Massimiliano Jattoni Dall’Asén per www.corriere.it
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Anche nel 2018 i «big del web» (ma anche del software) con una filiale nel nostro Paese hanno lasciato al fisco italiano solo poche briciole: 64 milioni di euro (che sono comunque un piccolo aumento rispetto ai 59 milioni versati nel 2017). Il saldo riguarda 15 giganti del WebSoft (Software & Web Companies) analizzate dall’area studi di Mediobanca, a cui si devono aggiungere 12,5 milioni di Apple. Nel dettaglio, Microsoft ha pagato 16,5 milioni, Amazon 6 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni, Facebook 1,7 milioni, Uber 153 mila euro e Alibaba solo 20 mila euro.
amazon
Va detto che l’aggregato delle controllate italiane (ubicate per la quasi totalità nelle province lombarde di Milano e Monza-Brianza) ha un peso minimo se confrontato al totale mondiale del settore: nel 2018 il fatturato ha nifatti superato i 2,4 miliardi (pari allo 0,3% del totale delle WebSoft), occupando oltre 9.840 unità (0,5% del totale). Il meccanismo utilizzato dalle big tech per risparmiare sulle tasse è comunque sempre lo stesso: spostare il fatturato delle controllate dal Bel Paese all’estero, e in particolar modo nei Paesi dove le aliquote fiscali sono decisamente più basse.
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Ad avvantaggiare i gitanti globali del web, l’assenza di una web tax, che li porta alla fine a trovare più conveniente pagare centinaia di milioni in transazioni (come nel caso di Google, che nel 2017 ha sborsato più di 300 milioni; o Apple che nel 2015 è arrivata a pagarne 318, mentre è andata un po’ meglio ad Amazon e Facebook: 100 milioni nel 2018), anziché fatturare nel nostro Paese il giro d’affari riferibile ai clienti italiani.
Ma dove finisce questo mancato gettito? Gli economisti di Mediobanca stimano che nel periodo 2014-2018 circa la metà dell’utile ante imposte dei colossi del web è stato tassato in Paesi a fiscalità agevolata come Irlanda, Singapore e Porto Rico, con conseguente risparmio fiscale di oltre 49 miliardi.
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