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    I SOLITI INTELLO' NELLA TORRE D'AVORIO - BARICCO PARLA DI PAOLO ROSSI MA SUL MONDIALE DEL 1982 DICE: "ME LO SONO PERSO ALLA GRANDISSIMA. LA SERA DELLA FINALE ERO OSPITE NELL'ENTROTERRA LIGURE DI INTELLETTUALI COMUNISTI CHE NON SAPEVANO NULLA DI CALCIO. E QUANDO ABBIAMO VINTO C'ERA IL SILENZIO PIÙ TOTALE, ESULTARE SEMBRAVA COSÌ INELEGANTE... – LA MILANO DA BERE? ANCHE QUELLA ME LA SONO PERSA. CREDO CHE SIA STATA UN'ESPERIENZA ÉLITARIA, MENTRE LA GRAN PARTE DELLA GENTE FATICAVA. INSOMMA, DIRE CHE GLI '80 SONO GLI ANNI DELL'EDONISMO È UNA SEMPLIFICAZIONE…” 


     
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    Raffaella Silipo per "la Stampa"

     

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    «Oggi continuiamo a rivedere le immagini mitiche dei gol di Paolo Rossi al Mondiale 1982, credo che dovremmo rivedere anche come ha giocato male le partite appena prima: è una lezione da non dimenticare». Alessandro Baricco si definisce «grandissimo tifoso di calcio», ne scrive con amore e competenza, lo guarda con passione e talvolta sofferenza da cuore granata, lo gioca con la maglia numero 10 nella nazionale scrittori Osvaldo Soriano Football Club, da lui fondata qualche anno fa.

     

    Quale è la lezione che dobbiamo imparare da Paolo Rossi, Baricco?

    «Primo: che il calcio è irragionevole, irrazionale, misterioso. Il calcio ci stupisce sempre, proprio come quell' immagine di Paolo Rossi che appare dal nulla in area e subito scompare. Secondo: che nella vita si può venir fuori anche dai tombini più profondi. Per fortuna, per ostinazione, forse anche per destino. È un incoraggiamento per tutti: magari senti di non averne fatta nemmeno una giusta e, appena girato l' angolo, le cose cambiano. Non soltanto si raddrizzano un po', addirittura puoi finire sul tetto del mondo ».

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    A onor del vero non capita spesso... ma è forse per questo che l' Italia del 1982 si è identificata in Paolo Rossi?

    «Certo quella squadra e quella vittoria coincidevano con l' immagine che avevamo di noi stessi come popolo. Non eravamo all' altezza di altre squadre, prima di tutto fisicamente. Abbiamo vinto in rimonta, da outsider, da perdenti. Non eravamo degli dèi, gli dèi erano altri, noi eravamo provinciali e magrolini, come Paolo Rossi, appunto. È stata la vittoria del talento e di un' astuzia sapientemente nascosta e saltata fuori in area all' ultimo».

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    Una vittoria simbolica anche perchè ha aperto una nuova fase nella vita nazionale?

    «L' Italia del 1982 aveva un disperato bisogno di gioco, di leggerezza. Gli Anni Settanta sono stati durissimi, quasi un' anomala guerra civile. La gente aveva fame di allegria, per questo è così forte ancora oggi la gratitudine per Paolo Rossi che, come un giocoliere, è riuscito a regalarci momenti di felicità perfetta. No è un caso se è rimasto così profondamente impresso nella coscienza collettiva».

     

    La felicità di gioco era una caratteristica di Paolo Rossi?

    «Sì, e penso soprattutto al Paolo Rossi del Lanerossi Vicenza. Grandissimo, imprendibile in campo, molto più veloce e più leggero degli altri, l' incarnazione della rapidità, con un tocco di follia che prima si era visto solo nei giocatori olandesi, alla Crujiff per intendersi. Era l' alfiere di un calcio nuovo».

     

    Lei dove era la sera di quella finale?

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    «Ero in un momento un po' strano della mia vita, ospite nell' entroterra ligure di intellettuali comunisti che non sapevano assolutamente nulla di calcio. Mi sono ritrovato per tutta la partita a dover spiegare persino le regole base del gioco, dal contropiede al catenaccio. E quando abbiamo vinto, intorno c' era il silenzio più totale, esultare sembrava così inelegante... Dal terrazzo vedevo le luci della costa e la gente, lontano, che festeggiava. Insomma, quel Mondiale me lo sono perso alla grandissima. Per questo forse non ne ho mai scritto».

     

    E gli Anni 80? Come li ha vissuti Alessandro Baricco gli anni della Milano da bere?

    «Mi sono perso alla grandissima anche la Milano da bere. Mi sono laureato nel 1981 e poi è iniziato un periodo matto e disperatissimo di studio, lavoro e concorsi. Allora il mio scopo era insegnare all' università, poi mi sono accorto che per me era un mondo allo stesso tempo troppo noioso e troppo difficile. A parte il mio caso, penso che la Milano da bere sia stata un' esperienza per pochi, dilatata nella memoria collettiva grazie a cinema e tv.

     

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    Un po' come è successo con la Dolce Vita negli Anni Sessanta: un' esperienza élitaria, mentre la gran parte della gente faticava. Insomma, dire che gli Ottanta sono gli anni dell' edonismo è una semplificazione, non mi pare che dessero tutte queste chances, se si esclude una certa fiducia di tipo economico. Io penso che gli anni determinanti per l' Italia siano stati i Novanta».

     

    Diego Armando Maradona e Paolo Rossi hanno condiviso i giorni della fine, oltre che quei campi di gioco di Spagna 1982.

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    «È impossibile non subire il fascino di Maradona, un fascino che nasce proprio da quel suo essere sghembo, sbagliato, eccessivo. Mi annoiano gli sportivi a tutto tondo, troppo perfetti, alla Federer per intendersi. Mi piacciono gli sghembi, quelli che cadono e si rialzano».

     

    Anche Paolo Rossi è un po' sghembo, no?

    «Molto meno: nel calcio scommesse è finito quasi per caso, apparso dal nulla, come in area, e subito scomparso».

     

    Che scrittore sarebbe Paolo Rossi?

    «Un incrocio tra vari scrittori, una creatura mitica a più teste: ha la malinconia di uno Stefano Benni, l' astuzia di un Sandro Veronesi e un pizzico di follia tondelliana».

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