Emiliano Guanella per la Stampa
posti di blocco brasile
L' eterno Paese del futuro, oggi è letteralmente in ginocchio. Con lo sciopero dei camionisti, arrivato al decimo giorno consecutivo, il Brasile scopre, di nuovo, tutta la sua fragilità e all' incertezza politica si aggiungono ora i timori per una nuova crisi economica che potrebbe cancellare i debolissimi segnali di ripresa registrati negli ultimi mesi.
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L' agitazione dei trasportatori iniziata il 21 maggio contro il rincaro del prezzo del diesel ha sorpreso un po' tutti. Da Porto Alegre all' Amazzonia, passando per gli Stati agricoli e le grandi metropoli come San Paolo, Rio e Belo Horizonte, ha paralizzato l' attività produttiva di un Paese da 205 milioni di abitanti con scuole e uffici pubblici chiusi, aerei a terra, pendolari che non sono riusciti ad andare al lavoro per la mancanza di autobus, ospedali in stato d' emergenza.
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I manifestanti hanno organizzato più di 500 posti di blocco sulle principali arterie, le autostrade sono state ridotte a una sola corsia, nessun camion riusciva a passare. La protesta sta lentamente rientrando, ma per tornare alla normalità ci vorrà almeno un' altra settimana. Le perdite economiche sono enormi, soprattutto nell' agricoltura, e nell' industria.
Pessima la gestione della crisi da parte del governo. Il presidente Michel Temer si è riunito con dei rappresentanti sindacali e ha fatto delle concessioni parziali per la fine dello sciopero, ma la base ha rigettato l' intesa.
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Con una popolarità sotto il 5%, Temer ha chiamato le forze armate per sgomberare i picchetti e liberare le strade. I militari sono intervenuti, ma solo per scortare i camion cisterna con la benzina fino alle stazioni di servizio e non si sono prestati a usare la forza contro i manifestanti, molti dei quali, in realtà, sono scesi in strada con bandiera del Brasile inneggiando addirittura ad un intervento degli stessi militari per cambiare il governo.
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Una situazione paradossale, che si spiega solo col confuso clima politico brasiliano, dove le forze armate sono sempre più protagoniste. Quando le cose vanno male, Brasilia chiama l' esercito a mettere ordine.
Negli ultimi mesi è successo in una mezza dozzina di casi, tra cui lo sciopero dei poliziotti nel Nord del Paese, per combattere la criminalità a Rio de Janeiro o, appunto, nella crisi dei camionisti.
Secondo un recente sondaggio l' ottanta per cento dei brasiliani ha piena fiducia nei militari, più del doppio di quella raccolta da governo, Parlamento, Chiesa o mezzi d' informazione.
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Sui social media sono centinaia i gruppi che chiedono un ritorno della dittatura, che in Brasile durò per ben 21 anni (1964-1985) e a capitalizzare tutto questo è Jair Bolsonaro, candidato di destra alle presidenziali di ottobre, che vola con circa il 20% di intenzioni di voto, primo su tutti nel caso più che probabile di non candidatura dell' ex presidente Lula da Silva, oggi in prigione per corruzione.
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Non a caso, lo stesso Bolsonaro è stato l' unico politico a schierarsi apertamente a fianco dei camionisti contro il «governo ladrone» di Temer e compagni. Secondo un recente sondaggio Datafolha quasi il 90% dei brasiliani ha appoggiato lo sciopero, anche perché gli aumenti della benzina sono caduti su tutti gli automobilisti brasiliani.
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Sul banco degli imputati c' è la Petrobras, la compagnia petrolifera nazionale che ha aumentato del 30% il prezzo del diesel e del 20% quello della benzina nell' ultimo anno. Pedro Parente, nuovo presidente di quella che è la maggiore società latino-americana quotata alla Borsa di New York e anche la più colpita dal maxi scandalo di corruzione che ha investito la politica brasiliana, ha seguito le indicazioni del governo Temer mettendo fine al «congelamento sociale» dei prezzi attuato dai governi di Lula e Dilma Rousseff.
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L' aumento del prezzo del petrolio ha fatto il resto e il conto, alla fine, è stato salato per tutti. In una settimana di sciopero la compagnia ha perso un terzo del suo valore di mercato, bruciando oltre 20 miliardi di euro.
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Ma è tutta l' economia brasiliana, appena uscita da una forte recessione, a soffrire per l' attuale congiuntura: nel primo semestre dell' anno la crescita del Pil è stata appena dello 0,4%, trainata per lo più dall' agrobusiness, l' esportazione di carne e soia verso i mercati asiatici.
Il «Paese reale» non cresce e fra gli investitori stranieri, tra cui anche importanti società italiane come l' Enel, regna una profonda incertezza in attesa di capire che governo verrà dopo le elezioni di ottobre.
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Dai sogni di grandezza del boom economico degli anni di Lula, alla doccia fredda della recessione e degli scandali di corruzione, il Brasile sembra oggi un gigante dai piedi d' argilla; ogni passo falso compromette una crescita che stenta a decollare.
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