo il doppio e lavoriamo quasi la metà di ore.

     

    giuseppe de rita giuseppe de rita

    Che la tecnologia non distrugga posti di lavoro è una bugia che ci raccontiamo tutti per stare un po' più tranquilli. E se c'è meno lavoro è inevitabile che si resti di più nella famiglia d'origine». Nessun problema, dunque? «No, un problema c'è. Chi resta in una famiglia ricca se la cava, chi resta in una famiglia meno ricca se la cava meno. Bisogna trovare altri modi per dividere la ricchezza. Finora lo abbiamo fatto proprio sulla base del lavoro, con gli stipendi e le pensioni. Ma se il lavoro tende a scomparire?».

     

    «In una stagione difficile come questa è inevitabile che le famiglie d'origine diano una mano ai figli per il sostentamento o per l'investimento in istruzione, e li tengano vicini», dice il fondatore del Censis Giuseppe De Rita. Ma non c'è il rischio che andando via di casa più tardi, i giovani italiani fatichino poi a nuotare in mare aperto? «Questo dipende molto dalle famiglie di provenienza. In linea di massima questo rischio non c'è anche perché non è mica vero che chi rimane nel nido ne approfitta sempre per non fare nulla. Semmai il rischio vero è un altro».

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    E quale? «Che ad addormentarsi sia proprio la famiglia di provenienza. Specie dopo il Covid e questo anno di assoluta mancanza di mobilità, non solo fisica, il problema può essere questo». Ma se ci spostiamo dalla sociologia alla psicologia, spuntano altre domande, altri problemi: «C'è sicuramente un fascino nell'essere trattenuti e la famiglia mediterranea tende a inseguire questa chimera del non lasciarsi», dice la psicoterapeuta Anna Salvo. «Il rischio è quello di finire in un'adolescenza protratta, quasi interminabile». E questo può essere un guaio serio. «Certo, perché noi abbiamo bisogno di movimenti oscillatori, di andata e ritorno. Altrimenti compromettiamo la nostra capacità di metterci alla prova. E quella è una ferita che può restare aperta per tutta la vita».

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