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Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera”
«Nessuno nella mia famiglia ha fatto l'agricoltore, per me è una scelta di vita, mi piace definirmi zappattore . Produco vino e olio biologici, ormai la mia è una piccolissima realtà consolidata. È anche un modo per capire dove va il mondo: se vuoi fare la rivoluzione devi partire dalla terra».
Non stupisce che Riccardo Scamarcio abbia accettato di buon grado di interpretare Elio De Angelis, in Alla vita, diretto da Stephane Freiss con Lou De Laage, prodotto da Ba.Be e Indiana, in sala dal 16 giugno con Vision. Un gallerista che inizia a occuparsi dell'azienda agricola dopo la morte del padre. «Ci unisce il legame con la terra. Nel suo caso, un rapporto quotidiano. Ha ereditato la proprietà di famiglia e si trova a mandarla avanti tenendo fede al suo senso dell'onore. Ha questo cliente, il signor Zelnik, capofamiglia di una famiglia ebrea ultra-ortodossa di Aix-Le-Bains che ogni estate passa un periodo da loro e per cui produce cedri kosher».
Elio è andato via e tornato. Anche lei da ragazzo è partito, andò a Roma per studiare al Centro sperimentale.
«Non avevo come lui bisogno di rompere, c'era in me un po' di ribellione da ragazzo ma, se avessi potuto, avrei fatto l'attore già a Andria. Ora sto bene, vivo tra Roma e Puglia».
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Cosa la spinge a accettare un ruolo?
«Sono scelte con variabili senza un obiettivo preciso. Mi interessano gli interlocutori, in questo caso i produttori che mi hanno presentato Stephan. Certo, mi è piaciuto il copione. È un film che si muove in punta di piedi su cose delicate: rapporti familiari, l'incomunicabilità e anche impossibilità di Esther, il personaggio di Lou, di scegliere la propria vita».
E il dogmatismo religioso.
«Ne parla in modo intelligente. Sono molto osservanti di regole oggi considerate obsolete. Ma racconta anche il senso di altre, come quelle della cucina kosher che può sembrare follia ma risponde a una logica. Il film si muove su un piano di critica costruttiva a dinamiche punitive ma con attenzione ai valori della cultura di un popolo».
Parla anche di paternità. È cambiato il suo modo di vederla da quando è nata sua figlia?
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«Sono diventato padre al cinema già da diversi anni, per esempio nel film bellissimo La prima luce di Vincenzo Marra. Diciamo che mi sono allenato».
Che padre è?
«Un po' instupidito, mi squaglio. La vita ci insegna che il tempo è il bene più prezioso, con il passare degli anni capisci perché tuo padre ti diceva certe cose».
Da produttore come sceglie i progetti?
«Provo a fare dei film che abbiano un imprinting un po' politico, che mettano in luce aspetti culturali della nostra penisola. Che facciano sognare e emozionare e lancino riflessioni. Il cinema per me è luogo di evasione e libertà».
Ha prodotto, oltre che interpretato con Benedetta Porcaroli, «L'ombra del giorno» di Piccioni.
«Un film classico, ne sono orgoglioso come attore e produttore. L'ho preso in corso d'opera. Ambientato tra il 1938 e il 1940, tra leggi razziali e l'escalation verso la Seconda guerra mondiale, mentre con superficialità molti pensavano fossero solo scaramucce. Vedendo la guerra ora, penso alla lungimiranza di Piccioni di riportare l'attenzione su un periodo cruciale».
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Attore, sceneggiatore, produttore. E regista?
«No. Ce ne sono tanti, non ne serve un altro. Ho pensato che fosse meglio imparare la lingua della burocrazia per aiutare altri a girare».
Per esempio Mordini. Ora è sul set di «2 win».
«Io e Stefano ci conosciamo bene, c'è sintonia, grande fiducia. Fare film è impresa difficile. Ora si parla di algoritmi, è sbagliato: servono persone che condividono un'avventura e un sogno. Giriamo in inglese, è basato sui Mondiali di rally del 1983, io sono Cesare Florio e nel cast c'è Daniel Brühl, è Roland Gumpert dell'Audi».
Quando vedremo «L'ombra di Caravaggio» di Placido?
«Non si sa ancora. Una grande storia. Hanno cercato di osteggiare un artista con un talento pazzesco, un innovatore per tecniche e capacità di comunicare. Ha fatto diventare santi e madonne le persone normali, straccioni, prostitute. Lo vedo come Elvis Presley, Freddy Mercury: una star che non ha paura di esprimere ciò che pensa. Un talento così assoluto che pure i suoi detrattori se ne innamorano».
Vent' anni fa il suo esordio con «La meglio gioventù».
«Un'esperienza magnifica, molto formativa, a proposito di rapporti umani. Mi ha dato l'imprinting. Ricordo il primo giorno, il mio primo su un set cinematografico, in Toscana con Lo Cascio, Gifuni, io ancora a scuola. Alla fine mi sono trovato a giocare a pallone con Marco Tullio Giordana e gli attori. Poi grigliata. Ho detto: questo è il paradiso».
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