Gianmaria Tammaro per “La Stampa”
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A Liam Cunningham – attore e regista irlandese, classe ’61; famoso per aver interpretato Ser Davos in “Game of Thrones” – non piacciono i mezzi termini e le scorciatoie. Dice quello che pensa. Collegato dalla sua casa di Dublino, con un berretto calcato sulla testa, non si risparmia: ricorda, cita, scherza.
Adora le auto e le corse di Formula 1; ama il buon cibo, e appena può torna sempre in Italia. «Il modo di pensare degli irlandesi è molto più simile al modo di pensare degli italiani che a quello degli inglesi o degli americani. Abbiamo gli stessi valori e abbiamo lo stesso modo di affrontare le cose e i problemi. Non parlo la vostra lingua, ma sono sempre a mio agio nel vostro paese; mi sento me stesso».
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In Italia, Cunningham ha preso parte a “Domina”, la serie di Sky. Venerdì sera andrà in onda l’ultimo episodio. La stagione completa, invece, è già disponibile su NOW e su Sky on demand. «Mi è piaciuta l’idea di voler raccontare la storia dell’antica Roma dal punto di vista di una donna», racconta.
«Il mio personaggio è un padre che deve crescere da solo sua figlia; prova a spiegarle l’importanza della politica e della diplomazia, e le insegna a combattere con la spada. Le spiega il suo dovere nei confronti della Repubblica e non la tratta come una cittadina di seconda classe, ma come una persona. Ed è proprio questo che, poi, fa la differenza per la protagonista, Livia Drusilla (Kasia Smutniak), e per la sua vita».
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Nel 2004 è stato tra i protagonisti de “Il cartaio” di Dario Argento.
«Quando arrivi a Roma per la prima volta e devi girare un film con persone stupende come Stefania Rocca, è sempre un piacere. Ti fa amare il tuo lavoro».
Prima di fare l’attore, lei faceva tutt’altro. Com’è nato il desiderio di recitare?
«È una cosa molto strana. Non sono mai stato un grande appassionato di sport. Quando ero piccolo, giocavo a calcio. Ma niente di più. Crescendo, ho cominciato a prendere d’assalto i negozi che noleggiavano videocassette.
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Guidavo la mia moto e andavo a svaligiarli, letteralmente. Non mi accontentavo mai; volevo vedere sempre nuove cose. Ero curioso. Volevo sapere tutti i segreti di questo mondo. Come si fa un film, da dove si inizia? Come si mettono insieme i soldi e le persone, come si fa ad andare avanti?».
E che cosa ha capito?
«Che un film è tante, tantissime cose. Può farti piangere e disperare; può farti ridere. Per me è sempre stato una magia. Gli attori che riescono ad accedere alle tue emozioni, a entrarti dentro e a coinvolgerti: come fanno, mi chiedevo; qual è il segreto».
Facciamo un passo indietro; ripartiamo dall’inizio della sua carriera.
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«Ho letto un piccolo annuncio su un giornale, e ho deciso di provarci. Non sapevo che cosa aspettarmi. Non avevo nessuna certezza. Volevo trovare uno scopo. E quando ho cominciato a recitare, la mia fame e la mia curiosità sono aumentate, non diminuite. Finalmente ero riuscito a mettere insieme i pezzi di questo puzzle».
Ma perché proprio l’attore?
«Non voglio accontentarmi; voglio poter andare ogni mattina sul set e potermi divertire e scoprire nuove cose. Quando non succederà più, quando ogni giorno sarà uguale a quello precedente, sarà il momento di fermarmi. Adoro fare parte del processo, di una squadra. È estremamente gratificante condividere lo stesso punto di vista con un regista e con uno sceneggiatore».
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Non sempre le cose vanno bene.
«Provo a non arrabbiarmi troppo quando rovinano tutto o sbagliano qualcosa. Quando partecipi a un film, ti fidi delle persone; ti rimetti completamente a loro. Sul tavolo ci sono la tua fiducia e la tua passione. E a volte, dall’altra parte, non ci sono né la stessa visione né la stessa cura. Ed è una cosa che, francamente, ti spezza il cuore».
Ha mai pensato di fare il regista?
«Ho diretto alcuni episodio di “The Clinic”, una serie irlandese; andava in onda la domenica sera, subito dopo il telegiornale. Era una di quelle produzioni seguite e molto amate dal pubblico. Ci ho lavorato per quasi quattro anni. Ho altri progetti in mente. Un film. Con il covid, però, ogni cosa si è fermata».
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Ci siamo dovuti adattare.
«Avere una scadenza, avere delle date, mi permette di organizzarmi e di andare avanti. È un po’ come per voi giornalisti, no? Con le vostre deadline. Avere una tabella di marcia mi permette di concentrarmi».
10 anni fa andava in onda la prima stagione di “Game of Thrones”.
«Ed è incredibile, non è vero? Questa serie ha superato la dimensione televisiva; è entrata nel nostro modo di parlare. I politici la citano nei loro discorsi. E non è solo una cosa inglese, ma di tutto il mondo».
Che cosa ha significato, per lei, questo ruolo?
