Tommaso Labate per il “Corriere della Sera”
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«Certo che sono contrario», ha scandito ieri pomeriggio quando in tanti l'hanno chiamato per chiedergli che cosa pensasse dell'obbligo vaccinale appena prospettato da Mario Draghi in conferenza stampa, tra l'altro a ventiquattr' ore dal suo voto in commissione Salute contro il green pass che ha fatto pericolosamente zigzagare la macchina della maggioranza.
«Suo», s' intende, di Claudio Borghi, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, «Signor No» apparentemente più inflessibile del vecchio giudice di Rischiatutto e frontman di quell'anima della Lega che presidia il fronte del pollice verso mentre il resto della ciurma, magari dalle postazioni di governo, quello stesso pollice l'ha appena alzato.
Gli ultimi tre anni da testa di ponte leghista nel mare di tutte le opposizioni possibili - all'Europa, all'euro, a Conte, a Mattarella, qualche volta a Draghi, alla Lamorgese, a Speranza, a tutti i Cinquestelle, ai lockdown, alle chiusure, alle zone rosse, arancioni, gialle e a volte anche a quelle bianche - l'hanno consegnato in perfetta forma all'ultima trincea, quella pericolosamente prossima al fronte no Vax, in cui si eleva a massima difesa della libertà individuale il no al lasciapassare verde che diventerà presto, Draghi dixit, una misura ancora più stringente.
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Ecco, quando succederà, Borghi potrà dire di averlo detto in anticipo, «l'avrà deciso il governo»; ma di essersi mosso in direzione ostinatamente contraria, come pedina della tattica di un partito di governo (in questo caso, la Lega) in cui il leader (in questo caso, Salvini) prevede l'occupazione di tutti gli spazi, maggioranza e opposizione, governo e lotta, green pass sì e green pass no, lasciando che parte dello spazio - quella di tutti No possibili - sia occupata per l'appunto dall'irriducibile Borghi.
D'altronde, che possa vantare un'abilità retorica fuori dal comune, unita a una fantasia rara in termini di elaborazione politica, lo si era capito qualche anno fa con l'ingiustamente dimenticato teorema dello sfilatino a credito. Teorizzando uno dei tanti scenari della retromarcia euro-lira, di fronte a chi gli prospettava i rischi per l'economia delle banche bloccate nel ricalcolo della valuta, Borghi scrisse: «Scusi, eh, non è che se le banche chiudono un mese, il panettiere lascia seccare gli sfilatini. Si segna a credito».
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A segnare le volte che un suo disegnino politico-economico è finito fuori dall'album, non basterebbe la carta di cento panettieri. «L'uscita della Grecia dall'eurozona è inevitabile, una cambiale a tempo determinato», disse sei anni fa. «Probabilmente accadrà già ad aprile», aggiunse subito dopo, evitando prudentemente di indicare l'anno dell'aprile in questione, tanto si sa di aprile ce n'è uno ogni dodici mesi e ogni aprile è buono per celebrare una Grexit.
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Stessa storia su Mario Draghi, dove s' è cimentato in uno slalom tra porte strettissime, da «Draghi dovrebbe smetterla di parlare di euro» (ottobre 2018) a «Draghi premier è la scelta più sovranista che potessimo fare» (febbraio 2021). Qualcuno, anche dentro la Lega, sostiene che Borghi faccia di testa sua, che molte delle sue uscite non siano concordate con Salvini e che nemmeno l'ultima, votare contro il Green pass, lo fosse. Di certo, all'alba del sodalizio, è stato il secondo a cercare il primo. Era una sera di otto anni fa, 10 luglio 2013, il telefono dell'economista squilla. «Buonasera, scusi per l'orario, sono Matteo Salvini. Disturbo?».
Il giorno dopo erano di fronte a un caffè a discutere dell'impatto sui mutui sulla prima casa del ritorno alla lira. L'inizio di una serie infinita di scenari immaginati, teorie elaborate, cospirazioni temute e sentieri battuti, tutti rigorosamente all'insegna del No. E che poi sono finiti nel bel mezzo del nulla, proprio come l'opposizione al green pass.
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