Finale a sorpresa
Félix Rivero ha realizzato il sogno di ogni star: ha sfondato a Hollywood e ci tiene a farlo pesare. La regista d'avanguardia Lola Cuevas lo scrittura al fianco di un'altra prima donna, Iván Torres, attore di teatro rigoroso ma non meno vanesio, per un film finanziato, a scatola chiusa, da un imprenditore farmaceutico miliardario che sogna di passare alla storia. Del cinema, almeno.
I tre - Antonio Banderas, Penélope Cruz e Oscar Martínez - sono i protagonisti della commedia nera Finale a sorpresa. Official competition dei registi argentini Gastón Duprat e Mariano Cohn. Applaudito a Venezia 78 sarà in sala con Lucky Red dal 21 aprile. Banderas è Félix.
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«Machista, viziato, capriccioso. Fosse stato davvero il mio ritratto non lo avrei fatto», racconta ridendo al Corriere.
Avrà preso da modelli reali.
«Certo, ho messo il peggio di ciò che ho visto nella mia carriera. Anche se ho vissuto a Los Angeles, non saprei arrivare ai suoi estremi. Ma gli riconosco dei meriti».
Per esempio?
«È un buon attore, sa giocarsi bene le ottime carte che la vita gli ha dato e sa trovare un equilibrio con Lola, anche lei con un ego ingombrante. Félix è un narciso puro ma lo è anche Iván, un narcisismo intellettuale il suo, più sottile e pericoloso. Ambiguo. Il film darà fastidio a qualcuno che si riconoscerà, è facile trasformarsi in ciò che si critica».
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Radiografia impietosa del mondo del cinema.
«Non è facile. Per questo è un ottimo film. La risata è diventata sovversiva, è politicamente scorretta per definizione. Ti puoi mettere nei guai per una battuta. Ma nell'arte la mancanza di libertà non funziona, l'autocensura è terribile, ora si ha paura delle reazioni, delle reti sociali, è un'epoca complicata per l'arte. Duprat e Cohn usano l'ironia come lente d'ingrandimento con cui guardare agli esseri umani, questa fiera della vanità in cui siamo immersi. Tutti e tre in realtà sono vulnerabili, come dei sopravvissuti nella giungla. In ogni campo esiste gente così, capace di uscire dal proprio personaggio solo di fronte a sentimenti veri. Come la paura della morte».
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Lei e Penélope, colonne della famiglia Almodóvar, per la prima volta coprotagonisti.
«Buffo che non sia successo prima. Mi ha chiamato con Javier Bardem, l'idea di lavorare con Duprat e Cohn è stata loro. Avevo visto Il cittadino illustre, mi era piaciuto tantissimo. Ci siamo visti nella mia casa di Londra e ho detto subito sì, ci siamo raccontati aneddoti di vita vissuta sul set che abbiamo usato».
Come Félix che prima di ogni scena fa un verso da mucca per sciogliere la voce?
«Esatto. Mi è capitato, non dirò mai chi è. All'inizio ho pensato che fosse davvero una mucca, poi gli ho fatto notare che magari per lui era utile ma per noi micidiale. Con Penélope sul set abbiamo giocato molto. Appena l'ho vista truccata, ho notato che era già Lola e la relazione è stata tra i due personaggi».
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Dopo «Dolor y gloria» dà l'idea di essersi liberato, come se non dovesse più dimostrare nulla.
«Conta anche l'età, siamo sinceri. Mi piace aver fatto due film che raccontano il mondo del cinema. In uno era il regista, qui l'attore. La prima aveva uno stile serio, solenne, qui il tono è di commedia».
Perché ha scelto di tornare a vivere a Málaga e aprire un teatro?
«La gente pensa che mi sia fatto il mio mausoleo dove seppellirmi. No, è una culla, il teatro è un bambino che spero cresca. Viviamo in un'epoca in cui le immagini che non sono registrate sembra non esistano, tutti fissi sui loro telefoni. Il teatro al contrario è immediato: ciò che succede ogni sera vive nel ricordo di chi l'ha fatto e visto».
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È regista e interprete del musical «Company», di cosa si tratta?
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«È una riflessione sulla vita di coppia, il patto tra due persone - che siano uomo e donna, due uomini, due donne - per adattarsi ai desideri e gusti dell'altro. Vorrei portarlo in tournée anche in Italia».
Nostalgia d'America?
«A volte sì. Mi manca mia figlia. Ma me la porto, è la mia seconda aiuto regia. Ha studiato teatro e cinema, voglio che lo metta in pratica».
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