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«Ricevevo tantissime offerte per parti da cattivo, a causa della mia faccia. E ottenere un ruolo come questo, per me, è stato veramente importante. Davos è una persona normale, uno come tanti; è un ex-criminale che si ritrova coinvolto in cose più grandi di lui, e fa da guida per il pubblico. Riesce a essere il punto di vista degli spettatori».
Che tipo di esperienza è stata?
«Girare “Game of Thrones” è sempre stato complicato. Non è mai stato come lavorare a un film. Era più come una campagna militare. Dovevamo essere sempre pronti. La sceneggiatura non era solo una traccia. La seguivamo per filo e per segno, quello che c’era sulla pagina era quello che, poi, facevamo in scena. Era come Shakespeare».
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Era difficile?
«Assolutamente. E a volte David Benioff e Dan Weiss (i creatori della serie, nda) rendevano le cose ancora più difficili. E difficili, in questo caso, significa più interessanti. Spesso avevo lunghi monologhi, e dovevo portare la storia da una parte all’altra, senza fermarmi. Ho trascorso notti intere cercando la chiave giusta per una battuta, per trovare il ritmo migliore».
La prima volta che il suo agente le mandò il copione lei disse di no, di non essere interessato.
«Perché conosco quel tipo di produzioni; i film cappa e spada possono essere una tortura. Puoi farti male durante i combattimenti, devi ripetere una scena diverse volte, ed è estremamente stancante».
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Alla fine ha detto di sì.
«Quando il mio agente mi ha parlato di David e di Dan, che si sono conosciuti proprio qui, a Dublino, al Trinity College, e del coinvolgimento della Hbo, ho cambiato idea. A quel punto, mi hanno mandato la sceneggiatura del primissimo episodio, il pilota. E quando l’ho letto, ho immediatamente capito: non era solo una serie di draghi e non-morti; era una serie sulla politica, su quello che siamo, sulle relazioni che uniscono, o che separano, le persone».
È entrato a far parte del cast di “Game of Thrones” solo dalla seconda stagione. Perché?
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«Quando ho incontrato gli scrittori, mi hanno detto di voler prendere un’altra direzione per quella parte, che – preciso – non era Davos. Mi hanno promesso di richiamarmi per la seconda stagione. E io, in tutta onestà, non ci ho creduto. Non mi fidavo di Hollywood. E invece no, sorpresa, sono stati di parola. Mi hanno detto che li aveva convinti la mia interpretazione in “Hunger” con Michael Fassbender».
Qual è stato il primo personaggio che le hanno proposto?
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«Ser Jorah Mormont. La parte, poi, è andata a Iain Glen. E lui è stato semplicemente fantastico. Ha una faccia che esprime una malinconia estrema. Quando lo vedi pensi: gli deve essere successo qualcosa di terribile. Ovviamente, ecco, in senso buono».
Ha lavorato a diverse serie animate come doppiatore. Prima “Rick and Morty”, poi “Solar Opposites”. Ora “Masters of the Universe” di Netflix. L’animazione sta vivendo un periodo d’oro?
«Non proprio. Sono stati sviluppati progetti animati stupendi, è vero. I primissimi “Simpson”, per esempio. Con il covid, però, l’animazione ha cambiato marcia. Gli attori adesso possono andare in uno studio e rimanere separati, e i tempi non vengono minimamente allungati».
La voce è fondamentale.
«Ho lavorato a un podcast per Audible, una serie divisa in più episodi. Si intitola “Impact Winter”, uscirà a breve. È ambientata in un mondo post-apocalittico. E una volta, per noi, non c’erano i podcast; questa era la radio».
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Che effetto ha avuto questa pandemia su di lei?
«Dopo aver finito “Domina”, volevo prendermi una pausa. Non vale la pena, mi sono detto, lavorare solo perché ci sono ruoli disponibili. Volevo riflettere sul prossimo progetto. E ora eccoci qui, un anno e mezzo dopo. Per fortuna nessuno nella mia famiglia è stato male. I miei figli sono grandi, hanno tutti più di venti anni e praticamente non li vedo più. Con il lockdown, però, ho potuto passare più tempo con loro».
Durante la quarantena, abbiamo tutti visto più film e più serie tv in streaming. Qual è il futuro del cinema?
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«In questi anni, è diventato sempre più difficile per i film indipendenti essere prodotti e trovare una distribuzione. Lo streaming ha dato una possibilità a questo tipo di storie. E da un punto di vista puramente numerico, è una buona cosa. Ci sono più spazi. Ma non c’è niente in grado di sostituire l’esperienza della sala, quel tipo di emozione. Il cinema non morirà mai. Ci sono tantissimi nuovi protagonisti, ora, sul mercato. I produttori, secondo me, devono incontrarsi e parlare; devono trovare nuovi accordi e nuove distribuzioni. Insomma, devono muoversi insieme».
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Perché è così importante?
«Una volta, una persona mi ha detto: quando l’arte è conveniente, non è arte. E aveva ragione. Dal punto di vista economico, è perfettamente così. Non c’è niente, nella convenienza, per la tua anima. Dobbiamo produrre e lavorare a film con un peso e un significato, a film fatti bene, interessanti e appassionanti. Rischiamo davvero di avere solo prodotti: cose prive di essenza, fatte industrialmente. I film sono cultura, e la cultura è quello che siamo».
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