Maria Berlinguer per "la Stampa"
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Beppino Englaro segue le notizie che arrivano da Roma, dice di ammirare molto i radicali che da anni si battono per l'eutanasia. «Il Parlamento deve rispondere perché l'opinione pubblica è favorevole, lo richiede l'evoluzione culturale del paese» ragiona. Tuttavia, insiste, il caso della figlia Eluana, costretta a vivere per 17 anni in uno stato vegetativo contro la sua manifesta volontà, è un'altra storia, diversa.
Cosa intende signor Englaro, con una storia diversa?
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«La nostra è stata una battaglia per vedere riconosciuto il principio di ogni persona all'autodeterminazione. Fino alla sentenza della Cassazione del 16 ottobre 2007 che ha stabilito come l'autoderminazione terapeutica non possa avere un limite anche se ne consegue la morte. Nella vicenda di Eluana tutti hanno sempre tirato in causa l'eutanasia, hanno fatto quella confusione, ad ogni livello. Non solo quelli che urlavano in Parlamento ma anche i magistrati. Per arrivare alla Cassazione ho impiegato quindici anni e 11 mesi, 5570 giorni perché per un cittadino non c'è l'accesso diretto alla Corte Costituzionale».
Cosa pensa, nello specifico, del suicidio assistito?
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«È un tema che va affrontato, vanno date delle risposte. Io ammiro Coscioni, Cappato e i radicali che hanno portato avanti questa battaglia. La civilissima Olanda, diceva Montanelli, aveva riconosciuto l'eutanasia già nel 2002. Il Parlamento deve rispondere perché l'opinione pubblica è favorevole. Vuole una risposta. L'evoluzione culturale del Paese lo richiede. Ma se penso a quanto ci siamo dovuti spendere per vedere riconosciuto un diritto che già c'era, capisco la difficoltà nel vedere riconosciuta un diritto totalmente nuovo. Se sono capace di intendere e volere posso dire no alle terapie, oggi come nel ' 92. Diverso è chiedere aiutami a morire. Leonardo Sciascia, in "Una vita semplice", scrive che non è la speranza l'ultima a morire ma il morire l'ultima speranza. Un diritto che deve avanzare con una legge».
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Cosa rivendicavate invece per vostra figlia?
«Lei si era espressa nello specifico della situazione in cui sarebbe finita, perché era andata a trovare un amico nella stessa rianimazione dove un anno dopo avrebbero ricoverato lei. Eluana aveva potuto vedere fino a che punto si spinge la rianimazione e che sbocchi può avere. Si era espressa con un semplice "non a me, ricordatevelo". Noi ci siamo ricordati».
Lo diceste ai medici dopo il suo incidente?
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«Certo. Chiedemmo lo stato dell'arte dopo l'incidente e ci dissero che era di poco superiore allo zero. Spiegammo che lei aveva visto quanto successo ad Alessandro e che lo riteneva peggio della morte. Lei non aveva il tabù della morte. Fummo chiari con i medici sin dal primo momento, dicemmo che la scelta di Eluana sarebbe stata un semplice "no grazie, lasciate che la morte accada". Lo ripetemmo. Ma la situazione culturale del Paese non lo prevedeva. Il medico rispose di non poter non curare. E non c'era niente da dialogare.
Se Eluana fosse stata in grado di intendere e di volere il medico sarebbe stato costretto a dialogare e avrebbe potuto ascoltare un sì o un no. Non occorre essere costituzionalisti per sapere che la nostra Costituzione non lascia discriminare le persone per la loro condizione. Per il fatto di non essere in grado di intendere e di volere Eluana non perdeva il diritto di rifiutare le cure. E qualcuno le doveva dar voce. Lei aveva due genitori e noi abbiamo combattuto perché fossero rispettate le sue volontà»
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Diceva della situazione culturale del Paese. Che accadde?
«I medici e la situazione culturale del Paese non ci consentirono di rispettare la sua volontà. Eluana aveva il diritto di essere lasciata morire. Cosa fa la rianimazione? Interrompe il processo della morte, un'impresa lodevole, lo abbiamo visto con il Covid. Ma pochi sanno che ci sono anche risvolti tremendi. Ora però c'è una legge, la 219. Quindi oggi l'Eluana di turno non può essere imprigionata».
Le dicevano di tutto. Le diedero dell'assassino.
«Davo fastidio perché ponevo alla società civile e alle istituzioni una questione drammatica, perché il problema della vita e della morte fa paura a tutti. Ci furono follie».
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